Per la terza volta in tre mesi, Khalifa Ghwell ha messo in moto un golpe contro il premier Serraj, aumentando il caos in quello che ancora non è uno Stato. Dalle mire di Haftar a quelle di Mosca, dai dubbi sul primo ministro a quelli sulle mosse italiane, una mappa per comprendere la situazione.
di Francesco Battistini
TUNISI — «Khalifa Ghwell è passato dalla depressione al nervosismo e al furore. Continua a considerarsi il legittimo primo ministro. Però sa benissimo di non avere futuro: gli hanno bloccato tutti i conti, è ricercato all’estero, non ha alcun sostegno internazionale. Il suo golpe fa ridere…». Ma che cosa sta succedendo in Libia? Nei caffè di Tunisi è facile capitare al tavolino di qualche ex della Tripoli che fu: sindaci, funzionari della banca centrale, grand commis ormai più abbienti che potenti, ma sempre ben informati su quel che sta succedendo: «Lo chiamano golpe — spiega un ex presidente di tribunale, scappato due anni fa con la famiglia —, in realtà è un segnale. Adesso che il premier Fayez Al Serraj da Tripoli ha aperto un canale di comunicazione con il generale Khalifa Haftar, il padrone della Libia di Tobruk, l’ala dura degl’islamisti teme l’isolamento. E fa la cosa più semplice: l’ennesimo finto golpe. Con un ex primo ministro che ormai non conta più nulla. Contro un primo ministro che non ha mai contato nulla…»...
. (Nella foto Ansa, Ghwell)Tre attacchi in tre mesi
E tre: da quando Serraj è sbarcato, da un gommone, col suo governicchio d’unità nazionale, dieci mesi fa, è la terza volta che Ghwell ci riprova. Prende qualche decina d’armati, organizza un po’ di carosello per la capitale coi pick up delle sue milizie e alla fine tenta d’occupare palazzi del potere libico dove tutto c’è — guardiani assonnati, uffici vuoti, computer scollegati — meno che il potere. Lo fece all’arrivo di Serraj, mandato dall’Onu a deporre lo stesso Ghwell: occupò per qualche ora la tv di Stato, incendiò un paio di gazebo sulla Piazza dei Martiri e poi si rifugiò a Misurata. Lo rifece l’autunno scorso con un putsch che lo portò a lasciare i suoi uomini in alcuni ministeri, per settimane, senza che nessuno si prendesse la briga di sloggiarli. Ora, quest’assalto. Da lui enfatizzato, dagli altri minimizzato, da tutti comunque guardato con preoccupazione non tanto per quel che Ghwell potrebbe combinare, quanto per quel che Serraj ancora una volta non è riuscito a fare: assemblare un Paese che continua ad avere quattro autoproclamati governatori — Serraj, Ghwell, il generale Haftar, il vicecaliffo di Al Baghdadi — e nessun vero governo. (Sfiorando l’icona, l’articolo «Il Fantasma di Serraj» di Francesco Battistini; nella foto Afp, l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone mentre presenta le sue credenziali al premier libico Serraj, il 10 gennaio,a Tripoli)
Il finto golpe
Golpe o non golpe? Il blitz di giovedì, le voci e le smentite, le polemiche sul ruolo dell’Italia hanno amplificato di molto quel che sta succedendo. Per fare un colpo di Stato, servirebbe prima avere uno Stato. E questo «consiglio di fregata» presieduto da Serraj — così lo chiamano sprezzanti gli avversari: un consiglio dei ministri balneare insediato nella base navale di Abu Sita, l’unico pezzo di Libia che l’Onu è riuscita a tenere sotto controllo in questi mesi — è un travicello impegnato a galleggiare. A capo solo di se stesso. I ministeri non esistono e se c’è da fare un accordo per la ricostruzione dell’aeroporto o per il controllo dei migranti o sul monitoraggio dei jihadisti, com’è accaduto con le imprese italiane e con la visita del ministro Minniti, nessuno si sogna d’andare nei tre palazzi dell’Economia, della Giustizia o della Difesa che Ghwell ha assaltato: ci s’incontra direttamente con le autorità aeronautiche di Mitiga, con la Guardia costiera, coi capi dei servizi.
I quattro interrogativi
Golpe o non golpe, e nell’inaffidabilità di molte fonti, gl’interrogativi di questa settimana libica restano quattro: la forza crescente del generale Khalifa Haftar, la debolezza eccessiva di Serraj, il ruolo sempre più invadente della Russia, l’esposizione dell’Italia. Primo: come maneggiare Haftar? Senza il generalissimo, ormai l’hanno capito quasi tutti, la pax libica è introvabile. All’uomo forte della Cirenaica non basta più ritagliarsi il ruolo di capo di tutte le forze armate, rivendicato fin dal primo giorno del governo unitario: ora Khalifa gioca da vero rais, incontra i russi per avere le armi e l’appoggio politico che né gli americani, né gli europei gli hanno mai voluto concedere. S’è intestato la guerra all’Isis per conto dell’Occidente, nonostante gli scarsi risultati militari. Spinge il Parlamento di Tobruk a imitare i Fratelli musulmani di Ghwell e a contestare apertamente «l’aggressione» dell’Italia, unico Paese tornato ad aprire un’ambasciata. I Fratelli musulmani di Tripoli e i misuratini lo odiano anche più di Gheddafi, ma la comunità internazionale si sta accorgendo di non poter restare ostaggio delle antipatie dei tripolitani. (Sfiorando l’icona blu, l’intervista di Lorenzo Cremonesi al generale Haftar: «L’Italia in Libia si è schierata dalla parte sbagliata»; sotto, l’intervista video)
L’intervista al generale libico Khalifa Haftar:
La forza di Putin
Secondo interrogativo: come comportarsi con Putin? Nel gelido isolamento americano, con un’amministrazione Trump ancor più intenzionata a scaricare la grana libica sull’Europa, Mosca ha gioco facile. Trova nel presidente egiziano Al Sisi — e nel suo desiderio di rivincita diplomatica sull’Italia, dopo il caso Regeni — l’alleato giusto per sostenere Haftar. Invita il generale libico al Cremlino e gli dà perfino la passerella d’onore sulla portaerei Kuznetsov. Sogna d’aprire sul mare di Bengasi una base navale uguale a quella che possiede in Siria. Il tempo e la confusione europea lavorano a favore dello Zar: più Haftar rimane isolato, maggiore sarà la presenza russa in questa parte di Mediterraneo. Senza contare che l’esperienza siriana ha impressionato in positivo molti leader arabi: la Libia è una grande opportunità, per confermare che Putin sa fare da gendarme nella regione. E secondo l’immaginifica stampa libica, niente di meglio che un accordo con l’amministrazione Trump — magari proprio nel sostegno congiunto a Haftar —, per tagliare del tutto fuori gli europei e sperimentare una nuova stagione col nuovo presidente americano. (Sfiorando l’icona blu, l’articolo «Libia, cresce sentimento anti-Italiano. E il ruolo della Russia», di Lorenzo Cremonesi; sotto, nella foto Ap, Putin con il premier russo Medvedev)
I dubbi su Serraj
Terzo interrogativo: che fare con Serraj? Tenerlo lì è sempre più complicato: lo capiscono l’inviato onusiano Kobler, gli europei, sotto sotto anche gl’italiani che vi hanno puntato. Tanto che in queste ore si parla di revisione degli accordi di Shkirat, ovvero del documento che nel dicembre 2015 aveva portato alla formazione del governo unitario. Durante il blitz di Ghwell, Serraj era al Cairo a cercare una mediazione coi protettori egiziani del suo grande rivale Haftar. La sua garanzia di sopravvivenza e insieme la sua palla al piede è però un misuratino di 45 anni, il vicepremier Ahmed Maitiq, che fa da cerniera con le milizie meglio armate del Paese (e che sostengono il governo Onu) ed è il vero arcinemico di Haftar. Gli aspiranti golpisti chiedono la cacciata del re travicello e addirittura un processo, ma anche fra i (pochissimi) suoi c’è chi vorrebbe rivederne il ruolo di presidente con un triumvirato che rappresenti meglio la coalizione d’unità nazionale. Sacrificare adesso Serraj, sarebbe un pessimo segnale. Non mollarlo, ancora più rischioso.
Il ruolo dell’Italia
E l’Italia? In Libia non esiste l’Onu, anche se è stata l’Onu a impiantare il governo Serraj, e a farne le veci adesso è Roma con la sua ambasciata riaperta: un atto di coraggio e un azzardo. Già prima dell’ultimo show, Ghwell se l’era presa con la «politica mussoliniana» che ha riportato i militari italiani in Libia, con le navi di pattuglia per i migranti e coi soldati di scorta all’ambasciatore Perrone e all’ospedale aperto a Misurata. Ma a preoccupare di più sono le minacce di Tobruk, i proclami jihadisti dei mesi scorsi contro «i nipotini del generale Graziani», le inconfessabili complicità dei guardacoste libici coi mercanti di migranti, un clima antitaliano che dura da mesi e anzi si sta appesantendo. In questa fase francesi, tedeschi e inglesi ci lasciano volentieri il «ruolo leader» più volte rivendicato da Renzi nella vicenda libica. I vicini algerini e ciadiani, temendo che le cose degenerino dopo l’apertura dell’ambasciata, hanno praticamente chiuso le loro frontiere. Le opposizioni di M5S e Lega già rumoreggiano. «È singolare — provoca sorridendo l’ex presidente di tribunale esiliato a Tunisi — che tutto il dossier libico sia passato dalle mani del ministro degli Esteri a un uomo della sicurezza come il vostro ministro Minniti: vuol dire che l’Italia ci considera ancora un suo affare interno?... ». A Tripoli, per mesi garriva sul tetto della nostra ambasciata un tricolore bucherellato di colpi. L’hanno sostituito. Ogni mattina, meglio dargli un’occhiata. (Nella foto sopra, Afp, l’inviato dell’Onu per la Libia Martin Kobler a Tripoli l’8 gennaio)
14 gennaio 2017
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