C’era una volta Gianroberto Casaleggio. Un uomo con la democrazia diretta in testa. Un uomo che a colazione mangiava pane e Contratto Sociale di Jean-Jacques Rousseau. Un uomo – checché se ne dica – che voleva “restituire al Popolo il suo potere” (lo disse a me più volte al telefono), e che per ottenere questo obiettivo era disposto a sacrificare perfino se stesso e la sua creatura, il Movimento 5 Stelle.
In più di una occasione ebbe a dirmi che non importa che una legge sia buona per il Movimento: l’importante è che lo sia per il popolo. Ad esempio, durante le trattative per la nuova legge elettorale, lui voleva un proporzionale puro perché era quello che avrebbe garantito il diritto di rappresentanza a tutti, e mentre i parlamentari dibattevano animatamente nelle commissioni per scegliere il modello che più avrebbe avvantaggiato se stessi, lui mi diceva “non mi interessa se il Movimento Cinque Stelle ci rimette: l’importante è che sia una buona legge per il Paese”.
Un uomo che per scegliere la legge elettorale che il Movimento avrebbe sostenuto, organizzò diversi turni di votazione sul blog di Grillo (quando era ancora “il blog di Grillo” ed era pesante come una montagna), discutendone ogni singolo aspetto, da quelli di più ampio respiro via via fino al più piccolo dettaglio, con votazioni incrementali fino al verdetto finale. Un verdetto che avrebbe rappresentato la maggioranza, ma non una maggioranza qualsiasi: una maggioranza informata e senza pregiudizi. Era un’università della vita, prima ancora che di politica.
Un uomo per il quale il programma elettorale presentato alle elezioni, sulla base del quale il suo Movimento aveva ricevuto 8 milioni di voti, era come un contratto scritto nel sangue. E i contratti non si possono cambiare, a meno che tutte le parti non siano coinvolte ed approvino i cambiamenti. Fu per questo che, quando in corso di legislatura gli proposero di aggiungere l’immigrazione tra i temi che il Movimento avrebbe affrontato in Parlamento, lui mise sul blog un lapidario post dal titolo “nota sul metodo” (adesso quasi impossibile da ritrovare), in cui affidava a poche, brevi righe il seguente principio: “Il programma elettorale firmato dagli italiani con il voto non può essere cambiato durante la legislatura. Se si vogliono inserire nuovi temi, questi dovranno essere oggetto di un nuovo contratto (programma elettorale) da stipularsi con i cittadini alle prossime elezioni“.
Capite? Si trattava del rispetto della sovranità popolare esplicato ai suoi massimi livelli: il diniego della facoltà dei parlamentari di derogare rispetto al patto ed agli impegni assunti con il popolo. Cosa c’è di più chiaro ed onesto? Cosa c’è di più adamantino, cristallino, ineccepibile? Una volta gli dissi al telefono: “Gianroberto, questo forse dovresti spiegarlo anche ai tuoi parlamentari, perché non credo che l’abbiano capito molto bene. Scrivi un libro, un manuale, e mettici dentro tutti i principi fondativi del Movimento 5 Stelle, cosicché tutti possano studiarli e capirli“. Dovette rifletterci, perché qualche anno dopo – quando ormai io dalla comunicazione del Movimento ero uscito (probabilmente ero troppo fissato con il rispetto di queste regole) – mi richiamò e mi disse: “Claudio, scriviamo quel libro insieme“. Avevamo già scritto tutta l’ossatura dei capitoli, e forse da qualche parte debbo avere ancora gli appunti. Poi se ne andò, e da quel momento in poi quei principi diventarono una sacra reliquia da omaggiare di tanto in tanto, conservata nella teca di un museo politico, come si va in chiesa a confessarsi ma poi si esce e si fa tutt’altro. Il mondo non sa quale occasione ha perso. Del resto: le belle idee hanno bisogno di uomini per realizzarsi: sono gli uomini fanno la differenza. E gli uomini, spesso, sbagliano, essendo molto meno puri delle idee.
Dunque, per tornare all’oggi – che è domenica sera e mia moglie si sgola che la cena è pronta da un’ora – vi immaginate cosa avrebbe mai pensato quell’uomo, Gianroberto Casaleggio, di un referendum online basato su un quesito che per strappare un voto favorevole promette la creazione di un super-Ministero della Transizione Ecologica (che inglobi dunque altri ministeri che avrebbero dovuto sparire), quando poi quel super-ministero non è stato creato, o non è un “super ministero”?
Parliamo sempre di quello stesso uomo per il quale un parlamentare non avrebbe dovuto proprio occuparsi di immigrazione, in Parlamento, perché nel programma elettorale del M5S (approvato dagli iscritti e poi votato dagli italiani) l’immigrazione non era stata inclusa… Hai voglia a spiegargli che le commissioni lavorano lo stesso ed una posizione bisogna pur prenderla. Maurizio Buccarella ne sa qualcosa…
E allora, che fare? L’esito di un referendum online, a norma di Statuto, può essere impugnato dal 10% degli iscritti, se ritengono che ve ne siano i motivi, e si può chiedere una seconda votazione da effettuarsi su un quesito corretto. E se non lo fanno gli iscritti, lo possono fare i parlamentari, tra i quali chi la pensa in questo modo non manca, come ad esempio Barbara Lezzi, che oggi sulle pagine del Fatto Quotidiano dice: “Se non si rivotasse, non mi sentirei vincolata, visto che il quesito era erroneo“. Si riferisce al vincolo di votare la fiducia al Governo Draghi, e qui le implicazioni politiche sarebbero pesanti.
In testa a questo post, la chiacchierata tra me e Paolo Becchi, un acceso sostenitore della necessità che il referendum su Draghi del Movimento Cinque Stelle venga rifatto con un quesito più onesto.
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