Il premier vuole rassicurare gli italiani mettendo un obiettivo caro a tutti. Ma questo dpcm certifica che è fallita ogni ipotesi alternativa di convivenza col virus, e restano solo le mascherine e il lockdown, con le sue progressive sfumature.
By Alessandro De Angelis
Rieccolo, puntuale nel palinsesto domenicale, con una variazione d’orario, dai tg della sera a quelli di pranzo. Solito Conte, ma stavolta più preoccupato, perché sente di avere un paese meno unito alle spalle, lacerato nel suo tessuto profondo, adesso che la paura per la salute si congiunge con quella di non farcela, rendendo meno accettabili sacrifici estremi. Ed è difficile prevedere, in questa morsa tra le ragioni della salute e quelle del Pil, se la paura nel tempo si trasformi in rabbia, come sembrano suggerire i primi problemi di ordine pubblico, o in rassegnazione quasi fatalistica alla prigionia virale come nuova condizione esistenziale.
Sia come sia – e questa è una novità – il tentativo del premier è quello di “indorare la pillola”, ben sapendo che la differenza tra allora (marzo) e oggi c’è di mezzo ciò che non è stato fatto, in termini di prevenzione e preparazione di un’annunciata seconda ondata, per conciliare vita e pandemia. E infatti allora promise che saremmo tornati ad “abbracciarci ancora”, in un paese unito dalla paura dell’ignoto. Ora che ci siamo riabbracciati anche nell’euforia dei baccanali estivi, è costretto a fissare una scadenza al sacrificio, promettendo un Natale normale o quasi e rassicurando sull’imminenza del vaccino, in un paese disunito nell’accettazione delle restrizioni, tra categorie e generazioni. Ecco, proprio questa promessa un po’ paternalistica che fa tanto “figlio mio, prendi la medicina per guarire che papà ti fa un bel regalo a Natale”, proprio queste parole, dicevamo, danno il senso dell’affanno.
Dodicesimo dpcm dall’inizio della crisi, terzo dal 13 ottobre, quando fu varato l’obbligo universale delle mascherine, una settimana dopo che, nell’altro dpcm post estate, si lasciarono aperti ristoranti e palestre, confidando che sarebbe bastato. È la fotografia di una affannata rincorsa agli eventi in un quadro pandemico fuori controllo, ora che le previsioni parlano di una soglia di 50mila contagiati a metà novembre, con l’impressionante cifra di 500 morti al giorno. Dpcm frutto di una tensione “nel” governo, tra chi, come il premier, avrebbe voluto aspettare ed è stato costretto ad agire dall’evidenza ambientale e dalle pressioni del ministro della Salute, del Partito democratico, dall’impossibilità oggettiva di andare avanti scaricando le responsabilità sulle Regioni. E frutto anche di una tensione “tra” governo e Regioni, una parte delle quali contrarie a una stretta ancora più radicale.
L’ansia degli ultimi giorni, le incertezze nel processo decisionale, i vertici col “favore delle tenebre”, tutto racconta di un “disordine istituzionale” non di fronte all’ignoto, ma di fronte a ciò che era previsto e prevedibile, che rappresenta un ulteriore tassello nel racconto della crisi. L’esito è una mediazione faticosa e quasi notarile tra chiusure, orari, permessi e divieti di questo “semi-lockdown” che a tratti sfida la logica: cene vietate durante la settimana a ristorante, ma non i pranzi la domenica, il sabato però no, raccomandazioni (non divieti) rimesse alla buona volontà e al senso di colpa individuale negli spostamenti dal proprio comune, possibilità di “coprifuochi”, ma rimessi alla responsabilità dei sindaci. Nel gioco di “chi ha vinto” e “chi ha perso” nella tenzone tra governo e regioni, ha vinto chi, i cosiddetti “rigoristi” volevano misure draconiane, che scoraggiano e impediscono socializzazioni e luoghi di ritrovo. Tuttavia il punto è proprio questo: non c’è un discorso di verità di fondo sui tanti “perché” che hanno portato fin qui, tra misure prese e ritardi accumulati né su una strategia complessiva di contrasto al virus e di sviluppo del paese, ma la politica che diventa mediazione su luoghi e orari, inchiodata al dettaglio. Detta in modo un po’ rude: il governo dovrebbe indicare il disegno generale, i tecnici suggerire gli orari; in questa trattativa, appunto notarile, c’è una perdita di ruolo, e, con essa, una fragilità e una vulnerabilità, plasticamente resa dall’estendersi del contagio nel cuore delle istituzioni (a proposito: un grande in bocca al lupo al portavoce del premier e del capo dello Stato).
Le rassicurazioni, dicevamo, sul Natale sereno, sugli indennizzi per chi viene chiuso direttamente sul conto corrente. Comprensibili ma anche rischiose, perché anche in un paese con la memoria corta, creano aspettative e delusione qualora qualcosa non funzioni, come nel caso dei 12mila cassaintegrati che ancora aspettano i sussidi di maggio. Diventano cioè un ulteriore metro di giudizio e un detonatore di rabbia. La verità, in questo sforzo di rendere popolare ciò che popolare non è, è nel non detto, in un lockdown a metà che già prepara e preannuncia quello totale, se la curva dei contagi non dovesse invertire il proprio segno. Come in un piano inclinato con il suo scivolamento lento. Questo dpcm certifica che è fallita ogni ipotesi alternativa di convivenza col virus, e restano solo due riferimenti inoppugnabili, le mascherine e il lockdown, con le sue progressive sfumature. L’inizio della storia coincide con la fine, buttati i mesi di mezzo. E il prossimo capitolo è annunciato: se non dovessero funzionare queste misure, sul piano inclinato non si torna indietro. Si va avanti nell’unica direzione possibile.
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