di Giuseppe Matranga
- Un’economia italiana in stallo
L’Italia, a partire grossomodo dall’inizio degli anni 2000 — periodo in cui è entrato in vigore l’Euro — ha vissuto una crescita reale del PIL e della produttività lavorativa molto modesta o nulla. In altre parole, l’economia non “decolla”. Questo ha importanti conseguenze sul mercato del lavoro. Le imprese, in un contesto poco dinamico, faticano ad investire, ad assumere in massa o ad aumentare significativamente la remunerazione dei propri dipendenti.
Ad esempio, la produttività oraria in Italia tra il 2000 e il 2024 è rimasta praticamente piatta, mentre Francia e Germania sono cresciute sensibilmente.
Questo fa da base per una dinamica salariale debole: senza crescita di produttività, è difficile che le remunerazioni reali – cioè al netto dell’inflazione – crescano in modo significativo.
- Il mercato del lavoro: domanda, offerta e potere contrattuale
Il lavoro, come bene economico, risponde a una “legge” semplice: salario determinato dall’incontro tra domanda e offerta.
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*Nel grafico vediamo: sull’asse verticale il salario reale, sull’asse orizzontale la quantità di lavoro (ore o lavoratori). La curva della domanda di lavoro è decrescente rispetto al salario (più alto il salario, meno lavoro domandato) e la curva dell’offerta è crescente (più alto il salario, più persone offrono il lavoro).
- Quando l’offerta di lavoro è abbondante (molti disoccupati, molti in cerca) e la domanda è debole, il salario di equilibrio tende ad abbassarsi.
- I lavoratori hanno minor potere contrattuale: se non accetti, c’è qualcuno che accetta. In Italia questo fenomeno è accentuato da un tasso di disoccupazione o di inattività che resta elevato rispetto ad altri paesi sviluppati. Ad esempio, secondo l’OECD, all’inizio del 2025 i salari reali in Italia erano 7,5% inferiori rispetto a inizio 2021. Questa dinamica spiega bene perché, pur lavorando, molte persone percepiscono stipendi sostanzialmente ridotti in termini reali.
- In Italia la disoccupazione — e l’inattività — sono storicamente elevate. Anche se recentemente alcuni dati sono migliorati, il contesto generale ha favorito una condizione in cui i lavoratori sono «sostituibili» in una certa misura e, dunque, il salario tende ad essere contenuto. Inoltre, quando l’economia non cresce e non crea molti posti di lavoro nuovi qualitativi, la dinamica salariale resta bloccata.
- I salari bassi non riguardano solo i lavori “non specializzati”
- Anche ruoli che richiedono qualifiche elevate — dirigenti, quadri, professionisti — mostrano una riduzione del potere d’acquisto rispetto al passato.
- Questo perché la scala salariale è proporzionale: se il salario base (per un operaio non specializzato) si abbassa, allora anche i salari “più alti” – che si basano su percentuali rispetto al base – subiscono una compressione reale. *tra i paesi del G7, l’Italia è l’unica che ha visto il salario medio reale diminuire da circa il 2000 al 2022 (-0,9 %).
- Meccanismi a cascata tra settori
- Supponiamo che, nell’agricoltura, l’offerta di lavoro aumenti (es. più persone disponibili, anche da immigrati, o minori barriere in entrata): il salario agricolo scende.
- Di conseguenza, alcuni lavoratori “migrano” verso l’industria per cercare salari migliori.
- Ma questo fa aumentare l’offerta di lavoro anche nell’industria e abbassa il salario anche lì.
- Tutto ciò ha effetto sulla scala salariale interna: la fascia più bassa si comprime, e tutte le altre fasce “scendono” di conseguenza. Questo è un processo sistemico: non è solo “i salari bassi in un settore” ma un effetto domino che abbatte i salari medi in molti settori.
- Le imprese in un contesto stagnante
- Molte imprese sono “in difficoltà”: margini ridotti, pressione competitiva, difficoltà di innovazione → questo giustifica (o rende necessario) salari più bassi.
- Le imprese che “riescono bene” potrebbero però decidere non offrire salari significativamente migliori, perché:
- vogliono mantenersi “in linea” con il mercato locale che paga poco;
- sanno che l’offerta di lavoro è ampia, dunque il potere contrattuale dei lavoratori è basso;
- accettano che il modello salariale sia “contenuto” per preservare competitività costi-lavoro. In pratica: stagnazione economica + ampia offerta di lavoro = salari contenuti, anche nelle imprese che potrebbero permettere di più.
- La situazione del mercato del lavoro italiano è ormai stagnante da più di vent’anni, se non da tre decenni. Questa condizione di crescita quasi nulla e bassa dinamicità è diventata una caratteristica strutturale del nostro Paese. Non si tratta più di una crisi temporanea, ma di un equilibrio statico e radicato che ha cambiato il modo in cui lavoratori, imprese e cittadini percepiscono la realtà economica.
- Ciò che è forse più preoccupante non è solo la stagnazione in sé, ma la normalizzazione della stagnazione. Dopo tanti anni in cui il PIL non cresce in modo significativo e i salari reali continuano a perdere potere d’acquisto, gran parte della popolazione ha finito per abituarsi a questa condizione. I cittadini non si chiedono più “perché va così?”; anzi, molti ritengono che sia il normale corso degli eventi. Questa rassegnazione collettiva ha un forte impatto psicologico: viene meno la spinta al cambiamento, il desiderio di pretendere qualcosa di diverso, persino la fiducia che la situazione possa migliorare.
- La mancanza di un vero shock economico o politico ha contribuito a rendere questa percezione ancora più radicata. Non essendoci stato un crollo improvviso e drammatico, ma un lento scivolare nella stagnazione, la popolazione si è adattata gradualmente. Questo adattamento ha prodotto una sorta di inerzia culturale: il lavoratore medio tende a credere che stipendi bassi, precarietà e mancanza di prospettive siano inevitabili, parte integrante della condizione italiana.
- In questa cornice, anche la politica trova terreno fertile per agire in modo superficiale. Molti partiti e movimenti sfruttano la frustrazione economica dei cittadini per alimentare narrazioni semplicistiche, che individuano capri espiatori piuttosto che analizzare le cause strutturali del problema.
- Un esempio emblematico è quello dell’immigrazione. Le forze politiche di destra sostengono spesso che “gli immigrati rubano il lavoro agli italiani”. Si tratta di un’affermazione che contiene una parziale verità: l’immigrazione economica, cioè quella di persone provenienti da Paesi poveri, tende effettivamente ad aumentare l’offerta di lavoro, soprattutto nei settori a bassa qualificazione, contribuendo a mantenere bassi i salari. Chi proviene da contesti di forte povertà ha pretese retributive inferiori, e questo indebolisce ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori italiani meno specializzati.
- Dall’altra parte, le forze di sinistra rispondono che “gli immigrati fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare”. Anche questa, tuttavia, è solo una verità parziale. Gli italiani non rifiutano quei lavori per principio, ma perché sono pagati troppo poco rispetto al costo della vita e alla qualità della prestazione richiesta. In realtà, il vero problema non è chi accetta quei lavori, ma il fatto stesso che esistano lavori sottopagati. Se nessuno fosse disposto ad accettarli, il mercato sarebbe costretto ad aumentare le retribuzioni per renderli sostenibili.
- L’errore più comune, quindi, non è tanto ideologico quanto cognitivo. Il cittadino medio tende ad avere un approccio troppo semplificato ai meccanismi economici: osserva un problema (per esempio, la disoccupazione) e propone una soluzione diretta (limitare l’immigrazione, introdurre un bonus, fissare un salario minimo). Ma raramente si interroga sulle cause profonde o sulle conseguenze indirette di tali soluzioni. Questo approccio superficiale, alimentato da anni di stagnazione e sfiducia, rende la popolazione più manipolabile sul piano politico e meno incline a cercare soluzioni di lungo periodo.
- In definitiva, la stagnazione economica italiana non è solo una condizione economica, ma un fenomeno psicologico e culturale. Ha plasmato mentalità, aspettative e comportamenti collettivi, producendo una sorta di “rassegnazione strutturale”. E fintanto che questo atteggiamento non cambierà, sarà difficile innescare un vero processo di rinnovamento economico e sociale.
- la restituzione in contanti di una parte dello stipendio ricevuto con bonifico, pratica ancora diffusa in vari settori;
- i contratti part-time fittizi, che sulla carta prevedono 20-30 ore settimanali, ma che nella realtà richiedono ai dipendenti di lavorarne 40-50;
- la creazione di false collaborazioni o contratti di comodo (ad esempio tramite finte partite IVA) per ridurre i contributi e il costo del lavoro.
Tutti questi stratagemmi dimostrano che il problema non si risolve semplicemente fissando un “prezzo minimo” del lavoro. La vera questione è strutturale: solo una crescita economica reale e un aumento della domanda di lavoro possono rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori e far crescere i salari in modo naturale, stabile e sostenibile. In altre parole, il salario minimo può essere un segnale politico, ma non sostituisce la necessità di riequilibrare il mercato del lavoro, stimolare la produttività e ridurre la disoccupazione.
Capitolo 8 - Il dubbio finale: scelta o conseguenza?
A questo punto sembra legittimo porsi una domanda provocatoria:
E se il calo dei salari reali in Italia — e in parte in Europa — non fosse soltanto una conseguenza inevitabile, ma anche una scelta consapevole?
In un mondo globalizzato, in cui la produzione può spostarsi in paesi dove il costo del lavoro è molto più basso, in cui la competizione è internazionale, in cui l’euro ha reso più omogenei i tassi di cambio: come si mantiene la competitività? Una risposta possibile è: riducendo il costo del lavoro. Ciò significa: mantenere salari medi relativamente bassi, accettare un tasso di disoccupazione “strutturale” più elevato, in modo che il potere contrattuale dei lavoratori resti contenuto. Non è detto che sia stato esplicitamente dichiarato così, ma il sospetto è che molti equilibri economici, sociali e politici abbiano finito per funzionare nel senso di “controllare” i salari per sostenere la competitività. Se così fosse, non si tratterebbe solo di “ritardo” o “mancanza”, ma di una scelta strategica, con costi sociali e umani.
- Conclusione
L’Italia non ha un “problema salari” isolato: ha un problema sistemico. La stagnazione economica, il basso potere contrattuale dei lavoratori, l’offerta di lavoro relativamente elevata, una struttura produttiva che fatica a innovare, tutto concorre a mantenere i salari reali bassi o in calo — non solo per i lavori meno qualificati, ma per l’intera scala salariale. Intervenire solo sul livello nominale del salario o fissare un salario minimo è utile, ma non sufficiente: serve far ripartire la crescita, aumentare la domanda di lavoro qualificato, migliorare la produttività e ridurre i vincoli alla crescita delle imprese. E, infine, resta aperta la domanda: è accettabile che per rimanere competitivi nel mondo globalizzato si accetti una condizione salariale più debole? Se la risposta è no, allora il cambiamento dovrà essere molto più profondo di quanto spesso si dibatte.-----
Una delle idee diffuse è che “i lavori qualificati navigano bene, solo i lavori poco qualificati pagano poco”. In realtà, la realtà è più complessa.
Vediamo un meccanismo che lega settori diversi tra loro: agricoltura, industria.
In economie che crescono velocemente, le imprese possono assumere, offrire salari più alti, innovare, e competere. Ma in un’economia stagnante come quella italiana:
Capitolo 6 – La stagnazione economica e la dimensione psicologica del lavoro
Capitolo 7 – Il dibattito sul salario minimo
Negli ultimi anni, il tema del salario minimo è tornato spesso al centro del dibattito politico ed economico europeo. Anche in Italia se ne discute con frequenza, e più recentemente il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha proposto di introdurre un salario minimo a livello europeo. Tuttavia, questa proposta, per quanto suggestiva sul piano simbolico e politico, rischia di essere più demagogica che effettivamente realizzabile.
Le ragioni sono strutturali: l’Unione Europea è composta da ventisette Paesi profondamente diversi per costo della vita, livello di produttività e redditi medi. Ciò che in un Paese come la Romania o la Lituania può rappresentare uno stipendio dignitoso, in Italia o in Germania risulterebbe del tutto insufficiente. Anche all’interno dello stesso Paese le differenze sono enormi: in Sicilia, ad esempio, molte persone sopravvivono con 600-700 euro al mese, mentre a Milano o a Berlino una cifra simile non basterebbe neppure per pagare un affitto.
Ma anche ammettendo che fosse possibile stabilire una soglia minima uniforme, resterebbe il problema della sostenibilità per le imprese. In un’economia stagnante come quella italiana, molte aziende – specialmente le piccole e medie – già faticano a generare profitti sufficienti. Imporre loro un aumento obbligatorio dei salari potrebbe, in alcuni casi, farle precipitare in perdita o costringerle a ridurre personale.
A tutto questo si aggiunge un fenomeno tristemente diffuso: i molteplici metodi di elusione delle regole salariali. Molti datori di lavoro trovano infatti espedienti per aggirare i vincoli imposti dai contratti o dalle leggi. Tra i più comuni:
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