Intervista al presidente della Fondazione Gimbe: "Non diffonderli è una strategia garantista per la politica. Rt inappropriato".
Cosa dicono le vostre analisi sulla base dei dati degli ultimi sette giorni?
Nel corso dell’ultima settimana ci siamo sentiti ripetere vari termini - rallentamento, raffreddamento, frenata – che qualcuno ha interpretato come appiattimento della curva dei contagi. In realtà, si osserva solo una minore velocità con cui la curva sale, ovvero una riduzione dell’incremento percentuale dei nuovi casi giornalieri: dal 5% del 30 ottobre al 2,7% del 17 novembre. Un effetto sicuramente attribuibile alle misure introdotte, ma anche a una minore capacità di effettuare tamponi, visto che continua a crescere il rapporto positivi/casi testati (dal 23,9% della settimana 28 ottobre – 3 novembre al 28,4% della settimana 11-17 novembre). Il “rallentamento” si intravede, in misura minore, sulla velocità di crescita di ospedalizzazioni e terapie intensive. Tuttavia, non conoscendo i flussi dei pazienti in entrata e in uscita, anche questo dato può essere influenzato dall’effetto saturazione dei posti letto. Infatti, le soglie di occupazione del 40% (area medica) e 30% (terapia intensiva) sono state entrambe superate con una media nazionale al 17 novembre rispettivamente del 51% e del 42% e valori molto più elevati in alcune Regioni, dove i servizi ospedalieri sono ormai allo stremo, come documentano le narrative di chi lavora in prima linea.
Il professor Giorgio Parisi ha definito l’indice Rt “inaffidabile”. La Fondazione Gimbe in Parlamento lo ha definito “inappropriato”. Perché?
L’indice Rt inizialmente era solo uno dei 21 indicatori per il monitoraggio dell’epidemia, ma a seguito dell’entrata in vigore del Dpcm del 3 novembre 2020 ha assunto un ruolo preponderante, “pesa” per oltre il 50% nella decisione finale sulla assegnazione dei “colori” alle Regioni. Tutto ciò, a fronte dei limiti ampiamente riportati nella letteratura internazionale. In un articolo pubblicato su Nature lo scorso luglio i ricercatori dichiarano apertamente il timore di “avere creato un mostro”, in quanto “Rt non ci dice ciò che dobbiamo sapere per gestire questa situazione. L’elaborazione di Rt ha un ritardo di almeno 3 settimane e non è utile come strumento decisionale in tempo reale”.
Ma, in pratica, quali sono i reali limiti dell’indice Rt?
Innanzitutto, è inappropriato per informare decisioni rapide perché è stimato sui contagi di un paio di settimane prima; in secondo luogo, il fatto che sia calcolato solo sui casi sintomatici sottostima la reale circolazione del virus perché i contagiati sintomatici oggi sono circa 1/3 dei casi totali; inoltre si basa sulla data inizio sintomi, indicatore che molte Regioni non comunicano per tutti casi, determinando un’ulteriore sottostima dell’indice Rt; infine, se nella comunicazione pubblica viene correttamente citato il valore puntuale, come parametro decisionale viene utilizzato il margine inferiore del limite di confidenza (la cd. “forchetta”), che rappresenta la visione più ottimistica di questo indice. Peraltro, continuano a circolare due stime “ufficiali” di Rt. La prima è quella comunicata dal report settimanale della sorveglianza integrata dell’Iss e comunicata ai media: il metodo di calcolo è esplicito, è stimato sui casi sintomatici a 14 giorni. Il secondo è l’indicatore 3.2. del DM 30 aprile 2020, utilizzato per assegnare lo scenario ai sensi del dpcm del 3 novembre 2020: il metodo di calcolo non è noto, ma sappiamo che è stimato agli ultimi 7 giorni su casi sintomatici e sulle ospedalizzazioni.
Voi avete chiesto la revisione del sistema di monitoraggio. Come?
Il sistema dei 21 indicatori è uno strumento di monitoraggio epidemiologico costruito nella fase di discesa della curva, ma non è uno strumento predittivo da applicare in una fase di crescita esponenziale dei contagi. Di conseguenza, fotografa una situazione pregressa del contagio, restituendo un’immagine tanto più sfocata quanto più velocemente cresce la curva. Oggi serve un sistema capace di misurare rapidamente l’evoluzione del quadro epidemico, il sovraccarico dei servizi ospedalieri e, soprattutto, indicatori con un ruolo predittivo ad almeno 1-2 settimane, al fine di anticipare la corsa del virus.
Come i Lincei, anche il presidente dell’Istituto di fisica nucleare Antonio Zoccoli ha chiesto che i dati siano messi a disposizione della comunità scientifica. È d’accordo?
Totalmente d’accordo, tanto è vero che come Fondazione Gimbe abbiamo lanciato, insieme ad altre organizzazioni, la campagna #DatiBeneComune sottoscritta finora da oltre 30.000 persone. In Parlamento abbiamo rimarcato la necessità di rendere pubblico l’accesso a tutti i dati della pandemia: da una maggiore granularità dei dati nel bollettino giornaliero all’accesso al database della sorveglianza integrata nazionale, alla disponibilità di tutti i report della Cabina di Regia.
I dati forniti sono utili a comprendere l’evoluzione dell’epidemia o ne servono altri?
Ne servono molti altri: dal numero di contagi per Comune a tutti i dettagli per Province e Comuni (soggetti in isolamento domiciliare, ospedalizzati con sintomi, terapie intensive, guariti, deceduti, tamponi, casi testati, etc.) ai flussi relativi all’evoluzione clinica dei soggetti positivi. Il dato più clamoroso è che oggi conosciamo, sia per i ricoverati con sintomi, sia per le terapie intensive, solo il “saldo” giornaliero dei letti occupati, ma non i pazienti ammessi e dimessi. Ad esempio +100 terapie intensive rispetto a ieri ci informa solo che abbiamo 100 posti occupati in più: ma i pazienti ammessi potrebbero essere 400 perché 200 sono migliorati e tornati in degenza ordinaria e 100 sono deceduti.
Di quali dati c’è bisogno per anticipare le mosse del virus e non inseguirlo come invece - si è detto da più parti - si sta facendo adesso?
Di tutti i dati disaggregati consultabili in tempo reale, in formato aperto e machine-readable , ovvero in un formato interoperabile che consenta di poter “mettere in comunicazione” le diverse basi di dati. La decisione di affidarsi solo ai ricercatori che gestiscono i dati a livello istituzionale è molto garantista per la politica, ma impedisce a tutti gli altri ricercatori di identificare diverse chiavi di lettura dei dati e proporre strategie differenti. Un clamoroso autogol per l’intero Paese.
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