Giunti, dopo dieci mesi, sul passo estremo della pandemia, avendo fatto, come sarebbe auspicabile, tesoro dell’esperienza sugli errori fin qui commessi, in quale luogo un malato di Covid avrebbe diritto di morire, per essere certi che la sanità pubblica abbia fatto tutto ciò che era possibile, e tuttavia non sia bastato, per salvargli la vita? Il lettore converrà che la risposta più scontata a questa domanda è: in un reparto di terapia intensiva. Ma quante persone muoiono in terapia intensiva?
Tra la babele di cifre parziali e contraddittorie che la Protezione civile dispensa ogni giorno nel suo bollettino, questo dato non c’è. Tuttavia è ricavabile con un esercizio logico. L’11 dicembre sono morte per Covid 649 persone. Nello stesso giorno il numero di ricoverati positivi al virus nelle terapie intensive è sceso da 3.265 a 3.199, con un saldo negativo di 66 unità, nonostante si registrino 195 nuovi ingressi. Vuol dire che se 195 pazienti sono entrati, 195 più 66 sono usciti: la somma fa 261 malati che hanno lasciato i posti letto riservati alla rianimazione. Questa cifra include tanto i morti, quanto coloro che sono tornati nei reparti ordinari, perché le loro condizioni sono migliorate.
Per stimare le vittime possiamo riferirci a due studi, condotti in Lombardia e in Scozia, che individuano la mortalità di Covid in terapia intensiva, giungendo alle stesse conclusioni: in una prima fase è molto differenziata da reparto a reparto, in base alla qualità dell’assistenza offerta, a conferma di come non basti un ventilatore per fare una buona rianimazione. Ma poi, in una fase di assestamento, la mortalità oscilla tra il 25 e il 40 per cento. Gli studi di cui vi parlo risalgono all’estate scorsa, oggi nelle terapie intensive più attrezzate la percentuale di decessi non supera di molto il 10 per cento. Ma consideriamo pure una media attestata sulla parte più bassa del range e assumiamo che il 25 per cento, cioè uno su quattro dei pazienti entrati in terapia intensiva per Covid, non riesca a salvarsi. Uno su quattro di 261 fa circa 65. Tanti sono presumibilmente i malati morti l’11 dicembre in terapia intensiva per Covid. E tutti gli altri?
Il bollettino della Protezione civile annota di 649 decessi. Sottraendo i 65 qui considerati, ne restano 584, il 90 per cento. Il 90 per cento dei morti per Covid non muore intubato in terapia intensiva. Si dirà che i dati della morte non sono sovrapponibili con quelli degli ingressi in rianimazione, perché temporalmente sfasati. Tuttavia si tratta di dati stabili, come certifica il bilancio di dieci giorni, cioè dal 2 all’11 dicembre: 1.902 nuovi ingressi in rianimazione, 417 ricoverati in meno, quindi 2.319 pazienti che hanno lasciato il reparto. Il 25 per cento di questa cifra, cioè il numero presumibile di morti per Covid in rianimazione, fa 580, poco meno del 9 per cento del totale delle 6.545 vittime censite dalla Protezione Civile nello stesso periodo.
Per clamorosi che siano, questi dati non dovrebbero stupire chi studia la pandemia in Italia dal suo inizio. Perché alle stesse conclusioni giunge il bilancio analitico dei decessi in Lombardia, pubblicato il 24 novembre scorso dal quotidiano “La Verità” e ignorato dal resto della stampa nazionale: quel rapporto diceva che fino alla data del 17 novembre i morti in terapia intensiva erano solo il 9,7 per cento del totale. Più della metà, il 50,4 per cento, proveniva dai reparti ordinari, il 14,7 per cento dalle residenze per anziani e il 25,2 per cento dalle abitazioni private. In Lombardia una persona su 4 è morta in casa, e questa percentuale dice tutto il suo dramma sanitario se raffrontata ai dati del Veneto, dove solo una persona su 22 non ha avuto il tempo di arrivare in ospedale ed è spirata tra le propria mura.
Il confronto tra questo rapporto e i nostri dati dimostra che nulla è cambiato sotto il cielo italiano della pandemia. Il 90 per cento delle vittime del Covid in Italia non muore dove, almeno in gran parte, avrebbe più chance di lottare fino all’ultimo per salvarsi. Non il 9 marzo, data di inizio del primo lockdown. Non il 3 aprile, data del picco di ricoveri (4.068) in terapia intensiva durante la prima ondata. Non il 12 ottobre, quando pure iniziamo a capire che il virus sta tornando imponente. Ma l’11 dicembre, a quasi dieci mesi dallo scoppio di questa tragedia, quando ti aspetteresti di aver imparato qualcosa. E di avere cambiato più di qualcosa nel tuo modo di affrontarla. Solo una vittima su dieci oggi in Italia continua a ricevere fino all’ultimo le terapie più efficaci per salvare la vita. Perché?
La prima ragione che spiega l’incongruenza qui denunciata è universale. Potrebbe definirsi la “tara” del Covid. Molti pazienti muoiono nei reparti ordinari, come traumatologia, gastroenterologa, neurologia, cardiologia, perché non hanno disturbi respiratori, pur essendo positivi al virus. Muoiono per una comorbilità da diabete, ipertensione, obesità, Parkinson, fratture ossee e altre patologie per le quali il Covid agisce al più come detonatore di complicanze. Si tratta di persone legate alla vita da un sottilissimo filo di lana, che si spezza in coincidenza, ma non sempre a causa, del virus. Tuttavia la positività al tampone include queste morti nel computo della pandemia, per una espressa indicazione del comitato tecnico scientifico.
Questa scelta non è irrilevante. Se il Covid slatentizza e rende visibile il dramma sociale delle malattie croniche dell’età anziana, la burocrazia sanitaria finisce per utilizzare il contagio come un paravento per nasconderle. L’effetto di una sovrastima del Covid è quello di trascurare tutto il resto rispetto alle cure. Ma anche quello di perpetrare un’emergenza che, da sanitaria, diventa sociale ed economica, portando con sé cattiva salute come conseguenza di crescente povertà. “La scienza che guida i governi tratta il coronavirus come una peste vecchia di secoli”, ha denunciato, sulle colonne di Lancet, Richard Horton. In realtà, secondo il professore onorario alla London School of Hygiene and Tropical Medicine, non siamo di fonte a una peste, e neanche a una pandemia in senso classico. Il Covid è, piuttosto, una sindemia, secondo il paradigma del medico e antropologo americano Merril Singer: cioè una sinergia tra patologie diverse e condizioni sanitarie e sociali diseguali e svantaggiate.
Queste condizioni sono spesso invocate come attenuanti per giustificare il doppio triste record di letalità (numero di vittime in rapporto ai tamponi) e di mortalità (numero di vittime rispetto alla popolazione) che l’Italia vanta in Europa. Siamo più vecchi e abbiamo più acciacchi degli altri, perciò il Covid fa più vittime tra noi: questa litania si sente recitare in tutte le sedi del dibattito pubblico da virologi e opinionisti à la carte. Ma non è che una leggenda metropolitana, peraltro non suffragata da dati attendibili. Un report del gruppo di sorveglianza istituito dal Ministero per la Salute ci dice che l’età mediana dei morti positivi al tampone è di 82 anni, ma non esistono raffronti attendibili con altri Paesi. È vero che l’Italia vanta, rispetto al resto dell’Europa, tanto il primato dell’invecchiamento dal basso, dovuto alla diminuzione dei giovani, tanto quello dall’alto, dovuto all’incremento degli anziani. Dal 1980 ha visto un aumento significativo e unico della sopravvivenza e allo stesso tempo una fecondità molto bassa, con l’effetto di diventare, insieme con il Giappone, il Paese più vecchio. Ma se questo primato è dovuto, tra le altre cose, a una migliore alimentazione, non si capisce in che modo una condizione più salutare, che ci fa vivere di più, dovrebbe essere allo stesso tempo un fattore di fragilità di fronte alla minaccia del virus.
La realtà è un’altra: il record di morti è in relazione con quella percentuale di decessi in terapia intensiva inchiodata al 10 per cento dall’inizio della pandemia. Il suo film ha per protagonista un paziente ricoverato in un reparto ordinario che, nel giro di 48 ore, vira da una condizione di stabilità a un’insufficienza respiratoria grave. C’è un camice bianco che si adopera attorno al suo letto, in attesa di trovare un posto libero in rianimazione. Talvolta il paziente non ce la fa ad arrivarci. O perché manca il posto o, piuttosto, perché manca il personale. Se è iperteso, obeso, diabetico o cardiopatico, le 48 ore di tempo diventano 24, o piuttosto 12. O si vola o si muore.
C’è una condizione di disconfort territoriale che a marzo ha portato il sistema sanitario a sbattere la faccia contro il virus, e che è rimasta intatta fino a Natale. Sono arrivati i ventilatori, ma mancano tremila rianimatori per rendere effettiva e stabile l’implementazione delle terapie intensive. L’indice di occupazione dei posti letto per malati di Covid è lievemente sotto la soglia del 40 per cento, assunta come uno degli indicatori della geografia a tre colori del virus. Il rischio è che la burocrazia sanitaria a capo degli ospedali alzi d’istinto anche la soglia della gravità, richiesta per l’accesso alla terapia intensiva, al fine di non superare quel 40 per cento e preservare o conquistare la patente di zona gialla. Il prezzo di questo adattamento formale del sistema sarebbe una caduta sostanziale della risposta terapeutica alla malattia. Che questo sia già accaduto in qualche parte d’Italia è allo stato un’illazione, che tuttavia meriterebbe una verifica.
È vero che malati molto vecchi non vengono ricoverati in rianimazione, perché troppo fragili per sostenere la ventilazione meccanica. Gli anziani in ospedale muoiono perché si destabilizzano. Lo squilibrio psichico impedisce loro di reggere alle terapie, il deficit di coscienza annulla qualunque capacità di reazione e pregiudica in poco tempo il quadro clinico. Per questo andrebbero curati in casa. Come avviene in Germania, in Gran Bretagna e nella maggior parte dei Paesi europei, con un taxi di primary care fornito di ventilatore, medico rianimatore e infermiere, che prendono in carico il paziente nel suo domicilio e lo seguono poi per tutta l’evoluzione della malattia.
In Italia la primary care era un progetto mai nato a marzo, è un impegno assunto dal governo a maggio, mancato a dicembre. Le unità speciali di continuità assistenziale, che dovrebbero garantire il servizio, sono presenti solo da qualche mese in alcune regioni, ma non hanno né i numeri né i mezzi per una presa in carico di massa dei malati nelle loro abitazioni. Quanto ai medici di base, per una minoranza che si è gettata con coraggio nella lotta al virus, rimettendoci talvolta la pelle, c’è una stragrande maggioranza che sfugge ancora i pazienti, arrivando a negarsi al telefono. Il rifiuto di praticare i tamponi su base volontaria racconta per intero questa riluttanza corporativa. Tanto più inaccettabile se si pensa che, per questo servizio, il governo ha offerto ai camici bianchi 18 euro per ogni prelievo. Come se non si trattasse di una prestazione che rientra nella responsabilità connessa all’esercizio della professione.
Vicende come questa dimostrano che in dieci mesi la macchina della Sanità italiana non ha modificato neanche una delle sue lacune o delle sue rigidità. Il ministro della Salute è diventato il ministro del lockdown, nell’illusione che la professione del rigore surroghi la capacità di gestione, in attesa che arrivi il vaccino. Gli effetti collaterali di questa strategia difensiva sono ampiamente sottovalutati. Ma il ritardo nelle cure di altre patologie e l’impoverimento economico della società porteranno presto il loro conto a un sistema arroccato in trincea. Il vaccino arriverà. E, com’è auspicabile, annienterà il virus, ma nessuna protezione e nessun balsamo porterà alla salute pubblica, messa in ginocchio allo stesso modo dal Covid e dalla lotta al Covid. Il rischio è di guarire dalla peste, e morire di tutto il resto.
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