lunedì 25 gennaio 2021

Giuseppe Colombo x HUFFPOST - La giornata da premier "operoso" Conte incontra Confindustria e le altre associazioni, che smontano l'impianto del Recovery Plan.

 


La giornata da premier "operoso" sbatte anche contro le imprese

Senza alcun cenno alla crisi di Governo, Conte incontra Confindustria e le altre associazioni, che smontano l'impianto del Recovery Plan.


 by Giuseppe Colombo

I sacchetti di sabbia posizionati intorno a palazzo Chigi hanno una forma, un contenuto e anche un vocabolario. La forma: una raffica di incontri, da metà mattina al tardo pomeriggio, con le associazioni delle imprese. Il contenuto: il Recovery plan, la posta in gioca più alta per il Paese, 222 miliardi, la ragione massima per tenere in piedi il Governo. Il vocabolario: Giuseppe Conte non pronuncia mai la parola crisi. Ma la giornata da premier operoso si sgretola proprio sul Recovery. Confindustria affonda il colpo: “Il piano non è conforme alle linee guida di Bruxelles, bisogna fare le riforme strutturali”. E poi un’altra spina nel fianco: non si può sfuggire dalla questione della governance, di chi cioè gestirà i soldi. Tema delicatissimo, che ha aperto la querelle con i renziani, e che il premier ha rinviato a data da destinarsi.

 

Quella che il premier confeziona come la partita parallela per tenersi al riparo, per quanto possibile, dall’evoluzione della crisi politica, si trasforma in una disfatta. Un altro pezzo del Paese - quello degli imprenditori - si stacca e si stacca non solo con una bocciatura generale del lavoro fatto dal Governo sul Recovery, ma attraverso critiche che impattano sui contenuti dello stesso piano. E che alzano la posta in gioco, mettendo il premier ancora di più in difficoltà. Nella lunga lista delle cose che non vanno di Confindustria, quella principale è lo scollamento tra la direzione che la Commissione europea ha indicato venerdì, con le nuove linee guida, e quella del piano italiano messo a punto negli scorsi giorni. Scrive l’associazione degli industriali di viale dell’Astronomia: “Le riforme strutturali devono essere quelle indicate da anni nelle raccomandazioni periodiche all’Italia, quindi prima di tutto quelle del mercato del lavoro, della Pa e della giustizia e ogni intervento va progettato seguendo questa metodologia”. Quindi vanno bene le sei missioni contenute nel Recovery plan, va bene anche un dettaglio maggiore di come i soldi saranno spesi, ma - è il ragionamento - tutto si tiene e tutto ha senso solo se si fanno quelle riforme che Bruxelles raccomanda all’Italia da anni. E che non sono mai state fatte. Un concetto che qualche minuto dopo l’incontro con Bonomi, ribadisce anche il presidente di Confapi Maurizio Casasco: “Prima le riforme, poi i soldi”, aggiungendo alla lista di Confindustria un’altra riforma organica e altrettanto spinosa, quella delle pensioni. 

Perché la partita sul Recovery si è complicata per Conte lo spiega bene questo punto. Per due ragioni. La prima: lo stato dell’arte del Governo. Già si fa fatica a tenere blindato il decreto Ristori 5, figurarsi mettere in cantiere le riforme strutturali. La seconda, che si collega alla prima: mettere mano ai temi come la flessibilità nel mondo del lavoro o all’assetto del lavoro degli statali significa andare a toccare interessi, questioni molto più ampie. Soprattutto bisogna godere di un consenso molto ampio quando si passa dalle parole ai fatti. Con eccezione della stagione dei tecnici di Mario Monti, spinta dalla questione dello spread, il tabellino delle riforme strutturali dei governi che si sono susseguiti è stato molto magro, per non dire effimero. Il Jobs act di Matteo Renzi, qualche altro sprazzo, nulla di più. 

Ora l’Europa dice che queste riforme vanno fatte, aggiungendo una condizione che questa volta non può essere elusa dall’Italia: niente riforme, niente soldi. L’Italia, come tutti gli altri Paesi, deve indicare quali riforme intende fare per garantire l’attuazione del Recovery plan. E deve anche spiegare come intende superare quegli ostacoli che negli ultimi anni sono state indicate come le cause che hanno reso impossibile la messa a terra di queste riforme. Ma la questione delle riforme non è la sola che complica le cose per Conte. C’è - come si diceva - il tema della governance. L’ultima bozza del piano italiano cancella la task force dei tecnici e il triumvirato Conte-Patuanelli-Gualtieri, rimanda alla fase due del Recovery, quella del confronto con le parti sociali e con il Parlamento. Ma il tentativo, fallito, del premier di sminare la questione per firmare la tregua con i renziani, si è trasformata in un boomerang. Sempre Confindustria: La governance “non è ancora delineate e a nostro avviso dovrebbe prevedere modalità di confronto strutturato e continuativo con le parti sociali e un loro coinvolgimento lungo tutto il processo di esecuzione dei progetti”. Tradotto: va bene il disegno generale, ok anche alla ripartizione dei soldi, ma quando i progetti diventeranno veri, quando cioè dovranno essere eseguiti, allora anche le imprese dovranno sedere nella stanza dei bottoni. Anche qui un altro affanno per Conte: la cogestione ritira fuori questioni ataviche e assai scivolose come la concertazione, l’equilibrismo continuo tra le ragioni di chi ha in mano il bastone e il consenso che le imprese, così come i sindacati, veicolano. 

La lista delle critiche delle imprese si allunga con l’indicazione di merito sulla stima degli obiettivi in relazione all’occupazione. La domanda a cui il Governo deve rispondere è: che effetto avranno i contenuti del Recovery plan in termini di ripresa, spinta alle imprese, posti di lavoro?. Per Confindustria, questa fetta importante della strategia manca. E invece serve. Il rischio - viene spiegato - è che “ogni valutazione rischia di ridursi ad una mera somma di richieste, in nome dei diversi interessi economici e sociali”. E poi ancora un affondo sul capitolo infrastrutture, con “il gap” dei 35 decreti attuativi non ancora emanati e i “ripetuti interventi” del decreto Semplificazioni. In altre parole: la burocrazia statale che blocca i cantieri. 

Ma se il Recovery impatta su una progettualità di medio-lungo periodo, ci sono questioni che traggono origine da questa discussione e che sono più impellenti. Anche con queste Conte dovrà fare i conti molto presto. Il 31 marzo termina il blocco dei licenziamenti, si apre la grande questione delle dinamiche del mondo del lavoro, il rischio di una questione sociale, oltre che puramente economica. Oltre alla misura contingente (il Governo valuta una proroga dello stop ma solo per le categorie più a rischio), c’è da capire come reggere l’urto, a maggior ragione se le restrizioni anti Covid dovessero proseguire per ragioni di salute. Confindustria ricorda che da tempo bisognava pensare a una riforma degli ammortizzatori sociali e a una sulle politiche attive del lavoro. L’esecutivo è a lavoro, ma entrambe non prendono forma. Anche perché si tirano dietro problemi che sono anche politici: dal consenso con Cgil, Cisl e Uil a quella dei navigator. Il fianco debole per Conte è quello: la necessità di calare riforme strutturali in un contesto, ancora, di emergenza. Politica, prima ancora di quella che sta attraversando il Paese a causa del virus. Ma il premier, durante gli incontri, non nomina la crisi che sta travolgendo il Governo. Parla della creazione di “premesse per ripartire più forti di prima”. Prova a tenere le imprese dentro  questo tentativo (“Questo non è un piano del Governo ma del sistema Italia). Ma i sacchetti di sabbia intorno a palazzo Chigi sono già bucati.

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