La crisi di Governo porterà qualcosa di buono? Ovviamente no se, come pare, a un Governo di incapaci si sostituirà un altro Governo di incapaci. E se la miriade di comitati tecnico-scientifici e di Governatori regionali e di virologi che ci assediano da ogni tubo catodico non si farà da parte, ammettendo il proprio fallimento. Un fallimento che non è solo politico, non è solo scientifico, non è solo giuridico, ma è soprattutto filosofico.
Per quanto possa apparire paradossale, il fallimento della nostra classe dirigente è “filosofico”, nel senso che essa non è stata in grado di “capire” l’emergenza in atto e, di conseguenza, non è in grado di approntare alcun serio piano di reazione in tutti gli ambiti del vivere civile: economia, professioni, scuola, lavoro, commercio eccetera. Questi signori sono solo in grado di “recepire”, non di “capire”. Il che non significa che non sappiano “ragionare”. Ma purtroppo non “vogliono” ragionare. Aspettano di farsi dettare la linea da qualche autorità. Per questo è un proliferare di “comitati” di ogni tipo: perché i “presidenti” e i “ministri” e i “governatori” non hanno il coraggio, la capacità, la volontà di prendersi la responsabilità di decidere. Cioè di fare politica nel senso più alto del termine. Posto che farla nel senso più basso è alla portata di chiunque. E, dunque, essi delegano. Essi nominano. Essi incaricano. Ed essi aspettano che qualcuno (un ente, una organizzazione, una commissione) detti loro la linea. Dunque, se pensiate che essi sappiano di cosa stanno parlando, quando parlano di Coronavirus, o cosa stanno affrontando, quando affrontano il Coronavirus, vi sbagliate.
Se avessero un minimo di senso “critico”, anzi di “proprio” senso critico, si sarebbero accorti di un aspetto cruciale rispetto al cosiddetto tasso di letalità (rapporto tra morti e contagiati): il tasso di letalità della influenza ordinaria è dello 0,1 per cento. Il tasso di letalità della influenza particolarmente grave è dello 0,4 per cento. Il tasso di letalità del Covid (prendendo per buono il dato di contagiati in Italia secondo L’Istat) è del 3,05 per cento. Con un piccolo dettaglio: che la letalità del Covid “grava” tutta sulla fascia più anziana della popolazione. Sotto i sessant’anni, è di appena lo 0,1 per cento: cioè pari all’influenza stagionale.
Di talché, la risposta a questa emergenza sanitaria non poteva, non può, essere uguale per tutti. E non poteva, non può, coinvolgere indistintamente sessanta milioni di persone come se tutte fossero ugualmente, allo stesso modo, vulnerabili al virus. Soprattutto, se la porzione più giovane, e attiva, è in gran parte immune al morbo. Occorreva, e occorre, un modello di reazione calibrato rispetto ai soggetti più deboli, e più fragili nei confronti del virus. Mentre si è preferito, e si preferisce, reagire con le armi “nucleari” (dal distanziamento sociale ai presidi più diversi ai vaccini meno sperimentati della storia) verso tutti. Uccidendo così, al posto del virus – anzi in sua vece – una intera generazione di giovani e studenti deprivati di rapporti, sport, lezioni, contatti. In una parola: vita. E uccidendo, altresì, l’economia produttiva di un intero paese, soffocando professioni, attività, commercio, produzione, lavoro. In una parola: vita. In pratica, per salvare milioni di persone da una “probabilità” di morte fisica statisticamente irrilevante ne hanno condannato una quantità enorme a una morte culturale e professionale assolutamente “certa”. E la cosa allucinante è che tutto ciò è stato fatto con il plaudente e beota consenso dei più: ri-educati quotidianamente a subire in silenzio.
D’altra parte, come scriveva Erodoto: “È più facile trarre in inganno una moltitudine che un uomo solo”.
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