sabato 8 giugno 2019

Massimo Fini: “Giustizia: il ‘marasma senile’ rovina una storia anche buona”

(Massimo Fini) – 
Il Fatto ha dato un grande spazio allo scandalo che per comodità chiameremo “Palamara” ma che in realtà coinvolge l’intero sistema giudiziario. Ed è comprensibile per l’importanza che hanno in uno Stato di diritto l’indipendenza e la credibilità della Magistratura che la nostra Costituzione, dopo l’esperienza fascista, volle indipendente da ogni altro potere. Per non farne però un organo lontano dalla società i nostri Padri costituenti vollero che il Csm, da cui dipendono “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”,  fosse composto per due terzi da giudici ‘togati’, cioè  da magistrati, e per un terzo dai cosiddetti ‘laici’ scelti dal Parlamento fra “professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Furono ingenui i nostri Padri costituenti perché non potevano immaginare la presa che i partiti avrebbero assunto nella società per cui questi stessi partiti immisero nel Csm ‘laici’ non per la loro esperienza in campo giudiziario ma per la loro dipendenza da l’una o dall’altra formazione politica. E questo è stato il primo tarlo che ha cominciato a corrodere la Magistratura italiana nell’era repubblicana....
E qui bisogna fare un passo indietro. La storia della nostra Magistratura dopo l’unificazione del Paese è, sostanzialmente, una buona storia. I magistrati erano talmente gelosi della propria indipendenza, considerando il loro lavoro più che una professione una vocazione, che il fascismo non riuscì a piegarli ai suoi fini e dovette ricorrere ai Tribunali Speciali. Erano altri tempi. Altri uomini. Mi ricordo un bell’articolo di Salvatore Scarpino dove raccontava l’isolamento dei magistrati nella cittadina dove era nato, Cosenza, che limitavano al massimo le proprie frequentazioni sociali per non dare adito a dubbi sulla loro attività.
Nel dopoguerra, dopo una prima fase di euforia generale dovuta alla ricostruzione e con uomini politici di notevole spessore perché forgiati da quel conflitto, la nostra classe dirigente comincia a corrompersi e per uscire indenne dalle proprie malefatte cerca di mettere le mani anche sulla Magistratura. Tentativo in buona parte riuscito. Tutti ricordiamo che il Tribunale di Roma, cui erano affidati i processi più scottanti, era chiamato “il porto delle nebbie” per la sua abilità nell’insabbiarli. Ma attraverso l’istituto dell’avocazione, cioè la possibilità del Procuratore capo da cui dipendono i Pubblici ministeri, molte istruttorie venivano tolte ai titolari perché non ficcassero troppo il naso in vicende delicate. E questo accadeva non solo a Roma ma in Procure di città anche meno importanti. Di fatto la classe dirigente, politica e imprenditoriale, si era assicurata, salvo rari casi, l’impunità. Il momento del riscatto venne con Mani Pulite. Mani Pulite è frutto di un avvenimento storico estraneo al nostro Paese ma che vi ha inciso profondamente: il collasso dell’Unione Sovietica. I voti dei cittadini non più costretti a votare Democrazia cristiana perché il pericolo comunista non esisteva più (il “turatevi il naso” di Montanelli) si diressero verso un movimento nuovo e sostanzialmente antipartitocratico, la Lega di Umberto Bossi. Cioè nasceva finalmente un vero partito di opposizione, in quanto quello ufficiale, rappresentato dal Pci, si era consociato con la Dc e ne condivideva sostanzialmente gli interessi, anche nell’ambito dell’autodifesa della classe dirigente dalla Magistratura.
Con la Lega in campo simili sporchi giochetti non erano più possibili. La Lega liberò le mani ai magistrati milanesi che per la prima volta nella storia repubblicana poterono richiamare la classe dirigente, politica e imprenditoriale, al rispetto di quella legge cui noi cittadini, diciamo così, normali, siamo obbligati. Non ci furono e non ci sono ombre sui componenti di quel formidabile pool, dal Procuratore capo Francesco Saverio Borrelli a Ilda Boccassini a Piercamillo Davigo a Gherardo Colombo e allo stesso Antonio Di Pietro, particolarmente bersagliato, soprattutto dal mondo berlusconiano allora vincente, e sottoposto a sette processi da cui è uscito regolarmente assolto. Fu l’ultima stagione in cui noi cittadini, perlomeno quelli, diciamo così, normali, potemmo avere piena fiducia nella Magistratura. Ma l’illusione durò poco. Nel giro di pochissimi anni, con l’appoggio dell’intera stampa nazionale, e non solo di quella berlusconiana, i magistrati divennero i veri colpevoli e i ladri le vittime e spesso, proprio attraverso il Csm zeppo di politici mascherati da professionisti dello ‘iure’, giudici dei loro giudici. Fu un segnale. Decisivo per la nostra storia successiva. Era un ‘liberi tutti’ per la corruzione di lorsignori che poi, discendendo giù per gli rami, ha finito per coinvolgere anche noi cittadini, diciamo così, normali. Inoltre la corruzione, morale e non solo, si è incistata negli altri corpi istituzionali, non solo nella Magistratura, finendo per sfiorare anche le Forze Armate dove circola un’aria di insubordinazione. Non si era mai visto che un ministro della Difesa, in questo caso Elisabetta Trenta, fosse messo sotto accusa da importanti generali che sia pur da poco pensionati evidentemente respirano qualche cosa che bolle in pentola nelle nostre Forze Armate. Non si capisce come il nostro Paese possa uscire da una simile confusione generale che assomiglia molto a quello che in termini psichiatrici si chiama “marasma senile”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2019

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