sabato 9 agosto 2025

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Gabriella De Rosa 9 Agosto 2025 

BYOBLU24

“NON HO CIBO. DO AI MIEI BAMBINI ACQUA E SALE”. L’INTERVISTA DI BYOBLU A RANIA, DONNA PALESTINESE CHE SOPRAVVIVE NELLA STRISCIA.

Stiamo morendo di fame“. È la frase che i palestinesi di Gaza continuano a ripetere, senza che nessuno sembri ascoltarli. Nell’indifferenza dell’Occidente siamo riusciti ad entrare in contatto con una giovane donna palestinese che, insieme alla sua famiglia e al suo popolo, sta cercando di sopravvivere a questo inferno quotidiano.

Si chiama Rania, ha 27 anni e ci ha raccontato la sua storia in un’intervista frammentata a causa dei continui problemi di connessione e delle difficoltà a comunicare dalla Striscia. Ci ha mostrato, attraverso delle foto, le condizioni in cui vive, per toccare con mano la loro sofferenza. Quello che emerge dalle sue parole è un senso di urgenza assoluto: essere aiutati, essere ascoltati, essere visti. Perché il tempo, ormai, è finito.

Dove vivi e in che condizioni si trova la tua famiglia?

«Sorella, vivo a Mawasi di Khan Yunis (a sud della Striscia). Ho 27 anni e soffro di una malattia epatica cronica. Ho tre figli: la più grande, Joanna, ha 8 anni, Tia, ne ha 5. Il più piccolo, Sharif, è nato durante la guerra. Ora ha un anno e mezzo. Mia figlia Tia è malata ha un orzaiolo nell’occhio ed è stata operata grazie agli aiuti ricevuti dal crowdfunding internazionale.

Infatti, molti di voi hanno aperto raccolte fondi online per comprare cibo e beni di prima necessità. Chi ti ha aiutato?

«Mi ha aiutato la mia amica Dora, che vive in America ed è originaria di Betlemme che è sempre disponibile al telefono. All’inizio avevo un profilo privato, ma con la guerra l’ho reso pubblico. Dora ha creato per me un link per ricevere donazioni, che arrivano subito sul mio conto: così posso andare al mercato a comprare qualcosa, anche se non sempre si trova. Per esempio latte e pannolini per il mio bambino sono introvabili o costosissimi.

«Non vediamo pane da una settimana e mezza. I miei figli non mangiano da oltre due settimane in modo regolare: quando va bene mangiamo un pasto al giorno. Ora sto cucinando lenticchie e riso, pagati 15 dollari al mercato. I prezzi sono leggermente scesi: lo zucchero, che costava 150 dollari al chilo, ora “solo” 25 dollari. La farina arrivava a 1000 dollari per 25 chili. Le verdure sono rare e costose. A mia figlia Joanna si vedono le ossa. A volte il massimo che posso dare ai miei figli è acqua e sale. E devo usare parte delle donazioni che mi arrivano anche per comprare medicine».

Gli aiuti umanitari spesso non arrivano. E se arrivano è ancora pericoloso avvicinarsi ai centri di distribuzione…

«Non riceviamo nulla dagli aiuti umanitari. Mio marito non va più ai centri di distribuzione perché è pericoloso. L’unica volta che ci ha provato, suo fratello è stato ucciso e lui ferito ad un piede. Gli aiuti vengono assaltati: la gente blocca i camion, svuota tutto. Gli aerei li lanciano in zone pericolose: mio marito a volte ci va, ma è rischioso e spesso torna a mani vuote».

Rania, com’era la tua vita prima della guerra?

«Vivevamo a Bani Suhaila, nella zona di Al-Zana. Era bellissimo e tutto pieno di colori. La nostra vita era felice: mio marito lavorava in contabilità e io gestivo un negozio di abbigliamento con i miei fratelli. Ho una laurea all’Università Islamica e un diploma in amministrazione sanitaria. Ero anche volontaria per la Land of Humanity Association, che aiutava bambini malnutriti. L’occupazione israeliana ha distrutto tutto: la nostra casa, la macchina, la sede dell’associazione. Non ci è rimasto nulla».

Com’è oggi la situazione sanitaria? Ci sono ospedali funzionanti?

«C’è solo un ospedale funzionante in tutta la Striscia, dove mia suocera è stata operata per un tumore al seno di recente. Tutti gli altri centri medici sono tende. Le cure costano tantissimo, e spesso mancano per via della chiusura dei valichi. Io sono malata, i miei figli pure, e mi prendo cura anche del padre di mia suocera. La vita qui è mortale e non c’è cibo».

Le organizzazioni internazionali non possono aiutarvi?

«C’è una zona umanitaria nella zona di Shakoush ma è troppo pericolosa: ogni giorno muoiono molte persone in cerca di aiuto. Abbiamo paura di essere uccisi dai proiettili. Gli americani non ci proteggono. Ho mandato messaggi a tante persone: nessuno risponde, nessuno ascolta».

Netanyahu ha annunciato lo sfollamento di Gaza spingendo la popolazione verso sud. Cosa significherà per voi?

«Sarà catastrofico. Sfollare non è facile: noi abbiamo un camion per portare le nostre cose, ma è faticoso; la vita in tenda è un inferno soprattutto con il caldo intenso. Non c’è acqua pulita, non c’è nulla per vivere. Cuciniamo sul fuoco con non poca difficoltà, lavo i vestiti a mano, e dobbiamo tenere la tenda sempre montata e pulita 24 ore su 24 per la sabbia e per proteggere i miei bambini dalle allergie».

Come vi procurate l’acqua potabile? Se ce n’è ancora…

«Ogni quattro giorni arriva un camion: riempiamo un barile, ma bisogna arrivare prestissimo per mettersi in lista. Spesso l’acqua finisce prima che tocchi a noi. A volte non siamo abbastanza fortunati da riempirlo a causa della mancanza d’acqua e del gran numero di persone che hanno bisogno di bere».

Rania, cosa chiedi al mondo?

«Voglio essere salvata. Voglio che io e la mia famiglia possiamo lasciare Gaza, andare in Italia o in un altro Paese europeo. Voglio che i miei figli vivano in pace, senza fame, senza paura e senza bombe, che sopravvivano».

Intervista di Gabriella De Rosa


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