venerdì 4 settembre 2020

Mattia Santori Leader del movimento delle Sardin - Il taglio indebolisce gli elettori, non gli eletti. Perché noi Sardine siamo per il No

 

Il taglio indebolisce gli elettori, non gli eletti. Perché noi Sardine siamo per il



dal Blog di 

Mattia Santori
Leader del movimento delle Sardin

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PS:...in estrema sintesi del ragionamento del leaser delle Sardi....:...primo scalino per un'"uomo solo al potere"...!...non importa di che colore, ma ricorda bene il "ventennio" della prima parte del sedolo scorso!

umberto marabese

Mi è stato chiesto spesso, in qualità di portavoce del movimento 6000sardine, quale fosse la ragione per esserci schierati così nettamente a sostegno del No al referendum.

In questa epoca in cui le interazioni sono immediate e consumistiche, è raro avere un spazio per approfondire e poter spiegare le proprie ragioni (soprattutto quando queste, come spesso accade in politica, sono lunghe e complesse). Ringrazio dunque il direttore per questa occasione concessami.

Sì, no: le due possibili risposte intorno alle quali vanno creandosi due schieramenti opposti. Il referendum, si sa, non è la modalità d’espressione migliore per chi ama le sfumature. Se la risposta non può che essere netta, o bianco o nero, o Sì o No, è importante capire esattamente quale sia la domanda.

Ma ci siamo chiesti quale sia la domanda e la posta in gioco di questo referendum? Forse, per capire davvero l’importanza di questa votazione del 20-21 Settembre è necessario fare un passo indietro e guardarla in prospettiva.

La riforma sul taglio dei parlamentari su cui saremo chiamati a esprimerci, rappresenta il culmine di un processo di delegittimazione del Parlamento e delle istituzioni repubblicane. Il taglio dei parlamentari, travestito di riformismo nel nome dell’efficienza e del risparmio, è in realtà l’apice dell’antipolitica e rappresenta un grave rischio per la rappresentanza dei cittadini e il funzionamento dello Stato.

Non voglio essere frainteso e perciò farò una precisazione: l’ondata anticasta ha avuto e ha delle motivazioni valide, assolutamente degne di attenzione, e tutt’altro che secondarie. È del tutto legittima la frustrazione per l’attuale classe dirigente, che in questi anni non è stata in grado di dare risposte credibili a temi fondamentali e problemi profondi come la disoccupazione (soprattutto giovanile), i morti sul lavoro, l’impoverimento delle classi sociali più deboli, accessibilità ai servizi e molto altro.

Ma cavalcare l’onda di queste sacrosante frustrazioni non può giustificare questa riforma, che finirà per indebolire, ancora una volta, gli elettori, non gli eletti. Su questo aspetto, noi sentiamo il dovere civico e morale di porre l’accento: non possiamo lasciare che vinca il Sì, si tratta di un atto di autolesionismo che deve essere evitato.

Quando abbiamo deciso di schierarci decisamente in favore del No, lo abbiamo fatto per senso di responsabilità. Siamo stati tra i primi soggetti a prendere una posizione in maniera così decisa. Oggi il fronte del No si sta rafforzando: vogliamo credere che almeno in minima parte questo consolidamento sia merito nostro.

Non ci siamo posti il problema dei sondaggi. Ci sono cause per cui bisogna battersi fino in fondo, per cui vale la pena spendere energie ed entusiasmo a prescindere dal risultato. Non siamo un partito e perciò possiamo concederci questa ‘libertà’: combattere per quello in cui crediamo senza ragionare in termini di ritorno elettorale e di consensi.

Per questo motivo possiamo anche permetterci il lusso di dire schiettamente, e a voce alta, che nel mondo politico, e dunque anche fra i sostenitori del Sì, questa riforma suscita non poche perplessità. Che cosa voglio dire con questo?

Anche in ambienti grillini e tra i tanti - apparentemente convinti - fautori del Sì, quando i riflettori si abbassano, vengono riconosciuti tutti i limiti di questa riforma, che, allo stato attuale, innescherebbe una serie di danni non secondari per i territori periferici e per il Sud.

Questa riforma, che tanto accende gli animi di elettori ed eletti, è fatta male e peggiorerà la vita politica del Paese: questa è un’opinione diffusa, non soltanto la nostra.

Ma la volontà di mostrarsi agli elettori italiani come indomiti – ma ciechi - paladini della causa anti-casta sembra essere troppo impellente.

Torniamo al nostro dubbio iniziale: sappiamo che la risposta al quesito referendario può essere “sì” oppure “no”. Ma la domanda, esattamente, qual è?

Il taglio dei parlamentari potrebbe anche essere condivisibile, lo abbiamo più volte detto. Ma si tratta di una riforma che dovrebbe essere inquadrata all’interno di un più ampio e serio progetto di modifica dell’assetto parlamentare: la revisione del bicameralismo perfetto. Insomma, non dovrebbe prevalere l’ottica di antipolitica ma quella del riformismo (ma riformismo davvero, non quello che oggi viene usato da alcuni a sproposito per legittimare il proprio feeling col centro-destra).

Proporre questo taglio in maniera demagogica, senza garantire tutele per la rappresentanza delle aree più deboli significa inseguire l’applauso facile (ma dannoso), significa avere più a cuore il proprio consenso che il proprio Paese, significa abbracciare la demagogia per tornaconto elettorale infischiandosene delle ricadute.

Un leader, però, è qualcuno in grado di guidare, di indirizzare, di correre dei rischi e non di seguire semplicemente la strada più facile, il consenso e i sondaggi.

Bisogna avere il coraggio, oggi più che mai, di lavorare con senso di giustizia alla risoluzione dei problemi reali della gente reale. Se si è capaci di trovare questo coraggio, la storia ricompenserà. E alla fine, come in un circolo virtuoso, anche i sondaggi lo faranno.

Vi è stata un’epoca in cui i partiti erano davvero di massa, con centinaia di migliaia di iscritti. Erano davvero uno spazio in cui discutere, dialogare e modificare, insieme, la realtà.

Rafforzare i partiti, costruire basi solide sui territori e trasformarle in veri luoghi di dialogo e formazione dovrebbe essere il primo passo per ritornare a quel modello di politica di successo.

Solo in questo modo si potrà ottenere il rinnovamento della classe dirigente e il conseguente ritorno alla partecipazione popolare e all’attenzione per la cosa pubblica. Questa è, per noi, l’unica strada percorribile per un reale miglioramento.

Per realizzare tutto questo, è giunto il momento di dirlo, è necessario tornare a riflettere, in chiave assolutamente anti-demagogica, anche sulla battaglia per il finanziamento pubblico ai partiti. E se le forze politiche avessero la volontà di intraprendere questa riflessione, la società civile, ne siamo convinti, sarebbe pronta a seguire le forze riformiste in questa ristrutturazione del sistema, che creerebbe quell’area democratica ed efficiente per la realizzazione delle istanze collettive.

Solo così sarà possibile una riforma costituzionale seria, ragionata e ragionevole, una riforma che guardi veramente agli interessi del Paese e che contribuisca a rendere le persone più vicine alle istituzioni e le istituzioni rappresentative di tutti noi.

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