Da Ricolfi a Crisanti, andiamo a rileggere le considerazioni di virologi ed esperti. Avevano invitato alla cautela quando il governo, invece, abbassava la guardia.
“Se una gazzella vede un leone, non pensa che sia un ornitorinco solo per
controllare l’ansia che sente dentro di sé. Incredibile: pensa che sia un leone”.
Parole del sociologo Luca Ricolfi, snocciolate in un’intervista di luglio
con HuffPost, che ci ricordano i momenti della vita in cui si preferisce di gran
lunga sentirsi dire che “andrà tutto bene”, anziché dare credito ai grilli parlanti che
sussurrano amare prospettive, anche quando, a conti fatti, si rivelano veritiere.
Perché lì, a proposito di Covid, parafrasando la vecchia canzone di Caterina
Caselli, la verità “fa male, si sa”.
È accaduto con la fase-due, a partire da maggio inoltrato, e poi ancor di più con
l’avvento dell’estate, quando le misure di contenimento si sono allentate e in molti
hanno iniziato a credere che la pandemia fosse un mostro sulla via del declino,
una questione sul punto di essere alle nostre spalle, o comunque gestibile tanto da
permetterci di tornare alla nostra vita di prima. In quel momento c’era chi, a costo
di risultare impopolare o guastafeste, aveva cercato di aprire gli occhi sul prezzo
che avremmo pagato per la nostra vita estiva a tratti spensierata, fatta di spiagge,
discoteche, mangiate al ristorante e uso un po’ barocco della mascherina.
Insomma, una serie di esperti che, in un modo o nell’altro, ci avevano avvertito sul
costo salatissimo di una guardia abbassata, ma che si è preferito far finta di non
sentire.
Il sociologo Ricolfi a luglio: “Non si può escludere che con l’arrivo della
stagione fredda l’osservanza delle regole comportamentali non basti più, e
l’epidemia riparta”
“Siamo nel momento più buio della notte”, ci raccontava Ricolfi il 10 luglio scorso,
spiegando che seppur le cose effettivamente non stessero andando malissimo,
era massima “l’incertezza interpretativa sui pochissimi dati che ‘Lor Signori’ hanno
la benevolenza di comunicare a noi umili sudditi di questa sfortunata Repubblica”.
A suo avviso, quello che era certo è che “nella prima metà di giugno, ossia in
coincidenza della liberalizzazione degli spostamenti fra comuni, è successo
qualcosa di grave e di nuovo”. Egli faceva notare che, sulla base dei dati
elaborati dalla Fondazione Hume - che produce anche un importante termometro
quotidiano dell’epidemia - “fino ad allora, di settimana in settimana, il numero di
province critiche diminuiva, da allora ha smesso di diminuire e, nelle ultime due
settimane, ha cominciato a salire in modo sistematico e preoccupante”. Sul quel
che sarebbe successo in autunno si definiva “assai meno sicuro” e si faceva una
domanda: “Oltre a far ripartire l’economia, non dovremmo preoccuparci – proprio
per il bene dell’economia – di evitare l’arrivo di una seconda ondata?”. Ma cosa, a
quel tempo, lo rendeva poco incline all’ottimismo? “L’andamento del numero di
persone sottoposte a tampone”. Nonostante le autorità nazionali avessero
compreso che occorreva farne molti di più, “la maggior parte delle Regioni sta
riducendo il numero di tamponi. Se ne facessero di più, anziché di meno, i dati
del numero di contagiati sarebbero ancora più inquietanti. E io non mi ritroverei
ad essere fra i pochi che, da tre settimane, segnalano il pericolo”. Quando il
sociologo parlava era un momento, lo ricordiamo tutti, in cui l’epidemia sembrava
sotto controllo, ma lui ci aveva tenuto a indicarne i motivi: “Né l’autodisciplina della
popolazione adulta (quella giovanile è già fuori controllo), né la tempestività delle
autorità sanitarie nello spegnere i nuovi focolai, ma è semplicemente il fatto che i
fattori climatici stanno contrastando e bilanciando quelli comportamentali”.
Essendo, quando è stata rilasciata l’intervista, tempo di vacanze, Ricolfi aveva
detto un’altra cosa che ora non può passare in sordina: “Posso sbagliare,
naturalmente, ma per me è semplicemente incredibile che chi ci governa non
abbia ancora voluto accettare una cosa di puro buonsenso: il turismo internazionale
è incompatibile con una pandemia”. A tal proposito, però, secondo lui, “la
responsabilità maggiore non ce l’ha il nostro governo (per una volta solidarizzo con
Conte) ma ce l’hanno gli organismi internazionali, in primis l’Organizzazione
mondiale della sanità e l’Unione Europea. Nessun paese può chiudere o limitare
drasticamente i collegamenti internazionali se non lo fanno anche la maggior parte
degli altri paesi”. E poi la sua sentenza sul quello che avremmo vissuto, in autunno
e in inverno, se fosse arrivato il nuovo sciame epidemico: “Una catastrofe”.
L’infettivologo Galli a maggio: “La seconda ondata c’è stata in altri Paesi che
hanno aperto”
Ben prima, a maggio, in occasione dell’apertura della fase-due, era stato il direttore
del dipartimento di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli,
a indicare, in un’intervista a Repubblica, i rischi a cui da quel momento ci
esponevamo e che ci avrebbero portato alla seconda ondata, ipotesi, spiegava,
che “spaventa l’Organizzazione mondiale della sanità” e che “c’è stata in altri
Paesi che hanno aperto, anche se non ha portato situazioni drammatiche”. Si era
passati alla fase-due “per motivi di assoluta necessità”, ammetteva, ricordando
però che eravamo “di fronte a un esperimento di riapertura che si fonda
principalmente su mascherine e distanziamento”. Dov’era il punto? “Se l’apertura
avviene è perché non ci sono alternative, ma dobbiamo viverla con il massimo
senso di responsabilità nei nostri comportamenti”. In sostanza, anche lui non
negava la necessità di “non far morire le attività economiche”, ma avvertiva dei g
randi rischi, soprattutto legati ai luoghi di maggior contagio, a suo avviso in primis
il contesto familiare. “Il rischio è che si prenda il virus fuori e lo si porti in casa.
Anche le aziende possono esserlo, molte si sono attrezzate autonomamente per
limitare i focolai. Oggi per la prima volta sono uscito con mia moglie per una
passeggiata, sono stato al parco Sempione. Ho trovato moltissime persone in giro,
e questo non mi stupisce. È normale che la gente sia ormai portata a farlo, anche
se benissimo non va: ho visto tanti giovani in gruppo, più o meno ammassati,
qualcuno senza mascherina. Questo non va bene”.
Il virologo Crisanti ad agosto aveva proposto il suo Piano tamponi, ma non
è stato attuato
Un altro “grillo parlante” da tempi non sospetti è Andrea Crisanti, direttore del
Dipartimento di Medicina Molecolare della Università di Padova, che già ad agosto
aveva proposto al governo un Piano, caduto nel dimenticatoio, che prevendeva
il tracciamento di tutti gli appartenenti agli ambienti dei positivi e fino a 400mila
tamponi per spegnere sul nascere i focolai. Il virgolo, che è famoso non solo per
essere il fautore del progetto dei tamponi di massa per la Regione in Veneto, ma,
suo malgrado, per la frase sul possibile “lockdown a Natale” che ha fatto andare
preventivamente di traverso a molti sui social il panettone, è in ancora in attesa di
un riscontro dall’esecutivo Conte. Il suo documento indicava una strategia per
evitare la seconda ondata, che ora stiamo vivendo. “Ora – ha commentato al
Sole24ore qualche giorno fa – a distanza di quasi tre mesi vengono emanati nuovi
decreti del presidente del Consiglio, destinati ad impattare sulla nostra qualità
della vita e sulle nostre attività lavorative, subiti pazientemente con la speranza che
possano contribuire a diminuire il contagio”. Secondo lui, “si persiste nell’errore di
non chiedersi come, ridotto il contagio con misure progressivamente restrittive, si
faccia a mantenerlo a livelli bassi. La mancata risposta a questa domanda ci c
ondannerà a una altalena di misure restrittive e ripresa di normalità che avrà effetti
disastrosi sull’economia, l’educazione e la vita di relazione”. Una soluzione per
convivere con il virus? “Portarlo al livelli trasmissione bassa in modo da mantenere
una qualità di vita decente e portare avanti l’economia”, ha spiegato giorni fa ad
Agorà su Raitre, e sa solo in un modo: “Interrompendo le catene di trasmissioni,
ma con 10-12.000 casi al giorno nessun sistema è in grado di farlo”. E ora che i
nuovi contagi sono quasi 20.000? La risposta viene da sé.
Gimbe ad agosto: “Per la prima volta da inizio aprile incremento ricoveri in
terapia intensiva”
All’elenco di chi invitava a frenare gli entusiasmi da “fuori pericolo” va aggiunta
sicuramente la Fondazione Gimbe, che già in un comunicato del 13 agosto faceva
notare “spie rosse che invitano a non abbassare la guardia e mantenere un grande
senso di responsabilità individuale e collettiva”. L’analisi veniva dalle rilevazioni
epidemiologiche effettuate dal 5 all’11 agosto. “Si conferma – dichiarava il
presidente Nino Cartabellotta – non solo un trend in netta crescita dei nuovi casi e,
in misura minore dei pazienti ospedalizzati con sintomi, ma per la prima volta da
inizio aprile si registra un incremento dei ricoveri in terapia intensiva”. Lui parlava
di “trend in progressivo aumento dei nuovi casi, siano essi autoctoni, di
importazione (stranieri) o di rientro da italiani andati in vacanza all’estero”. Secondo
i dati Gimbe, se nelle prime tre settimane di luglio i nuovi casi erano stabili
(circa 1.400 per settimana), nelle ultime due erano progressivamente aumentati da:
1.736 nella settimana 22-28 luglio a 1.931nella settimana 29 luglio–4 agosto e a
2.818 nella settimana 5–11 agosto. “Purtroppo – rilevava il Cartabellotta – se da un
lato Governo e Regioni cercano di mettere in campo nuove azioni per frenare la
risalita dei contagi, la comunicazione pubblica continua ad essere influenzata da
messaggi che minimizzano i rischi, ignorando totalmente dinamiche e tempistiche
che condizionano la risalita della curva epidemiologica e facendo leva
sull’analfabetismo scientifico di una parte della popolazione”. Infine, invitava tutti gli
esperti a “fornire comunicazioni pubbliche equilibrate, oggettive e, nell’incertezza,
seguire il principio di precauzione”. Altrimenti, diceva, “sull’avvio dell’anno scolastico
incombe lo spettro di nuovi lockdown”.
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