Il sì convinto a Draghi mette in difficoltà Pd e in parte M5s. E così si intesta la leadership del centrodestra nell’operazione sottraendola a Silvio Berlusconi.
“Non è il momento dei no. Dalla Lega o un sì convinto o nulla. Non chiederemo posti, decide Draghi”. Forse nemmeno nelle più rosee aspettative del Quirinale l’adesione della Lega alla scelta di Mario Draghi poteva essere più totale. Matteo Salvini esce da una mezz’ora di confronto con il presidente incaricato ribaltando qualunque tipo di voce che lo dava per scettico, costretto al via libera dalle pressioni del mondo produttivo che guarda alla Lega, da alcuni governatori del Nord, da Giancarlo Giorgetti.
Se per convinzione o per tattica, rimane il fatto che la svolta salviniana sulla via di Draghi è stato il dato veramente nuovo di una giornata politica che ha visto anche la conversione di Beppe Grillo davanti all’ex presidente della Bce, per un’altra giravolta che al contrario si era capita da alcuni giorni. Perché mai Salvini aveva posto veti a Draghi, ma mai nemmeno si era spinto fino al “siamo a disposizione”, o al “non poniamo veti”, parlando di “una mezz’ora di confronto interessante e stimolante sull’idea di Italia che per diversi aspetti coincide”.
La mossa di Salvini spariglia il campo. Legittima la Lega nel campo delle forze responsabili, si intesta la leadership del centrodestra nell’operazione sottraendola a Silvio Berlusconi, spariglia il campo nella fu maggioranza giallorossa, e intesta al Carroccio un posto tra le forze che si troveranno a gestire il Recovery plan, e che saranno sedute sui posti di governo quando arriverà la tanto annunciata quanto agognata ripresa attesa tra la seconda metà di quest’anno al 2022. Senza contare un posto al tavolo quando si tratterà di decidere il successore di Sergio Mattarella.
La mossa spariglia il campo opposto. È il Partito democratico a sbandare. Ritrovarsi al governo con i sovranisti non era nelle prospettive iniziali, tanto che quando Vito Crimi esce a dichiarare dopo l’incontro con Draghi prova a mettere i puntini sulle i a nome di quella che sembra a tutti gli effetti una nuova coalizione politica: “Si riparta dal perimetro della vecchia maggioranza e di quanto di buono fatto dal governo uscente”.
L’imbarazzo dalle parti del Nazareno è notevole. Sedersi al tavolo del Consiglio dei ministri insieme al partito al quale si voleva fare da argine per non consegnargli “i pieni poteri”, al partito dei porti chiusi e dei decreti sicurezza genera un grande imbarazzo. “Salvini folgorato sulla via di Bruxelles si dichiara pronto a sostenere un Governo pienamente europeista. Si tratta di una conversione repentina credibile della Lega o solo di strategia?”, si chiede il capogruppo Pd in Commissione Affari europei alla Camera, Piero De Luca. “La Lega abbandonerà le posizioni di Orban e sosterrà anche nel parlamento europeo la coalizione Ursula?”, si chiede quasi provocatoriamente il collega Alberto Losacco. Nel giro di una manciata di minuti dalle dichiarazioni di Salvini il clima si fa rovente. A Palazzo si rincorre una voce: a queste condizioni il Pd non ci sta, non si metterà mai di traverso a Draghi ma si limiterà all’appoggio esterno. I rumors si fanno a tal punto insistenti che, quando da poco è passata l’ora di pranzo, il Nazareno è costretto a diramare una nota: “Notizie totalmente infondate, la posizione del Pd è stata votata dalla Direzione nazionale all’unanimità e illustrata ieri a Draghi”.
“Sì, peccato che la compartecipazione con Salvini non era prevista, dovremo per lo meno ridiscuterne”, dice un parlamentare. I vertici del partito si affrettano a sgomberare il campo da dubbi, escono in batteria sia il capogruppo alla Camera Graziano Delrio, sia il collega del senato Andrea Marcucci, ribadendo il sostegno a Draghi. “Ma questa mossa pesa - va avanti il parlamentare - Zingaretti sarebbe pure entrato nel governo se Draghi avesse voluto dentro i leader, ma con Salvini non è la stessa cosa”. La considerazione si allarga a macchia d’olio, finendo per coinvolgere tutti i big del partito, e si inizia a ragionare su una formula digeribile, come quella di indicare solo tecnici d’area. Ma su questo sarà fondamentale il confronto con Draghi nel secondo giro di consultazioni.
Fatica anche il Movimento 5 stelle, ma l’elemento di Salvini è solo una piccola parte del grande elefante che ha posto Beppe Grillo nella stanza dei pentastellati, con il suo endorsement pieno a Draghi, seguito da pressoché tutti i maggiorenti del partito, ma osteggiato da un robusto numero di parlamentari, soprattutto di senatori, guidati da Alessandro Di Battista, che ha anticipato le consultazioni dei suoi con un secco “non cambio idea, a Draghi dico no”. Dice un esponente del governo uscente: “Stiamo dicendo sì a Draghi, ma ti pare che possa essere un problema se c’è qualche ministro con la Lega, con la quale abbiamo già governato?”. Il problema della scissione interna non è se avverrà, ma quando e in che numeri. Basterebbero tredici defezioni al Senato per rendere numericamente più rilevante il sostegno di Lega e Forza Italia rispetto a quello di Pd e M5s, ma di questo si ragionerà più avanti.
Il piano di Salvini spariglia il campo, e il segretario della Lega punta a capitalizzare la rinnovata centralità. Nel mirino almeno due ministeri, un ministero di spesa per poter dire la propria sul Recovery plan, uno pesante come l’Istruzione e un posto chiave per Giancarlo Giorgetti, il garante dell’operazione. Il ministero dei Rapporti con il Parlamento, forse, anche se il colpo grosso sarebbe un bis come Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, casella difficilmente raggiungibile. L’esito è tutto da scrivere, ma Salvini ha segnato un punto. La partita è ancora lunga.
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