sabato 9 gennaio 2021

Quei giochi tattici di troppo nella maggioranza / di Paolo Mieli

 


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di  Paolo Mieli | 08 gennaio 2021




Se l’attuale (latente) crisi di governo ha un pregio, esso è dato dal fatto che stavolta anche a sinistra ci si comincia a porre qualche domanda circa l’opportunità di proseguire lungo gli impervi sentieri di questa scombinata legislatura. E ci si comincia ad interrogare sulla convenienza di affidarci a governi come quelli partoriti dalle Camere elette nel 2018. Tanto più che mai come in questi giorni è stato evidente che l’unico magnete per la maggioranza (forse anche per l’opposizione) è costituito dal desiderio della maggior parte dei deputati e dei senatori di tenersi stretto il proprio seggio. A maggior ragione dopo il taglio dei parlamentari che, per ognuno dei suddetti deputati e senatori, ha reso oltremodo incerte le prospettive di rielezione. Tutto ciò è un male, affermano due autorevolissimi ex parlamentari ultranovantenni, il comunista Emanuele Macaluso e il socialista Rino Formica. Quest’ultimo ha sostenuto (con Daniela Preziosi su Domani) che, in una situazione come quella che si è venuta a creare, le elezioni dovrebbero essere addirittura «un obbligo». Invece ci si avvia, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, a scegliere il prossimo capo dello Stato in condizioni — pur ineccepibili sotto il profilo costituzionale — di eccezionale quanto evidente fragilità.



Per di più, assieme al Presidente della Repubblica, l’attuale «platea elettorale cancellata dal referendum» (Formica) nominerà diversi membri del Csm che resteranno in carica quattro anni e alcuni giudici costituzionali che «dureranno» nove anni, sottolinea con una punta di malizia lo stesso Formica. Le istituzioni parlamentari — mortificate oltremodo dall’andamento nient’affatto lineare della legislatura — sono allo stato pressoché prive di quella energia che in genere proviene dall’investitura popolare. Ciò che, ad ogni evidenza, da qualche mese si riflette negativamente sulle modalità con cui viene affrontata la pandemia. E anche sui modi con cui ci si accinge a programmare la destinazione delle risorse in arrivo dall’Europa.

Per chiarezza va detto che mettere nel conto l’anticipo delle elezioni non significa scivolare per una sorta di automatismo verso la immediata interruzione della legislatura. Vuol dire piuttosto alzare il livello della scelta che dovrebbe porsi tra un governo di indiscutibile autorevolezza e rappresentatività (ammesso che l’attuale Parlamento sia in grado di conferirgli adeguata legittimazione) e la convocazione dei comizi elettorali. Solo l’opzione vera di una brusca interruzione della legislatura può far leva sul senso di responsabilità di deputati e senatori e costringerli a por fine a quei giochi tattici che, a dispetto dell’emergenza da Covid, li sta portando (o li ha già portati) sulle sabbie mobili. Un’opzione autentica, dicevamo, non «un’evocazione tattica e senza convinzione» come hanno giustamente messo in chiaro sul Fatto Gad Lerner e Franco Monaco, due personalità del mondo politico giornalistico da tempo in sintonia con Romano Prodi. Ai due va riconosciuto il merito di aver posto il tema delle elezioni anticipate nei suoi esatti termini: non sarebbe meglio andare a votare dopo «un limpido dibattito parlamentare», piuttosto che dar vita ad un «esecutivo fragile quanto o più di quello attuale»?

Premesso che a norma di Costituzione il Parlamento ha pieno diritto di restare in carica cinque anni, che il Presidente della Repubblica non è tenuto a sciogliere le Camere fino al momento in cui esse non siano più in grado di esprimere una maggioranza e che l’anticipazione del ricorso alle urne va perciò contemplata alla stregua di un’assoluta eccezione, resta il fatto che nella storia dell’Italia repubblicana ben otto legislature sono state chiuse prima del tempo: una dietro l’altra, per quasi un ventennio, quelle dalla quinta (iniziata nel 1968) alla nona (interrotta nel 1987); più l’undicesima, la dodicesima e la quindicesima. Talché l’eccezione di cui si è detto, forse non va più considerata tale.

La sinistra italiana — per un eccesso di cautela o per una sovrabbondante fiducia nei giochi parlamentari — ha sempre esitato di fronte alla prospettiva dell’interruzione anticipata di una legislatura. Nel 1996 il Pds provò a varare un governo presieduto da Antonio Maccanico allo scopo di evitare quel voto (anticipato) che pure avrebbe portato alla vittoria di Romano Prodi su Silvio Berlusconi. Nel 2011 Pierluigi Bersani rinunciò a sfidare Berlusconi in elezioni (anticipate) che lo davano come probabile vincitore e preferì optare per la soluzione escogitata dal Presidente Giorgio Napolitano di un gabinetto di salute pubblica nelle mani di Mario Monti. Per senso di responsabilità, certo, ma anche per un’innata diffidenza nei confronti della consultazione del popolo sovrano.

Lerner e Monaco conoscono bene l’obiezione posta dai più: è concepibile «andare al voto in piena pandemia»? Ma rovesciano la domanda: come è pensabile affrontare un’emergenza di tali proporzioni con un esecutivo così indebolito? Condannando il Paese per i prossimi mesi o anni a «governi senza respiro»? Certo, per Pd e M5S ben saldi al potere andare alle urne comporta mettere nel conto che possa vincere il centrodestra. Però stavolta, a differenza di quel che è stato nei dieci anni alle nostre spalle, le chance di vittoria per i due schieramenti sarebbero pressoché identiche. Anche per il venir meno di quel terzo «soggetto incognita», i Cinque Stelle, che nelle elezioni del 2013 e in quelle del 2018 snaturò, per così dire, il gioco a due. Adesso si tornerebbe ad una competizione da manuale tra centrodestra e centrosinistra. Quando ciò fosse chiaro, si può presumere che cambierebbe velocemente anche il responso dei sondaggi e la partita diventerebbe decisamente aperta.

Si avrebbe per di più il vantaggio che la legge elettorale in vigore — brutta finché si vuole, ma strutturata in modo tale da indurre ad alleanze prima delle elezioni — costringerebbe Pd e M5S ad un «chiarimento identitario e strategico» (Lerner e Monaco) prima del voto e tale confronto porterebbe nella prossima legislatura alla costituzione di «nuovi gruppi parlamentari finalmente organici alla prospettiva» (ancora Lerner e Monaco) emersa dal chiarimento di cui si è detto.

Se poi si pensasse di riparare allo strappo venuto alla luce nell’ultimo mese con un rammendo, è difficile pensare che un rattoppo del genere, per quanto ben cucito e magnificato dai cucitori, regga per più di qualche settimana. E saremmo ad una seconda lacerazione. A quel punto le elezioni sarebbero inevitabili, ma non più come esito di una scelta meditata e consapevole.

8 gennaio 2021, 21:12 - modifica il 8 gennaio 2021 | 23:27


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