sabato 6 ottobre 2018

RECENSIONE DE GRAUWE - PARTE II: "L'IMPOSSIBILITA' DELLA CRESCITA"?

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Post di Arturo a completamento della recensione dell'ultimo libro di De Grauwe.

4. Seconda questione, la disuguaglianza.
4.1. De Grauwe ci riporta la famosa “curva di Kuznets”:





 Il significato della curva si spiega facilmente: 
Basandosi su un’analisi statistica dei dati fiscali americani fra il 1914 e il 1948, l’economista americano Simon Kuznets nel 1953 arrivò alla notevole conclusione che la disuguaglianza di reddito negli USA si era ridotta in modo significativo. Da questa circostanza, Kuznets stabilì che il capitalismo conteneva una legge che garantiva che, man mano che un paese diventava più ricco, la disuguaglianza di reddito si riduceva. Espresse il concetto in quella che fu poi chiamata “curva di Kuznets”, che potete vedere nella figura 5.3. L’asse orizzontale rappresenta il reddito pro capite, quello verticale la disuguaglianza.” (pag. 62)....

La curva di Kuznets ha avuto una grande influenza su generazioni di economisti e politici, confutando l’idea marxista che il capitalismo conducesse a disuguaglianze crescenti. Questa teoria ottimista implicava che lo sviluppo del capitalismo lo avrebbe liberato dallo spiacevole tratto della disuguaglianza di reddito, rendendolo socialmente accettabile. Secondo Kuznets, un meccanismo automatico assicurava che il capitalismo non conducesse a sviluppi rivoluzionari, come Marx aveva predetto.
Col senno di poi sembra che la visione di Kuznets fosse solo un sogno, basato su un periodo di storia molto limitato fra le due guerre.” 
Purtroppo.

4.2. Il problema è che De Grauwe per destarsi dal sogno usa come sveglia, in modo quasi esclusivo, Piketty.
Ora, non posso qui per motivi di spazio entrare nel merito del vastissimo libro di Piketty. 
Basti dire che contiene sì molti spunti interessanti - alcuni di carattere storico sono autentiche chicche (per esempio l’ipotesi che al declino della Gran Bretagna abbiano contribuito in non trascurabile misura i poderosi avanzi primari volti a remunerare una generosa rendita sui titoli del debito pubblico accumulato durante le guerre napoleoniche) - ma anche un enorme difetto di impostazione di fondo, denunciato da molti economisti eterodossi: “Questo autore ritiene ci si trovi di fronte a un tasso di crescita lenta plurisecolare, determinato da fattori tecnologici e demografici, al quale tutte le nazioni finirebbero prima o poi per convergere. Alla luce di questa convinzione, i casi di più alta crescita sarebbero null’altro che una manifestazione dell’avvicinamento dei Paesi a più basso grado di sviluppo a quelli che si trovano sulla frontiera tecnologica, come pure del recupero – nell’ambito dei Paesi industrialmente più avanzati – di fasi di temporaneo arresto o rallentamento del processo di crescita. L’andamento del capitalismo mondiale non rifletterebbe quindi che una legge millenaria, semplicemente di tanto in tanto localmente perturbata da circostanze di natura accidentale. Né la crescita del prodotto né la sua distribuzione tra salari e profitti dipenderebbero dalle linee di politica economica effettivamente perseguite nei diversi contesti e dai sottostanti rapporti di forza tra le classi: nella sua analisi, tanto il tasso di crescita del prodotto che la sua distribuzione sono sostanzialmente dei dati esogeni, entrambi dipendendo dall’offerta di lavoro e dalla sua produttività (ossia dal progresso tecnico).
La tesi dell’“impossibilità della crescita, quali ne siano le cause e i giudizi sui livelli raggiunti nell’ultimo trentennio – grandemente moderati, secolarmente stagnanti, convergenti ad un presunto ritmo plurisecolare lento – è in essenza la tesi dell’impossibilità di influenzare la crescita attraverso la politica
Del ruolo svolto da questa tesi come potente strumento di conservazione dello status quo abbiamo già detto nel primo capitolo. Ci interessa qui porre in luce che una ragione non secondaria dell’attrattiva da essa esercitata risiede nel fatto di costituire un’idea deresponsabilizzante. Che si tratti di senso di colpa derivante da conversioni opportunistiche o di frustrazione generata da una genuina sensibilità sociale, la “crescita impossibile” è un formidabile alibi, ed è pertanto un comodo abito mentale nel quale ci si infila senza troppa fatica.” (Barba e Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, s.p.).

Dal sogno all’incubo, ma sempre addormentati si resta, direi.

Espunta dal quadro la redistribuzione primaria, ossia il conflitto sociale, l’unico rimedio alla disuguaglianza rimane ovviamente la tassazione. Ma rimossa un’analisi corretta della cause del problema, il rimedio appare del tutto privo di realismo: “La liberalizzazione dei movimenti di capitale, per fare il principale esempio concreto, non può coesistere con un sistema fiscale improntato a criteri di accentuata progressività; allo stesso modo, una seria politica di controlli valutari è difficilmente concepibile senza una forte presenza dello Stato nel settore dell’intermediazione finanziaria.” (Ibidem)
D’altra parte una redistribuzione fiscale in grado di rimpiazzare funzionalmente quella primaria non s’è mai vista nemmeno in annate ben più rosee degli odierni chiari di luna, come il “giovane” Piketty stesso riconosceva.   

5. Spero risulti chiaro a questo punto come l’operazione di spezzettamento dei nessi causali impedisca l’elaborazione di un quadro esplicativo generale e quindi la predisposizione di una reazione, culturale e politica, all’altezza della gravità della situazione.
Vi invito a confrontare le giustapposizioni di De Grauwe con l’organica connessione di causericostruita da Alberto, che ovviamente si guarda bene dal separare finanziarizzazione, disuguaglianza e conflitto sociale: il paragone è impietoso.

Giudizio complessivo negativo, dunque?

6. Sì, però…ho lasciato per ultimo quello che mi pare il guizzo più notevole, certamente il più interessante per noi, di tutto il libro.
Arriviamo al seguente paradosso: la democrazia è necessaria per proteggere il capitalismo nel lungo periodo. Le istituzioni democratiche rendono possibile identificare interessi collettivi velocemente e dar loro voce. Questo obbliga i politici a promuovere gli interessi collettivi invece degli interessi individuali dei ricchi e influenti. In questo modo le istituzioni democratiche portano stabilità: la discrepanza tra interessi individuali e collettivi non cresce in misura eccessiva”. (pag. 78).

Questa è un’affermazione molto impegnativa e apprezzabile, una vera rottura epistemologica col neoliberalismo: non è il mercato il luogo di verificazione della bontà dell’azione pubblica, ma è la politica che deve tutelare interessi collettivi che il mercato non solo non garantisce ma mortifica.
Se, come dice Foucault (Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France (1978-1979), a cura di M. Senellart (sotto la direzione di F. Ewald e A. Fontana), Paris, Gallimard-Seuil, pag. 120), a me pare giustamente, il rapporto Stato – società teorizzato dal neoliberismo si organizza attorno all’idea di « uno Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto sorveglianza dello Stato » (chiamiamolo vincolo esterno?), l’osservazione di De Grauwe rompe senz’altro con questa logica.   
Ho già accennato ai faticosi presupposti perché quel che è perfettamente ovvio in pratica, anche alla luce degli stessi fatti riportati da De Grauwe, lo risulti anche in teoria, ma la conclusione resta comunque apprezzabile.

6.1. Il problema sono le conseguenze che NON vengono tratte.
In un impressionante libro Martin Gilens [le cui conclusioni abbiano visto riportate nel saggio di cui abbiamo parlato qui, n. 5analizza come il sistema politico americano promuova gli interessi dei percettori dei redditi più elevati. Ciò è strettamente connesso col fatto che negli USA il denaro è il fattore fondamentale per vincere le elezioni. In una certa misura si potrebbe dire che anche gli USA sono vittima di una forma di “capitalismo clientelare” [crony capitalism].”
Se dunque scopriamo che effettivamente la forma più massiccia e seriale di corruzione” èquella che agisce sul processo normativo”, il rimedio dovrebbe essere “la democrazia sostanziale (sto citando da qui), ossia un insieme di garanzie che assicuri alla maggioranza la possibilità di partecipare, e determinare, il processo decisionale: uno stretto legame fra “contenuto sociale e contenuto politico della democrazia”, come diceva Basso (qui, n. 3. Nota: spero non vi sia sfuggita la possibilità di leggere integralmente Il principe senza scettro sul sito dedicato a tutti i suoi scritti, fornito pure di motore di ricerca interno). 
Siamo realisti, non chiediamo tanto a De Grauwe; dopo la sferzata al sistema politico americano uno sguardo a quello europeo, in cui viviamo lui e noi, non mi pare però sarebbe stato chiedere troppo.
Non pervenuto.  
6.2. Ed è un gran peccato. Perché con tutto il male che si può dire, e che abbiamo detto, della Costituzione americana, perlomeno legislativo ed esecutivo lì vengono *eletti*. Forse le prodezze di un’élite che ha fatto della sottrazione di se stessa al processo elettorale (che per lei è  “è certo miglior cosa”, come diceva ironicamente Gramsci parlando di quella fascista) il proprio credo,  almeno un accenno critico l’avrebbero meritato: il disastro dell’euro non è per nulla estraneo all’alterazione dei rapporti di forza politici fra maggioranza e minoranza “ricca e influente”, proprio il contrario: non bastassero i fatti (che non bastano mai), si tratta di una valutazione facilmente ricavabile anche da un autore di impeccabile caratura mainstream come Eichengreen (qui, n. 2), per tacere di una vasta letteratura politologica e storica (Majone, Gillingham, Bartolini, Anderson, Scharpf, eccetera), spesso non meno ortodossa.
Nell’ambito della quale vi ho già citato Collignon - Schwarzer e Posen, e ora ci aggiungo una colonna accademica dell’integrazionismo come Moravcsik
L’UE riguarda essenzialmente la promozione del libero mercato. I principali gruppi di interesse che la sostengono sono imprese multinazionali, non ultime quelle americane.” (Conservative Idealism and International Institutions, Chicago Journal of International Law, Fall 2000, p. 310).
No, perché un tale assordante silenzio rispetto a ovvietà ampiamente attestate in letteratura spinge l’eurostrabismo, come lo chiamo io, oltre i limiti della cecità (e del ridicolo).

6.3. Il problema è che, in materia di integrazione, dalle premesse poste da De Grauwe, ossia che il mercato ha sempre bisogno di istituzioni politiche sovraordinate, dovrebbero derivare a piombo le conseguenze individuate da Stiglitz nel suo libro sull’euro (The Euro, W. W. Norton & Company, N. Y., 2016, s.p.): 
La lezione fondamentale da trarre è che l’integrazione economica – la globalizzazione – fallirà se travalica l’integrazione politica. La ragione è semplice: quando i paesi si integrano, diventano anche più interdipendenti, così che le azioni di alcuni hanno influenza anche sugli altri. C’è quindi molto bisogno di un’azione collettiva per assicurarsi che ciascuno compia più azioni positive e meno negative verso gli altri paesi.
Ci sono due problemi: in assenza di una sufficiente integrazione politica un’unione economica mancherà delle istituzioni necessarie per intraprendere la suddetta azione collettiva per rendere l’integrazione benefica per tutti; in assenza di sufficiente solidarietà, la condizione di certi gruppi sarà peggiore di quel che sarebbe stata in assenza di integrazione.”
Ma quando le circostanze economiche sono molto diverse, quando alcuni paesi sono debitori e altri creditori, allora l’integrazione politica, compresa la creazione delle istituzioni politiche necessarie per far funzionare l’integrazione, diventa più difficile.”
Ciò che è necessario non sono solo strutture economiche simili ma anche analoghi sistemi di credenze, riguardanti la giustizia sociale e il funzionamento del sistema economico.” 
Col che, “purtroppo”, si colpisce al cuore la strategia di integrazione fondata sul federalismo divisivo e ritrovano tutta la loro saggezza e pregnanza le indicazioni di Mortati: “il trasferimento di competenze dagli organi interni a quelli comunitari in tanto deve ritenersi ammissibile in quanto appaia sussistente, non già un'identità di struttura tra gli uni e gli altri, ma il loro sostanziale informarsi ad analoghi criteri in modo che risultino soddisfatte le esigenze caratterizzanti il nostro tipo di stato” (qui: torniamo quasi alle origini del blog :-)).  
E certo allora la reticenza di De Grauwe risulta comprensibile.

7. Proviamo allora a tirare le somme.
Il libro di De Grauwe è un collage di mezze verità composto da chi, pur rendendosi conto dei rischi che seguono al disastro prodotto dall’egemonia sociale e culturale di cui è stato parte, non riesce a trovare il coraggio e la lucidità per compiere un salto di qualità in termini di analisi.
Peccato per lui e voltiamo pagina.---

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