PS: << Già, qui ed ora, si pone un tema: come evitare che, oltre alle persone, il virus infetti anche le democrazie. Stato di eccezione, cultura del Capo, Aule chiuse, e comunicazione manipolatoria: l’emergenza come paradigma di un nuovo “esperimento sociale”>>.
...si potrebbe, azzardando un po, chiamarlo..."fascismo (un uomo solo al comando senza il Parlamento) democratico...?
umberto marabese
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Non c’è da aspettare la fine, purtroppo non immediata, nell’illusione che tutto sarà come prima, anche se è rassicurante pensarlo: finita l’emergenza si tornerà alla normalità, in termini di politica, potere, come assetto ed esercizio, linguaggio, mentalità, forse spensieratezza. Al “come eravamo”. La pandemia sta già cambiando pelle alla politica. Ne ha silenziato il chiacchiericcio, poco male, ma non è vero che l’abbia sospesa. Anzi, come tutte le fasi emergenziali, di cambiamenti profondi ed estremi, di confronto con situazioni limite, questa è una fase estremamente politica.
E già, qui ed ora, si pone un tema: come evitare che, oltre alle persone, il virus infetti anche le democrazie, in modo irreversibile: il “come saremo”. Sospeso (per necessità) il voto per il referendum, sospeso (per necessità) il voto per le regionali, sospese, perché luoghi di contagio, piazze, socialità, agorà, spazi di vita pubblica, il cui bisogno si propaga con i canti suoi balconi: mai, nella storia della Repubblica, si è prodotto un uno stato emergenziale tale da sospendere così a lungo e in modo così radicale gli spazi di incontro pubblico nemmeno nei momenti più bui del terrorismo, nemmeno nei territori controllati dalla più cruenta delle mafie....
Sappiamo, ormai abbiamo capito tutto su come funziona il contagio, che i tempi saranno lunghi, e dunque che sarà lunga anche questa paralisi. Tra i suoi rischi c’è che l’incubazione di questo “nuovo ordine” di necessità porti a un deperimento della democrazia per come l’abbiamo conosciuta finora e che questo deperimento, senza scandalizzarsi tanto, sia considerato ineluttabile, nel corso naturale delle cose, di fronte a un’emergenza che lo giustifica. È, in fondo, quel che sta accadendo per quel che riguarda il Parlamento, che pure rappresenta in questo contesto uno snodo cruciale, perché è un punto di vita e di sovranità minima nello stato di eccezione. Di fatto, è chiuso fino al 25 marzo, come se fosse un negozio, un pub, un ristorante, ovvero un luogo di potenziale contagio da evitare. Non come un supermercato o una farmacia, un commissariato o un ospedale, ovvero un luogo essenziale per la collettività, da tenere aperto, sia pur con norme di sicurezza.
Non è una questione accademica, da politologi o politicisti. Sia chiaro: è fisiologico che un’emergenza estrema produce un quadro straordinario di decisioni. Ma una democrazia ha ragione di esistere nella misura in cui dimostra di avere strumenti decisionali, anche in una situazione di emergenza. Se una democrazia non ha, o non aggiorna, gli strumenti per affrontare una pandemia, il rischio è che, senza tanti clamori e nei fatti, si trasformi in qualcos’altro (qualcuno parla di “democratura”): un sistema formalmente democratico, ma sostanzialmente ispirato a forme autoritarie o comunque assai sbilanciate.
La sensazione è che si sta producendo in Italia, almeno come tendenza del momento, un “esperimento” politico e sociale non irrilevante: la democrazia come regime di un Capo, chiamato a gestire l’emergenza, in un clima in cui l’afflato nazionale troppo spesso giustifica il “basta polemiche” da parte dei gendarmi dell’ordine costituito, per cui diventa dannoso ciò che in una democrazia è sempre fisiologico, compresa la critica a come l’emergenza viene gestita, perché fa parte del racconto della crisi. È un caso di scuola: nei momenti di emergenza ciascun sistema declina le sue inclinazioni profonde e le sue tendenze di fondo. Macron, in cinque giorni è passato dal “non ci impediranno di stare all’aperto” allo “stiamo in guerra”, rivelando una tendenza bonapartista presente nel sistema francese.
In Italia, un lungo e radicato esprit antipolitico si manifesta nell’indifferenza verso un Parlamento chiuso per virus. Ma anche nel conformismo diffuso verso l’operazione politica posta in essere da palazzo Chigi in questo passaggio: chi critica il governo è un sabotatore della patria di fronte al numero crescente dei morti, mentre è legittima la propaganda che alimenta la “cultura del Capo” sia essa sotto forma di una foto del premier che guarda l’orizzonte come Kennedy o al lavoro nell’ora più buia come Churchill, sia essa sotto forma di discorsi sempre attenti a non urtare il consenso: gli italiani lodati anche quando si comportano male, lasciando ai virologi l’onere di bacchettarli, le regole mai imposte con fermezza, ma sempre come consiglio. Paradigmatico quel che è accaduto sui parchi: bastava chiuderli o dire che non serviva, e invece al governo non si sono assunti il dovere di decidere e di ordinare, limitandosi a consigliare, invitare, indirizzare e lavorare sulla persuasione, sul senso di colpa e sul controllo del singolo. Il parco resta aperto, ma tu non ci devi andare solo perché te lo dico io in diretta Facebook e vediamo se ti convinco. Poi lo fanno i sindaci e magari i presidenti di regione e la decisione non sarà impugnata.
È un esperimento sociale nuovo, fatto di una comunicazione molto manipolatoria, che si nutre di persuasione demagogica e di senso di colpa, non della certezza delle regole e del primato della decisione, a rischio di impopolarità: una logica da Grande Fratello, nel senso di Casalino più che di Orwell, secondo cui la rappresentazione di un copione diventa sostitutiva della realtà. A tavolino, come la costruzione di una leadership in questo gioco di specchi, che si alimenta di spifferi prima ancora che di provvedimenti, ma non di trasparenza. Alle 19 di oggi il decreto “Cura Italia” – sia chiaro: giusto e sacrosanto – non è ancora stato pubblicato in Gazzetta. Non c’è ancora cioè un testo definitivo su un provvedimento presentato all’opinione pubblica come pronto. E ancora non si capisce, in questo clima in cui ogni richiesta sarebbe presentata come sabotaggio, se e in che forma questa manovra si potrà discutere in Parlamento: qualcuno potrà, ad esempio, presentare un emendamento per i senzatetto che una casa non ce l’hanno o per chiedere più fondi sulle partite Iva?
Finora l’emergenza, drammatica, ha portato a varare provvedimenti senza precedenti con modalità senza precedenti, attraverso cioè “decreti della presidenza del consiglio”, atti per loro natura sottratti a qualsiasi controllo preventivo, dato che non sono emanati dal Presidente della Repubblica (come decreti legge e regolamenti) e non sono sottoposti a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono soggetti a esame parlamentare. Forse non si poteva fare altrimenti. Adesso si pone una questione, innanzitutto ai presidenti delle Camere: è possibile andare avanti così anche sulla politica economica e su tutti i provvedimenti che nei prossimi mesi andranno adottati o si impone una riflessione sul fatto che questo “presidenzialismo emergenziale” manda in quarantena la democrazia? Sono i quesiti che ha posto Sabino Cassese oggi sul Foglio: “Prima domanda: si può chiedere ai gestori di servizi essenziali di continuare la loro attività e non chiederlo al Parlamento? Secondo: è preferibile avere un parlamento zoppo o nessun Parlamento?”. Il riferimento è alla discussione sul voto online che cozza con la Costituzione creando, anche in questo caso, un precedente perché Costituzione impone il dibattito assembleare, ma l’assemblea espone al rischio di contagio. In Spagna il 24 saranno convertiti i decreti pendenti attraverso il voto online. In Italia la paura che poi non si possa tornare più come prima sta paralizzando l’architrave della democrazia. E già questo elemento certifica che già adesso nulla è più come prima. Insomma: si può gestire l’emergenza con la democrazia, sia pur a distanza di sicurezza oppure è già passato il concetto che è un impiccio?----
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