sabato 14 novembre 2020

Maurizio Blondet 13 Novembre 2020 - Della disciplina romana (a futura memoria)

 

Dopo l’articolo che ha mostrato come la democrazia non nasca dalla “pace” ma da soldati-cittadini, resta da raccontare un’altra delle grandi forze e innovazioni che resero (quasi) invincibili le legioni.

Il motivo è la disciplina coercitiva che venne instaurata. Il console, nella vita civile cittadino messo al potere col voto, in guerra assumeva il comando, e diventava generale: più precisamente imperator. Col potere assoluto, indiscusso, di vita e di morte sui soldati-cittadini: contro le cui sentenze non c’era appello ad alcun tribunale o assemblea.

Originariamente, la parola significa qualcosa come “colui che ottiene”: imperator – impe(t)rator, colui che impetra (con successo) il favore degli dei alla campagna bellica. Una relazione speciale che era certificata debitamente dalla inauguratio e dagli aruspici: era, in certo senso “il fortunato”, quello che – nella cultura cinese – ha il favore del cielo, di cui c’è tanto bisogno in guerra.

Di qui l’adesione e imposizione del rigore vigente nelle legioni. Dire “disciplina” è sbiadito: “Nell’anno 425 il console Aulo Pastumio fece decapitare suo figlio perché aveva abbandonato la formazione e battuto con un nemico in un combattimento individuale, da cui era uscito vincitore” (Ortega y Gasset, Interpretazione bellica della storia). Ecco in tre righe il compendio della dottrina militare e della violenza spirituale legionaria: abbandonare la formazione significa, tra l’altro, irresponsabilità verso i commilitoni; e non ci sono favoritismi né manica larga. Del resto anche il console, se il combattimento volgeva al peggio, cercava la morte nella battaglia , ma – attenzione: dopo essersi appartato e compiuto il rito della devotio, cintosi cioè la fronte della benda che si metteva agli animali sacrificali, e bevuto il vino augurale: un rito singolarmente simile a quello dei kamikaze. Con questo, l’imperator si faceva davvero impetrator della fortuna che viene data dal cielo, col sacrificio di sé.

Ci sono motivi per ritenere questa mia narrazione – sullo sfondo della storia romana che fu una continua guerra civile nel mentre conquistava il mondo e lo incorporava – una ingenua idealizzazione di costumi antichi che non sono mai stati realtà.

Eppure

Quanto fosse vigente e introiettata nei soldati la disciplina terribile di Aulo Pastumio 500 anni più tardi, lo si intravvede negli Atti degli Apostoli 27, nel racconto del naufragio sull’isola di Malta della nave che portava Paolo a Roma, coi suoi amici e i soldati di scorta.

Il racconto di Luca, che era sulla nave sbattuta dalla tempesta, è vivacissimo e incantevole per spontaneità, moderna suspence da racconto d’avventura e precisione : l’equipaggio che nella tempesta, butta a mare prima la zavorra, l’indomani il carico, il terzo giorno l’attrezzatura della nave per alleggerirla, e alla fine anche “il frumento” loro cibo; equipaggio poi che cerca di fuggire sulla scialuppa abbandonando i passeggeri, “allora i soldati tagliarono le gómene della scialuppa e la lasciarono cadere in mare”, con ciò rinunciando all’ultimo strumento di salvamento; l’incaglio del vascello nella secca : “ mentre la prua, arenata, rimaneva immobile, la poppa si sfasciava sotto la violenza delle onde”.

Non c’è nella letteratura ellenistica, credo, un pezzo altrettanto vivo e vero; un capolavoro che sarebbe studiato nei licei classici, se l’autore si chiamasse Menandro o Apollonio o anche Petronio (arbiter) ; invece è un evangelista…

Ma restiamo al tema, “disciplina militare”. Mentre la nave si sfascia sotto la violenza delle onde vicino alla spiaggia,

42I soldati presero la decisione di uccidere i prigionieri, per evitare che qualcuno fuggisse a nuoto;

I soldati di scorta, prima di pensare a salvare se stessi – anzi, prima di pensare affatto – hanno una sola cosa in mente: non venir meno alla consegna. La consegna dice: portare i prigionieri salvi a Roma; se scappano, ucciderli. Anche se si teme solo la fuga.

E i prigionieri sono gente con cui convivono da settimane, con cui hanno condiviso questa prova, parlato, soprattutto che hanno ascoltato parlare del Dio sulla croce; se non convinti, quasi amici con cui hanno diviso il pane. Immediatamente: ammazziamoli.

Sono sicuro che l’avrebbero fatto con rapida perizia, con quel gesto automatico, rapido e in fondo, clemente, assunto dal lungo esercizio; come quello con cui il centurione trafisse Gesù sulla croce, ficcando la lancia da destra del corpo (il latus apertum, quello che il nemico ha non protetto dallo scudo) per spaccare il cuore a sinistra.

Sembrano robot, e forse lo sono. Ma forse è solo perché sanno, ed hanno visto, le conseguenze punitive de mancare alla consegna; anche quello un riflesso diventato automatico per l’esercizio del rigore. Sanno positivamente che la severità della disciplina li avrebbe raggiunti; anche dopo il naufragio su un’isola selvaggia, Roma li guardava.

A questo punto, cosa succede?

43ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo proposito

La cosa più stupefacente è che il centurione è nato e integralmente cresciuto in quel rigore d’automa, è quello che ha insegnato nelle esercitazioni i gesti automatici che fanno dei soldati dei robot terminatori – eppure ragiona. Con indipendenza d’animo, con umanità, senza venir meno alla consegna, ma ponendola su un piano diversamente elevato. “Vuol salvare Paolo” può significare che è mezzo convertito? Ma forse, invece, dai ragionamenti di Paolo ha capito che le accuse mosse contro di lui, a Roma, nel giudizio, sarebbero svanite come nebbia. Giustizia e umanità unite insieme in sottufficiale abituato ad uccidere: è questo forse il segreto del comando di Roma? E non solo:

Diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiungessero terra; 44poi gli altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a terra.

 Il centurione, insomma, organizza il salvataggio: si prende la responsabilità di tutti gli altri. Lo vediamo che comanda, con la voce squarciata di chi è abituato a gridare gli ordini: prima voi che sapete nuotare, la spiaggia è vicina; voi che non sapete, dopo; ciascuno prenda una tavola, un rottame galleggiante, e si butti. Tranquillizza i paurosi, gli rende fattibile quel che credevano impossibile, buttarsi nei marosi senza saper nuotare. Con ciò esegue la consegna – obbedisce agli ordini – sul piano più alto.

Si indovina un carattere insieme forte e responsabile, di cui ci si può fidare: come Pilato quando seppe dal centurione che il Crocifisso era già morto dopo sole tre ore, stupisce ma non dubita.

I centurioni romani sono le figure di cui i Vangeli segnalano l’umanità e la capacità di amicizia, di affetto e rispetto:

Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro.

…ama il nostro popolo, ed è stato lui a costruirci la sinagoga”

L’umiltà dell’uomo di comando:

Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; 7per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito. 8Anch’io infatti sono uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Và ed egli va, e a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fà questo, ed egli lo fa”.

Il centurione, appunto da militare, uomo di comando e di obbedienza, ha riconosciuto immediatamente il Comandante Supremo: l’Impe[t]rator Maximus, quello che ha il totale favore del cielo , e che con una comando guarisce, dà la vita e la toglie.

Questa qualità militare romana di responsabilità viene donata poi alla Chiesa delle origini. Era un militare Martino, un ufficiale, e figlio di un militare pagano visto che aveva messo il figlio, dandogli quel nome, sotto la protezione di Marte. Martino che dà al povero congelato “metà del suo mantello” ossia l’interno di pelo (di coniglio?) con cui aveva reso confortevole il mantello rosso del legionario: quello era proprietà di Stato. Ambrogio, era figlio di un padre militare e tanto pagano da dare all’uno il nome dell’ambrosia, la divina bevanda, e all’altro quello di Satiro. E i due, Martino e Ambrosio, divengono vescovi e si assumono la responsabilità delle loro comunità, in tempi difficilissimi del collasso imperiale, in modo così provvidente, che le comunità chiedono loro, li implorano, di essere “sotto il loro comando”: gente fidata, di carattere, che organizza la vita. Il comando romano era questo anche prima: dopo l’uso della forza, amicus humani generis: gli acquedotti, le terme, le cloache per tutti. Il semplice insediarsi di una legione migliorava il tenore di vita e di salute delle popolazioni circostanti l’accampamento.

Una leggenda vuole Ambrogio presente miracolosamente al funerale di Martino nel 397. Anche se fu Ambrogio ad anadrsene per primo, la leggenda coglie quella che agli occhi dei fedeli apparve la profonda affinità dei due comandanti: commilitoni, se ne andarono insieme all’Imperator.

Bisogna che ci ricordiamo di pregare loro; e insiem i due centurioni, quello di Luca e quello di Giovanni – specie adesso che siamo schiacciato da un comando anticristicamente inimucus humani generis, criminalmente irresponsabile verso il genere umano e globale.

Ambrogio al funerale di Sa Martino. Mosaico nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano.

Organizzate il salvamento, ufficiali!

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