Riusciranno le mie figlie, i miei nipoti, andare in pensione?
Come sempre quando si parla di riduzione della spesa pubblica e di risanamento del bilancio pubblico tornano in ballo le pensioni, considerate il capitolo di spesa più sovradimensionato e più suscettibile di risparmi rapidi e facilmente misurabili. E’ per questo motivo, e non certo per un disegno di equità sociale, che l’Europa e la BCE continuano a chiederci un intervento sulle pensioni.
In attesa che domani il nuovo Presidente del Consiglio Monti esponga le linee programmatiche del suo Governo vale la pena di ribadire alcuni concetti.
L’Italia ha già varato nel 1995 una riforma pensionistica che la metteva al riparo da una crescita esponenziale della spesa previdenziale, dal momento che nel sistema contributivo la prestazione pensionistica è.....
umberto marabese
strettamente dipendente dai contributi versati durante la vita lavorativa e i coefficienti di trasformazione, in base ai quali si calcola l’ammontare della pensione, tengono conto dell’attesa di vita media rendendo indifferente per le casse dello stato l’età di pensionamento. Il problema perciò non è la sostenibilità economica di quel sistema ma la sua sostenibilità sociale poiché esso si basava sull’idea di carriere lavorative stabili e continuative e su una crescita del Pil di almeno 1,5 punti annui.
Nessuna di queste condizioni esiste oggi e questo significa che i futuri pensionati avranno una forte penalizzazione della loro pensione che sarà ben lontana da quel 60% della retribuzione media previsto dal protocollo del Welfare del Governo Prodi. Si tratta non solo di un problema di rischio individuale, insito nel sistema contributivo, ma di un problema economico riguardante la domanda interna di un Paese la cui popolazione invecchia e che presto avrà un 25% di
ultrasessantacinquatenni. E’ evidente che la riduzione del reddito di questa popolazione avrà un impatto negativo sulla crescita e sulla dinamica del Pil.
Pensare di affrontare questo problema con l’allungamento dell’età pensionabile per tutti, donne e uomini, a 67 anni è irragionevole perché non considera il fatto che non tutti i lavori sono uguali, per fatica e impegno, e che il mercato del lavoro oggi tende ad espellere i lavoratori anziani; l’aumento dell’età pensionabile e la contemporanea abolizione delle pensioni di anzianità, mentre la disoccupazione continuerà a crescere anche in ragione della ristrutturazione in atto nel sistema industriale, non può che aumentare il numero di chi sarà privo di reddito non essendo né lavoratore né pensionato.
Il vero problema dunque è correggere il sistema contributivo, senza rimetterlo in discussione, per adattarlo alle attuali condizioni di mercato del lavoro, e dare una prospettiva pensionistica ai giovani. Piuttosto che chiedersi come ridurre la spesa previdenziale bisognerebbe chiedersi come
renderla equa e funzionale alla fuoriuscita dalla crisi e alla riduzione delle diseguaglianze attraverso la redistribuzione del reddito. Sarebbe perciò utile ragionare su alcune proposte quali:
Ripristinare la flessibilità dell’età di pensionamento dentro un range stabilito come era previsto prima degli interventi dei Governi Berlusconi in modo che ciascuno, sia uomo che donna, possa scegliere quando andare in pensione a seconda delle proprie condizioni di vita e di reddito.
Modificare i coefficienti di trasformazione diversificandoli a seconda della qualità del lavoro e delle aspettative di vita differenti a seconda del gruppo sociale di appartenenza.
Istituire forme di integrazione delle pensioni troppo basse, finanziate dalla fiscalità generale,
che potrebbero essere proporzionali agli anni di contribuzione versati, in modo da valorizzare i periodi lavorativi.
Riprendere la discussione sull’invecchiamento attivo per valorizzare la produttività sociale degli anziani e costruire un nuovo patto tra le generazioni.
Si tratta solo di alcune delle modifiche necessarie, non per risparmiare, ma per riportare il sistema previdenziale al proprio compito costitutivo: garantire un reddito dignitoso a tutti i cittadini anziani. Naturalmente rimane il problema del reperimento delle risorse. Tuttavia esistono ancora degli spazi
di finanziamento che possono derivare da processi di equità interni allo stesso sistema. Per esempio se ai lavoratori autonomi si chiedesse di equiparare la propria aliquota contributiva( oggi al 20% contro il 33% dei lavoratori dipendenti) a quella dei lavoratori parasubordinati( circa il 27%) si recupererebbero circa 5 miliardi di euro.
Sarebbe un buon inizio per il Governo Monti se, pur nella gravità della crisi finanziaria, riuscisse ad affermare il valore della spesa sociale per rilanciare lo sviluppo e dare senso all’economia reale che incrocia i bisogni e i desideri delle persone.
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