Sostenere con forza la campagna per il NO nel referendum costituzionale
di Andrea Catone, Direttore della rivista “MarxVentuno”
Per i comunisti e per tutte le forze che si battono per uno sbocco progressivo alla grave crisi del nostro Paese, per stabilire rapporti di forza più favorevoli alla classe dei lavoratori, la battaglia per fermare lo scempio della Costituzione antifascista nata dalla Resistenza – il momento più alto della lotta di classe in Italia – non è una battaglia accessoria, secondaria, parziale, ma è centrale, essenziale.
Si tratta infatti di un momento della lunga lotta di classe ingaggiata intorno alla Costituzione del 1948[1], quella Costituzione alla stesura della quale le forze comuniste e socialiste che avevano saputo organizzare e vincere la lotta di Liberazione avevano dato un apporto fondamentale. Quella Costituzione forniva il quadro istituzionale e politico per la strategia della democrazia progressiva, e consentì nel trentennio post 1945 notevoli avanzate del movimento operaio e progressista.
La Costituzione nata dalla Resistenza non era liberal-democratica, ma, come più volte ha sottolineato Salvatore D’Albergo[2], di democrazia economico-sociale: con un impianto organico e coerente connetteva democrazia parlamentare e democrazia sociale, centralità del parlamento, del “governo parlamentare”, e quadro istituzionale che, orientato dai principi esposti nella prima parte, prevede la programmazione economica e il ruolo sociale dell’impresa economica (articoli 41, 42, 43).
La Costituzione italiana della “Repubblica fondata sul lavoro”, non è mai stata gradita alla grande borghesia e alle destre: troppe garanzie ai lavoratori, limitazione per il ruolo delle imprese, possibile intervento dello stato nell’economia, ruolo centrale del parlamento e delle assemblee elettive, apertura alla possibilità di partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica. Non a caso il “venerabile” Licio Gelli della P2 nel suo “Piano di rinascita nazionale” ne chiedeva lo stravolgimento col taglio dei parlamentari e il presidenzialismo, e non a caso Berlusconi l’ha definita a più riprese “sovietica”.
Gli attacchi si sono moltiplicati nell’ultimo trentennio, quando, favorita dal crollo dei sistemi socialisti dell’URSS e dell’Europa centro-orientale, si è dispiegata una pesantissima offensiva anticomunista e antioperaia, che è riuscita a mettere a segno diversi colpi per menomare e stravolgere la Costituzione del 1948. Il primo è stato nel 1993, con il passaggio da un sistema elettorale proporzionale e senza sbarramenti – che innerva tutto l’impianto della Costituzione – ad una legge maggioritaria (il cd “Mattarellum”, che porta il nome del suo presentatore, Sergio Mattarella, oggi presidente della Repubblica), cui ne seguirono diverse, una peggiore dell’altra, fino all’attuale “Rosatellum”, tutte tese a negare il principio fondamentale di “una testa un voto”, sostenuto nel 1789 dal “terzo stato” nella fase rivoluzionaria dell’ascesa borghese.
Sempre negli anni 90 furono adottate profonde modifiche costituzionali che trasformavano in senso presidenzialistico comuni, provincie e regioni e svuotavano il ruolo delle assemblee elettive a vantaggio degli esecutivi. Il che favorì l’allontanamento dei cittadini dalla vita politica dando ossigeno agli attacchi reazionari al sistema dei partiti, marchiato spregiativamente come “partitocrazia”. Si contribuiva così alla demolizione del partito politico quale organizzazione articolata e radicata nei territori, in cui, attraverso una serie di passaggi intermedi, dall’assemblea di sezione territoriale ai congressi, si definiva la linea politica e si selezionava il gruppo dirigente. Al partito politico previsto dalla Costituzione quale mattone essenziale della “democrazia che si organizza”, subentra il partito personale, in cui la comunicazione diviene sempre più unidirezionale, dal capo alle masse; non funzionano più gli strumenti di formazione e definizione della linea politica quali assemblee, congressi, dibattito politico sugli organi di stampa e le riviste di partito, che consentivano di conoscere e riconoscere le basi teoriche di un pensiero politico e gli indirizzi politici che guidavano l’azione dei partiti. Forza Italia fu il precursore del partito leaderistico personale, privo di una struttura territoriale, basato sulla comunicazione diretta del capo carismatico alle masse e la riduzione in brevi tweet del messaggio politico.
Alla Costituzione, al suo impianto unitario, fu dato un colpo pesantissimo con la riforma del titolo V (2001) che modificava la forma stessa dello Stato e apriva le porte al prevalere del regionalismo, i cui danni in campo sanitario, tra gli altri, sono emersi platealmente nella pandemia di quest’anno, e altri ancor maggiori si prospettano se sarà varata l’autonomia differenziata richiesta in primis dalla Lega di Salvini. La riforma costituzionale sul “pareggio di bilancio”, approvata nel 2012 in tempi rapidissimi e a stragrande maggioranza – e quindi non sottoponibile a referendum costituzionale – sanciva la perdita di autonomia nella politica economica del paese.
Altri pesantissimi tentativi di stravolgimento della Costituzione – governo Berlusconi, 2006; governo Renzi, 2016 – sono stati sventati grazie alla resistenza e alla mobilitazione delle forze operaie e democratiche, ma anche – va detto, per avere la misura reale delle cose – grazie alle contraddizioni tra quelle forze politiche che, pur favorevoli nella sostanza all’attacco alla Costituzione, si opponevano alla riforma costituzionale solo per mettere i bastoni tra le ruote del concorrente.
La riforma che taglia di un terzo il numero dei parlamentari (portando a 400 i deputati e a 200 i senatori), presentata dal M5S come il “tagliapoltrone”[3], si iscrive in questo attacco alla Costituzione che ha accompagnato la vita politica italiana dal 1948 e in particolare nell’ultimo trentennio. Tutti gli attacchi hanno cercato di presentarsi come “tecnici”, funzionali, per una maggiore efficienza: così si sostiene ora la tesi che il parlamento con un minor numero di eletti lavorerebbe meglio, dimenticando volutamente che l’attività del parlamento si svolge non solo nelle sedute plenarie, ma nelle commissioni parlamentari, da cui, per effetto del taglio dei parlamentari, verrebbero escluse minoranze anche consistenti[4]. È la fine di quel pluralismo politico, culturale, sociale, che è uno dei pilastri della Costituzione antifascista. È il preludio di un sistema sempre meno rappresentativo delle masse e sempre più espressione di lobby ristrette.
Il taglio dei parlamentari taglia la democrazia, tende a rendere sempre più lontano il parlamento e le istituzioni democratiche dai cittadini, apre ampi varchi ad ulteriori e più pesanti stravolgimenti della Costituzione. Tra essi si profila all’orizzonte il passaggio dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale, come chiesto esplicitamente dalle destre di Salvini e Meloni. Quella parte del M5S – maggioritaria, espressa dai suoi “capi politici”, Di Maio in primis – che ha fatto del taglio del parlamento la sua bandiera irrinunciabile, al punto da richiederlo come conditio sine qua non per il varo del governo Conte bis – sta spianando la strada al rovesciamento dei principi e dell’ordinamento costituzionale.
Bisogna opporsi in modo deciso e convinto, senza tentennamenti e senza rifugiarsi su qualche Aventino, a questo attacco, promuovendo, sostenendo, organizzando il NO, nella consapevolezza che questo è solo un momento, un episodio, di una guerra di lunga durata, la cui posta in gioco è strategica: l’esistenza o meno di un quadro costituzionale che consenta di porre obiettivi di trasformazione economica e sociale favorevoli al movimento operaio e democratico.
La battaglia del NO al taglio dei parlamentari – della cui enorme difficoltà e “impopolarità” siamo tutti ben consapevoli – non è e non può essere concepita come una battaglia isolata, ma è una tappa e una parte di uno scontro più ampio, che si sviluppa in diverse singole battaglie, tra una concezione e una pratica della centralità del parlamento, del governo parlamentare, come disegnato dalla Costituzione antifascista, e un rovesciamento autoritario e antidemocratico della Costituzione, richiesto a gran voce da potentati economici sovranazionali e dalle destre politiche (ad essi asservite, ad onta del conclamato “sovranismo”), la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia in primis. La lotta per una legge elettorale proporzionale pura, senza sbarramenti, in modo che il parlamento si avvicini il più possibile a rappresentare come una carta geografica la realtà politica, sociale, culturale del Paese – come disse Togliatti nell’intervento alla Camera contro la “Legge truffa” dell’8 dicembre 1952[5] – è parte integrante di questa battaglia, al pari di quella per restituire e sviluppare la centralità al parlamento.
Per questo, i comunisti devono – come seppero fare negli anni '40 con intelligenza strategica e duttilità tattica – essere l’anima e il perno di un fronte unito democratico, il più ampio e articolato possibile, per la difesa e il rilancio della Costituzione antifascista.
Per questo ogni NO nell’imminente referendum costituzionale è importante, nessun voto va sprecato, ogni voto va conquistato.
Tanto meglio se – contro pronostici avversi – la nostra mobilitazione riuscirà a bloccare il taglio del parlamento. Ma, in caso contrario, non meno importante è il rapporto di forze che viene a determinarsi con il voto referendario. Una cosa è se i demolitori del parlamento ottengono un plebiscito a loro favore, altra è se potranno vantare una vittoria di misura, risicata.
La lotta per la Costituzione è politica e culturale e richiede organizzazione e strumenti adeguati. Dopo la vittoria nel referendum del dicembre 2016 contro la riforma Renzi-Boschi non furono mantenuti, se non in piccola parte, i comitati che allora si formarono. Non bisogna ripetere l’errore, nella consapevolezza che la lotta per la Costituzione è centrale, è uno dei fronti della più che mai necessaria resistenza sociale, politica, culturale del movimento operaio e democratico.
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