venerdì 22 maggio 2020

Nel 1970...Statuto dei lavoratori...??? ...assente grazie PD.Lavoro di donne e uomini, quel riconoscimento sociale che manca

Lavoro di donne e uomini, quel riconoscimento sociale che

PS: Io. Comunista nato e "morto insieme a Berlinguer"...dal 1961 anno nel quale iniziai a lavorare sempre dalla parte della CGIL...dal 1967 fine alla morte del "Sindacato CGIL con il PCI"rappresentante di tale Sindacato nelle Aziende dopo lavoravo( una decina almeno)...leggere il post e vedere la foto della signora


...<< L’ art.18 era l’architrave su cui era costruito: il diritto del lavoratore ad essere reintegrato quando il giudice definisse non giustificato il suo licenziamento. Nel 2012 con la legge Fornero e poi nei 2015, con il Job act, l’art.18 cambia e nella sostanza il reintegro rimane per i licenziamenti discriminatori, sostituito per il resto da una indennità di risarcimento, anche essa messa in discussione dalla sentenza 194/2918 della Corte Costituzionale. Viene meno il cuore dello Statuto dei lavoratori....>> con...il curicculum di <<Presidente dell’associazione LED (Libertà e diritti), Direzione nazionale PD...>>ancora oggi...mi vien da dire:" <<la poltrona e lo stipendiop vale molto di più che la distruzione totale  dello "EX STATUTO DEI LAVORATORI>>".
umberto marabese
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Quando nel maggio del 1970 divenne legge lo Statuto dei lavoratori si disse che la Costituzione entrava nelle fabbriche. Lo Statuto non nasceva dal nulla: aveva alle spalle anni di grandi lotte operaie per la conquista di migliori condizioni di lavoro e di salario. Al governo c’era il partito socialista e intorno una discussone pubblica e politica molto intensa....
L’astensione del partito Comunista viene citata ancora oggi come scelta sorprendente, giustificata allora dal PCI come rifiuto della divisione nello Statuto tra diritti, nelle grandi e nelle piccole imprese.
Nei luoghi di lavoro entrava la libertà, la dignità e la sicurezza dei lavoratori. L’idea cioè che nell’impresa ci fossero 2 soggetti, l‘impresa e i lavoratori. Persone, non solo prestatori d’opera. Entrava la libertà di associazione sindacale. Lo Statuto consegnava alla storia i reparti confino Fiat e i licenziamenti politici.
L’ art.18 era l’architrave su cui era costruito: il diritto del lavoratore ad essere reintegrato quando il giudice definisse non giustificato il suo licenziamento. Nel 2012 con la legge Fornero e poi nei 2015, con il Job act, l’art.18 cambia e nella sostanza il reintegro rimane per i licenziamenti discriminatori, sostituito per il resto da una indennità di risarcimento, anche essa messa in discussione dalla sentenza 194/2918 della Corte Costituzionale. Viene meno il cuore dello Statuto dei lavoratori.
Non condivido la tesi dello smarrimento della sinistra sul tema o dell’accanimento liberista contro. Propendo di più verso una ricostruzione storica, legata appunto alla forza della realtà del cambiamento.
Perché 50 anni dopo, e anche 40 anni dopo, l’Italia (e l’Europa e il mondo ) è un altro paese. La globalizzazione e la rivoluzione tecnologica hanno modificato la divisione internazionale del lavoro, i processi produttivi, la stessa nozione di lavoro. E di fabbrica.
Ed è cambiata, e produce essa stessa cambiamento, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Così come si impone il protagonismo delle donne.
Ora se il sistema dei diritti del lavoro rimane eguale e uguale la rete di protezione sociale, il risultato è la solitudine e l’esclusione di molta parte del mondo del lavoro, fatto di lavoratori precari o autonomi, di lavoratrici autonome e dipendenti: si accentuano diseguaglianze e non si realizzano diritti. Ne risente l’autorevolezza del sindacato. Anche della politica e del riformismo.
Ora un punto deve essere chiaro: il cambiamento profondo di questi tempi non è l’alibi per negare libertà e dignità del lavoro ma la realtà nella quale calare un nuovo sistema di diritti che possa garantire quella libertà, dignità, sicurezza di cui all’articolo 1 della Costituzione.
Perché l’affermazione dei diritti del lavoro ha aiutato la modernizzazione delle imprese, non viceversa. Se la competizione tra sistemi paese e nei paesi fosse avvenuta sulla qualità del lavoro anziché sui diritti e sul salario, sarebbe cambiata la storia del nostro paese. Caso mai la domanda è quanto questi temi abbiano interrogato i partiti, oltre che il sindacato.
A questo proposito, a proposito delle cose importanti cui ispirare un nuovo Statuto dei lavori, a proposito della storia e della cronaca, questi mesi ci hanno insegnato molte cose.
L’emergenza pandemica e il distanziamento sociale hanno spinto verso l’utilizzo di piattaforme telematiche. Per lavorare ma anche per mantenere relazioni sociali. Accelerando processi che in altri paesi europei sono molto più avanzati. E ha fatto emergere la scarsa alfabetizzazione digitale dell’Italia.
La pandemia ha cioè accelerato la necessità di colmare il digital divide che produceva e produce esclusione sociale e diseguaglianze: nell’apprendimento dei bambini che vivono in famiglie fragili senza disponibilità di supporti tecnologici per la didattica a distanza e dei lavoratori. Ma il tema che emerge non è solo quello del digital divide. 
Ma di come l’istruzione e la formazione permanente siano l’architrave del nuovo sistema dei diritti dei cittadini, dei lavoratori e delle lavoratrici. Come diritto costitutivo di cittadinanza e per impedire l’obsolescenza della proprie  competenze davanti ai cambiamenti strutturali e veloci dei processi produttivi legati all’innovazione.   
Diritto al digitale come cura alle nuove diseguaglianze e alle nuove esclusioni legate al possesso dei device e alla estensione della banda larga: tra città e provincia;  campagna e montagna; ricchi e poveri; lavoratori dipendenti delle  grandi imprese e delle piccole imprese; lavoratori autonomi e della logistica.
Ma questi tempi ci insegnano anche che va di moda lo Smart Working. Con il Coronavirus quella telematica è diventata l’unica modalità di lavoro possibile in alcuni settori, e in poco tempo il numero degli addetti è passato dal 570000 persone di gennaio a 8 milioni. La recente indagine della fondazione Di Vittorio dice che piace al 60 per cento di persone che lo fanno. Più agli uomini che alle donne e se ne capisce la ragione. Perché può rappresentare per loro un ulteriore appesantimento del carico del lavoro di cura come è stato nel lockdown, senza il supporto della scuola, delle baby sitter, dei nonni.
Ma può rappresentare per il futuro il suo contrario per due ragioni. Perché innesca una svolta culturale appunto nella condivisione del lavori di cura e del superamento degli stereotipi di genere: lo smart working può essere una modalità di lavoro scelta, nuova e utile, per donne  e uomini e per la collettività.
E perché corrisponde a un modello di organizzazione fondato sul raggiungimento dei risultati piuttosto che sul controllo e la presenza fisica, che ha sempre penalizzato le donne anche dal punto di vista salariale. Quindi il tema nuovo è quello di un diverso rapporto con il lavoro e tra lavoro e vita che lo smart working determina: un tema che ha una forte dimensione politica.
Tra chi sostiene che ci vogliono contratti aziendali e chi una nuova legge il punto è che sia una modalità di lavoro per donne e uomini. Non uno strumento di conciliazione. E le regole vanno pensate in modo tale da realizzare questa modalità (bonus baby sitter anche in smart working, volontarietà, autonomia nella gestione degli orari, diritto alla disconnessione).
La pandemia ha anche mostrato la gerarchia dei lavori essenziali. Nella pandemia sono emersi come lavori essenziali: quelli di cura, a partire dalle professioni sanitarie, quelli manuali, gli addetti alla raccolta, produzione e distribuzione delle filiere alimentari, la logistica, gli addetti alle pulizie, l‘insegnamento.
Essenziali per la collettività e non sostituibili con tecnologie anche avanzate. Si tratta per la maggior parte di lavori poco pagati e privi di riconoscimento sociale, svolti prevalentemente dalle donne. Sono lavori che non si possono fare in smart working ma che possono essere aiutati dalla tecnologia.
Infine le stime di Banca d’Italia sul rapporto tra partecipazione delle donne al mercato del lavoro e crescita del paese dimostrano che se il tasso di occupazione fosse pari a quello europeo (oggi in Italia  49 %) il PIL aumenterebbe del 7%. Questa verità non ha prodotto nel tempo conseguenze adeguate nelle scelte delle priorità delle politiche pubbliche.
Oggi l’occupazione femminile attuale è a rischio per gli effetti della crisi in settori ad alta occupazione femminile e per il consolidamento degli stereotipi nei ruoli di genere favoriti dalle difficile post pandemia.
E nonostante il ruolo delle donne nel sostenere il paese nella emergenza Covid (occupate per 2/3 nei lavori “essenziali”) è molto presente il rischio della sottovalutazione del contributo loro e del loro punto vista (la cura) nella definizione di un sistema migliore.
Perciò ancora più forte è la necessità di metterlo al centro nella discussione pubblica. Per sottolineare l’interesse pubblico dell’aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro per il benessere del paese (aumento PIL e contrasto della denatalità per il nesso che esiste tra lavoro delle donne e natalità) e per smascherare i nodi che ostacolano il loro ingresso al lavoro e al mantenimento del lavoro.
Il nodo principale è quello della maternità, ostacolo per le giovani donne nell’ingresso al lavoro e nel mantenimento del posto di lavoro perché percepita come rischio per le imprese e per la difficoltà della conciliazione/condivisione del lavoro di cura che spesso le costringono a scegliere tra cura e lavoro, cioè tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo. E se non è questo uno dei temi per la riscrittura delle regole del lavoro e del welfare...
Ecco, 50 anni dopo il varo dello Statuto dei lavoratori il tema è sempre lo stesso. Ed è diverso. Quali regole per riconoscere il valore sociale del lavoro delle donne e uomini. Ed è un tema che interroga il sindacato, interroga le imprese.
Ma anche la politica.



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