Nel marzo 2012 i Paesi dell’UE hanno sottoscritto a maggioranza il Patto di Bilancio (meglio noto come Fiscal Compact) che vincola ogni Stato dell’Unione al pareggio del saldo strutturale (cioè il saldo nominale al netto delle misure una tantum e del ciclo economico) o, in caso di disavanzo strutturale, al rispetto di determinati percorsi di rientro. Il Parlamento italiano ha inserito questo vincolo nella Costituzione all'interno dell'articolo 81. Da allora la Commissione Europea ha avuto un'ulteriore via libera istituzionale per fare spulciare i conti pubblici dell’Italia e sollecitare riforme e “aggiustamenti”, compresa l’ultima richiesta di una manovra correttiva dello 0,2% del PIL (3,4 mld di euro).
L'austerità uccide, uscirne si può:...
Non si può vivere di austerità, specialmente per l’Italia che ha un debito pubblico mostruoso di oltre 2200 miliardi di euro (pari al 132,4% del PIL), modeste prospettive di crescita e che al momento si trova a dover gestire varie emergenze. Anche quest’anno il Tesoro dovrà rifinanziare oltre 260 mld di BTP; con l’approcciarsi della conclusione delle misure straordinarie di politica monetaria della BCE (quantitative easing) e i giudizi negativi degli esperti indipendenti (pensiamo al recente declassamento del nostro rating sovrano da parte dell’agenzia DBRS), l’impresa si profila ardua e l’eventualità di un aumento della spesa per interessi si fa sempre più probabile.
Stare nell’euro diventa ogni giorno più complicato e costoso per la maggioranza dei Paesi dentro l'eurozona. E questo lo sa anche la BCE che per bocca di Draghi ha recentemente dichiarato che si può uscire a patto di pagare il conto dell’uscita. L’uscita è dunque possibile e ciò darebbe sostegno ai saldi commerciali e nuova linfa ad una crescita asfittica. Il debito pubblico poi, ridenominato in lire, tornerebbe sotto controllo per effetto della prevedibile svalutazione della nuova moneta nazionale. Bisogna fare presto però dal momento che i costi di uscita sul nostro debito pubblico continuano ad aumentare con il passare del tempo grazie anche all’inerzia dei Governi di fronte alle richieste dell’euroburocrazia.
I costi dell'uscita dall'Euro, più si aspetta più si paga
Ma quanto ci costa uscire dall’Euro e ridenominare il nostro debito pubblico?
I conti li ha fatti Marcello Minenna, docente alla London Graduate School of Mathematical Finance. ll beneficio da ridenominazione del debito in lire dipende dal perimetro di applicazione della Lex Monetae, il principio universalmente riconosciuto che conferisce a uno Stato la facoltà di ridenominare i propri debiti in moneta nazionale (nel caso di specie, la nuova lira come da nostro codice civile) purché governati dal diritto domestico. In Italia, su 1882 miliardi di BTP appena 48 sono di diritto estero e andrebbero dunque rimborsati in euro con una lira svalutata, rappresentando quindi un implicito costo finanziario per i contribuenti nella nuova moneta. In teoria ciò vorrebbe dire rimborsare i restanti 1830 miliardi di BTP in nuova lira svalutata consentendo dunque un beneficio per il Paese. Il problema è che a partire dal 2013 con decreto del governo Monti i BTP di nuova emissione hanno dovuto incorporare le cosiddette CAC, ossia clausole di azione collettiva che, dopo lo swap sul debito greco del marzo 2012, i Paesi dell’area euro hanno concordato di introdurre progressivamente nelle nuove emissioni di titoli di Stato. Tali clausole consentono oggi ai detentori di almeno il 25%+1 di ogni emissione di BTP di bloccare il governo dal ridenominare in nuove lire tale debito.
In base a recenti elaborazioni su dati Bloomberg e Dealogic, ipotizzando una svalutazione del 30% della nuova lira e assumendo che i 210 miliardi di BTP comprati dalla Banca d’Italia nel programma di QE siano per metà ridenominabili e per metà no, Minenna conclude che l’Italia si trovi oggi a metà del guado con circa 200 miliardi di benefici finanziari dalla ridenominazione sulla componente domestica grazie alla Lex Monetae e circa altrettante perdite sui BTP non ridenominabili per via appunto delle CAC. Ciò vuol dire una situazione di pareggio attuale destinata a peggiorare esponenzialmente man mano che la migrazione verso i BTP con CAC sarà completata nel 2022: da adesso in poi rinviare l’uscita dall’Euro e dunque la ridenominazione costa all’Italia circa 70 miliardi all’anno, metà come maggiori perdite e metà come minori guadagni.
Referendum sull'euro subito
Un referendum che consenta agli italiani di decidere sull'euro è essenziale, soprattutto alla luce di questi costi enormi a cui si va incontro. Gli italiani devono essere informati di cosa vuol dire restare nell'euro e cosa significa uscirne, in termini di costi e benefici. Il fattore tempo a questo punto è cruciale. Riportare la Banca d’Italia nell’orbita del Tesoro annullando il divorzio deciso in altra epoca storica e ridenominare la parte maggiore possibile del nostro debito pubblico – compresi tutti i 210 miliardi di via Nazionale – al fine di tornare a far crescere economia e occupazione attraverso la riconquistata sovranità monetaria.
Il 2017 offre all’Italia una ottima occasione per far sentire la sua voce in Europa. Entro il 1° gennaio 2018 il Fiscal Compact dovrà essere ratificato nel quadro giuridico dell’UE. E serve l’unanimità. Questo dà all’Italia la forza contrattuale necessaria per presentarsi alla Commissione Europea e alla BCE e minacciare il suo veto in assenza di un accordo ad esempio sulla monetizzazione dei titoli di stato acquistati dalla Banca d’Italia nell’ambito del QE. Oppure in assenza di una road map verso gli Eurobond. Rimanere in questo Euro senza mutualizzazione del rischio e rispettando al contempo questo Fiscal Compact significa condannare il paese ad un progressivo impoverimento.
Cambiare strategia
Lo svantaggio dell’enorme debito italiano (anche quello del settore privato) può diventare un punto di forza. L’Italia è la terza economia dell’area euro e il nostro debito pubblico è più di 6 volte quello greco: questo ci dà la forza per negoziare alla pari la flessibilità di cui abbiamo bisogno per ripagare i nostri creditori. Altrimenti l’Europa a trazione tedesca continuerà a dare le carte; e non ci vuole molta fantasia per capire che ci attende lo stesso drammatico copione della Grecia, a partire dalla ristrutturazione del debito pubblico italiano già “suggerita” dai consiglieri economici della Merkel.----------
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