Niente libertà di voto, in direzione Zingaretti sosterrà il sì ma senza militarizzare il Pd. A prescindere dal risultato, la lacerazione è già in atto. Sondaggi e piazze dicono che un pezzo della sinistra è per il no.
Il passaggio è di quelli “stretti”, per usare un gergo molto politico. Di quelli in cui, per come si è messa, rischi solo di farti del male. E l’obiettivo, a questo punto, è ridurre il danno. Il passaggio in questione è la direzione del Pd di lunedì, a meno di quindici giorni dal voto, e dopo che – ormai funziona così, impensabile nei partiti di una volta – il dibattito si è ampiamente consumato sui giornali, anche in modo un po’ nervoso e scomposto.
“Stretto”, dicevamo, perché se Nicola Zingaretti, dopo essersi intestato l’estrema politicizzazione del voto - ricordate? “Chi vota no indebolisce governo e Pd” - lasciasse adesso libertà di coscienza, come in parecchi gli chiedono, questo verrebbe vissuto come un “rompete le righe”. Se però puntasse tutto su una “militarizzazione” del sì, rispolverando per l’occasione l’armamentario della disciplina di partito, ne uscirebbe comunque indebolito non solo nel gruppo dirigente, dove di indisciplinati, per convinzione o strumentalità, ce ne sono parecchi, ma in quel popolo della sinistra che condivide le ragioni del no, dall’Anpi alla Cgil alle sardine a un vasto mondo dell’intellettualità progressista. Il sondaggio di Pagnoncelli, con il no attorno a “quota 30” con il 70 per cento di elettori di sinistra in quel dato, sembra preannunciare un epilogo degno del miglior signor Tafazzi: Di Maio che si intesta la vittoria del sì, il gruppo dirigente del Pd che lo segue nell’illusione di stare sul palco dei vincitori e il suo popolo che va nella direzione opposta.
Ecco, è la classica situazione in cui indietro non si può tornare e l’andare avanti comunque comporta il danno di un partito lacerato alla meta. L’idea, e questo è il punto fermo, è che il segretario, così racconta chi ha parlato con lui, nella sua relazione darà convinta indicazione per il sì, anche se in queste ore ha avuto parecchie interlocuzioni con quei mondi che andranno in piazza. E che chiedono di evitare una drammatizzazione, perché non sono contro il Pd e nemmeno contro il governo, ma contro l’antipolitica. Ma non sarà un sì militare, con lo spirito di chi vive il passaggio come una conta.
Dirà che la riforma faceva parte dell’accordo di governo e che si è aperto uno spazio per i famosi “correttivi”, a partire dalla legge elettorale che dovrebbe passare in commissione, e che se così non è stato non si può imputare ai Cinque stelle che, in materia, sono stati leali, ma semmai ad altri nella coalizione. In condizioni normali sarebbe un momento solenne (il principale partito della sinistra riunito per dare indicazione di voto sulla modifica della Carta) che si concluderebbe nella solennità di un voto alla relazione del segretario. L’emergenza che impedisce la discussione in presenza e impone lo streaming aiuta, e non poco, a ridurre l’effetto conta e l’enfasi su una spaccatura. Ancora non è dato sapere se ci sarà un voto sulla relazione del segretario o se, come ha chiesto qualcuno, si registreranno solo le posizioni e la “larga condivisione”, evitando così di formalizzare la divisione interna. Certo il collegamento da remoto aiuta, per la difficoltà oggettiva di procedere alle operazioni di voto e per la facilità con cui, magari, qualcuno si scollegherà.
Perché poi, il paradosso di tutta questa storia davvero degna di un film di Moretti, è che il Pd, per lealtà all’alleanza di governo uscirà lacerato da un voto che non incide sul destino del governo, mentre sulle regionali, che invece sul governo incidono eccome, Di Maio da oggi sarà in Puglia per tutto il week end a sostegno della sua candidata e poi andrà in Toscana, ovvero nelle regioni più in bilico dove il Pd e Zingaretti si giocano l’osso del Collo. Dopo aver sostenuto, al pari del taciturno premier, che il governo è l’embrione di un nuovo centrosinistra.
Su questi presupposti è difficile rispondere alla domanda più in voga nel Palazzo, il famoso “che succede” in caso di vittoria per 4 a 2 o peggio 5 a 1 del centrodestra, anche perché non lo sanno nemmeno i protagonisti. Di rimpasto si è già parlato nei mesi scorsi, ne ha parlato anche Zingaretti con Conte, ravvisandone l’impraticabilità perché se tocchi una casella rischi di far crollare tutto e diventerebbe ancora più impraticabile con un assetto delegittimato nel paese. Un nuovo governo, a maggioranza inalterata, neanche a parlarne. Il succo di questa storia è che, come evidente, che pagherà il Pd. Senza un pareggio tre a tre alle regionali, anche le direzioni torneranno ad essere vere e inevitabilmente partirà un congresso, non solo sui giornali.
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