giovedì 14 agosto 2025

Marco Tosatti - Gaza. La Macchina del Fango sui Giornalisti Morti, la Cellula dell’IDF di Legittimazione degli Omicidi.!!!

 



14 Agosto 2025 Pubblicato da

 

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione alcuni elementi di giudizio sullo sterminio in corso a Gaza. Buona visione e condivisione.

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Il primo è questo post pubblicato su Facebook da Lavinia Marchetti:

MACCHINA DEL FANGO, EDIZIONE ITALIANA.
Quando la stampa diventa complice dell’eliminazione dei testimoni.
Di Lavinia Marchetti
Ho preso tempo, ho raccolto le prime pagine, le ho rilette al mattino e a tarda sera, ho messo in fila titoli, occhielli, fotografie, ho ascoltato i silenzi. La prima reazione è stata lo sdegno, poi è arrivata la rabbia, una rabbia che pretende misura perché senza misura diventa una specie di urlo ricacciato in gola. Ho cercato freddezza, ho guardato al lavoro dei colleghi di Gaza, ai giubbotti con scritto Press, ai corpi portati in spalla e avvolti in lenzuola bianche, alla lista dei reporter caduti. Da lì ho iniziato a contare le torsioni retoriche che le redazioni della destra italiana filosionionista, nonché tutti i circoli ebraici, hanno prodotto sulla morte di Anas al Sharif. Tre passaggi ricorrenti, la delegittimazione del testimone, l’insinuazione, la conclusione assiomatica. So già che molti di voi penseranno: lascia perdere, quei giornali sono carta straccia, e tu ci perdi tempo ecc ecc, eppure qui sta il punto, decostruire serve a togliere legittimità alla propaganda, a mostrare il meccanismo che la sorregge, a impedire che la versione dei carnefici resti senza contraddittorio
L’Onu e Reporter Senza Frontiere parlano di una tattica riconoscibile, prima la campagna diffamatoria, poi l’eliminazione. A Gaza i giubbotti con la scritta Press attirano fuoco, la cronaca registra 260 operatori dell’informazione uccisi, i loro nomi srotolati in un elenco che somiglia a un necrologio interminabile. In Italia, nello stesso tempo, quattro articoli hanno offerto sponda alla versione militare, rinunciando alla verifica, rinunciando al dubbio.
Il Foglio, editoriale con titolo interrogativo, Giornalista o terrorista, un interrogativo solo in apparenza. Il testo presenta come indizi fotografie e messaggi, cita presunti pagamenti, accosta il lavoro per Al Jazeera a una collaborazione con Hamas, mescola categorie e ruoli per produrre un ibrido, reporter che diventa militante per giustificare la morte. La struttura compie un passaggio cruciale, sposta l’onere della prova sul cadavere, pretende che la vittima provi la propria innocenza. Viene evocata la propaganda in guerra, poi la si pratica, con cura.
La Verità, apertura su Trump, riquadro laterale che consegna la chiave di lettura, Cronisti di Al Jazeera centrati da un missile, l’Idf, uno di loro era un terrorista. La costruzione è semplice, il fatto viene subordinato alla fonte militare, la formula dice l’Idf assolve dalla verifica e diventa scudo. Il lettore riceve due messaggi, la legittimità del colpo e l’idea che il bersaglio avesse doppia vita. La pagina ignora la mole di smentite raccolte dai difensori dei giornalisti, ignora perfino le contraddizioni interne al dossier circolato sui social, tabelle senza provenienza, date incoerenti.
Libero, titolo definitivo, Il giornalista morto a Gaza era un terrorista di Hamas, nessun condizionale, nessuna cautela. Tre fotografie disposte come prova, il giubbotto Press, un uomo armato, un abbraccio a Yahya Sinwar, il montaggio crea una biografia apocrifa e suggella una condanna postuma. La pagina usa lessico di smascheramento, dietro la maschera, e replica il dispositivo classico, delegittimare il testimone per esentare chi lo ha colpito da qualsiasi scrupolo.
Il quarto pezzo, firmato da Iuri Maria Prado, salta la verifica e sceglie l’insulto, Giornalisti uccisi a Gaza, prime pagine Ghali style, anche Goebbels faceva informazione, un titolo che usa il paragone nazista come clava e liquida Al Jazeera come fonte inaffidabile per definizione. In mezzo, l’accusa ad Anas di aver celebrato il 7 ottobre con cuori verdi su Telegram, schermate che circolano da mesi e che gli analisti hanno smontato, data fittizia, impaginazione apocrifa. La pagina segna un salto di qualità, non più dubbio, ma dileggio, nessuna cautela, ma delegittimazione sistematica di chi riprende un massacro.
Io questa rabbia la riconosco e la tengo stretta, perché nasce dalla sproporzione tra ciò che accade e ciò che viene raccontato. Il punto resta semplice, Anas al Sharif è stato colpito mentre lavorava, aveva un giubbotto con la scritta Press, aveva una tenda stampa come riparo, i suoi colleghi hanno raccolto resti bruciati. La catena che unisce drone e rotativa pretende un anello italiano, il nostro anello accetta senza riserve la versione di chi bombarda e ignora le voci che chiedono protezione per i reporter, Committee to Protect Journalists, Reporter Senza Frontiere, il sistema delle Nazioni Unite.
La tecnica mediatica si vede in filigrana, insinuazione con immagini decontestualizzate, citazioni di fonti militari senza contraddittorio, titoli che trasformano accuse in sentenze, cancellazione delle smentite. Ne esce una morale accomodante, il giornalista ucciso portava una colpa latente, il missile diventa atto necessario, la morte esce dalla sfera del delitto ed entra in quella della punizione. Ricorda il “supplizio” di foucualtiana memoria in sorvegliare e punire.
Questa scelta pesa su chi lavora in strada, pesa su chi legge. Il bersaglio vero è la cronaca della fame, dei corpi lasciati negli ospedali, dei bambini ridotti a pelle e ossa, la loro esistenza smentisce la retorica bellica, per questo i testimoni vanno rimossi, per questo vanno delegittimati. Le nostre prime pagine offrono il servizio, la cassa di risonanza, l’alibi.
Scrivo con misura e con collera, insieme. Mi sto trattenendo perché voglio lanciare un messaggio senza essere censurata. Vorrei che le redazioni, almeno quelle del paese in cui vivo, pubblicassero rettifiche, che premettessero il condizionale, che distinguessero fatti da tesi militari, che dessero spazio alle organizzazioni che documentano gli attacchi contro i reporter, che smettessero di suggerire biografie inventate a chi è appena stato sepolto. La domanda giornalista o terrorista si rovescia su chi ha messo in pagina questo giudizio. Il giornalismo tiene la schiena dritta e salva le prove, chi invece falsifica e insinua mette un bersaglio dietro alla testa di chi lavora in zona di genocidio e si rende complice di un potenziale omicidio mirato, sono loro i veri terroristi, questi cronisti andrebbero denunciati e radiati dall’ordine, il resto è pura propaganda prezzolata.
[Se allargate l’immagine e avete stomaco, potete leggere gli articoli, sconsigliato a chi è troppo sensibile all’infamia]

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Poi c’è questo post di InsideOver, estremamente interessante:
L’11 agosto il giornalista investigativo israeliano, coregista del film premio Oscar Yuval Abraham, ha rivelato che, dopo il 7 ottobre, l’intelligence militare israeliana ha istituito una squadra speciale chiamata Cellula di legittimazione.

L’unità, interna all’AMAN e comprendente membri dell’Unità 8200, avrebbe il compito di raccogliere informazioni per giustificare le operazioni dell’esercito a Gaza, inclusi gli attacchi contro giornalisti, come quello del 10 agosto che ha ucciso Anas al-Sharif e altri quattro giornalisti della troupe di Al Jazeera in un attacco aereo israeliano.

“Negli ultimi due anni, al-Sharif ha svolto un lavoro giornalistico sistematico e coraggioso, raccontando al mondo intero la distruzione del suo popolo. Questo, mentre la maggior parte del giornalismo israeliano ha normalizzato omicidi di massa, fame e distruzione, tradendo la propria professione. Il tradimento continua ora nei titoli che riportano la morte di al-Sharif, sposando pienamente le dichiarazioni del portavoce dell’IDF”, ha affermato Abraham.

“Credo che Israele abbia ucciso Anas al-Sharif semplicemente perché era un giornalista. Per lo stesso motivo hanno cercato attivamente giornalisti che potessero essere presentati come agenti di Hamas, per fornire “legittimizzazione” all’uccisione di giornalisti in generale – circa 230 giornalisti che abbiamo ucciso a Gaza dal 7 ottobre. E per lo stesso motivo ai media internazionali è impedito l’ingresso a Gaza: affinché i crimini siano meno visibili”, ha aggiunto il giornalista.

Il mese scorso Anas al-Sharif aveva denunciato l’esercito israeliano per “una campagna di minacce e incitamenti a causa del mio lavoro come giornalista per Al Jazeera”, aggiungendo: “Io, Anas al-Sharif, sono un giornalista senza affiliazioni politiche.”

#journalistsarenotatarget #anasalsharif #gazagenocide #israel #idf

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Questo post di Andrea Umbrello rivela come funziona la macchina dell’omicidio mirato da parte di Israele:

Dietro la cortina digitale che avvolge un conflitto lungo e radicato si articola una rete di sorveglianza il cui respiro abbraccia distanze e vite con misura sconfinata. Il connubio tra ingegno tecnologico e strategia d’intelligence produce una mappa istantanea di voci, movimenti e legami di milioni di persone, tracciando un disegno dal quale si forgiano decisioni di potere e atti di violenza premeditata.

L’Unità 8200 si occupa ufficialmente di intercettazione e analisi di segnali elettromagnetici, come telefonate, email e messaggi, trasformando ogni informazione in strumento operativo per la sicurezza nazionale israeliana. Una recente indagine congiunta del Guardian, +972 Magazine e Local Call ha portato alla luce una pratica sconcertante che coinvolge proprio l’Unità 8200. Il reparto di élite per l’intelligence tecnologica dell’esercito israeliano, utilizza la piattaforma cloud di Microsoft Azure per archiviare una quantità smisurata di dati raccolti sui palestinesi di Cisgiordania e Gaza. Secondo la testimonianza di undici fonti interne all’intelligence israeliana e Microsoft, l’Unità 8200 ha trasferito file audio di milioni di chiamate effettuate da palestinesi nei Territori Occupati sulla piattaforma Azure, implementando così uno dei sistemi di sorveglianza più estesi e invasivi mai realizzati su un singolo gruppo di popolazione.

Superando i proiettili, siamo arrivati ad algoritmi che traducono respiri in precise coordinate. Il cloud, spazio infinito per definizione, diventa la più soffocante delle prigioni, una gabbia i cui le sbarre sono stringhe di dati, la cui porta è un firewall invalicabile. La sorveglianza digitale supera il concetto stesso di controllo. Diventa presenza costante, spettro che aleggia su ogni telefonata, ogni messaggio, ogni spostamento.

Questa è la nuova frontiera della repressione, più sottile del filo spinato, più pervasiva di un checkpoint, più letale di un drone perché capace di penetrare spazi fisici, menti, relazioni e l’intimità stessa del pensiero. Un colonialismo algoritmico che, ance se in modo diverso, continua a ferire l’anima di un intero popolo.

Ne ho scritto su Inside Over

Ma i servizi segreti israeliani avevano ignorato (o hanno voluto ignorare 😉) ben 5 (cinque) segnali dei movimenti insoliti di Hamas prima di 7 Ottobre. Fonte di questa notizia? The Jerusalem Post. Però per il resto sanno tutto di tutti (anche fuori Israele).

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Ma Israele ammazza giornalisti anche in Libano:
L’8 agosto 2025 il giornalista libanese e direttore della testata Hawana Lebanon, Mohammad Shehadeh, è stato ucciso da un drone israeliano mentre si trovava in auto lungo la strada costiera che collega Sidone a Tiro, nella regione di al-Zahrani, nel distretto di Nabatieh.

“Esprimiamo il nostro profondo dolore per la perdita di un coraggioso collega che è diventato martire durante l’aggressione delle forze sioniste. È stato preso di mira in un’offensiva ostile mentre svolgeva i suoi doveri professionali con integrità e dedizione, servendo come testimone della verità e rimanendo fedele al polso del popolo” hanno scritto i colleghi giornalisti libanesi.

Con Mohammad Shehadeh salgono a 226 le persone uccise da Israele in Libano da quando è entrata in vigore il cessate il fuoco da novembre 2024.

#israel #lebanon #journalistarenotatarget

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E infine questo post di Ariel Toaff, professore emerito all’Università Bar-Ilan, a Ramat Gan, figlio del rabbino capo di Roma, Elio Toaff.

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