La vicenda di Alexei Navalny, morto nel carcere di Kharp lo scorso 16 febbraio, ha aperto uno squarcio sconcertante sul degrado del discorso politico e giornalistico contemporaneo. Già poco ore dopo la diramazione del comunicato diffuso da servizio penitenziario russo che ne annunciava il decesso, le maggiori autorità politiche occidentali si erano affrettate a puntare il dito contro Vladimir Putin, pur in assenza di elementi concreti. Ad aprire le danze era stato Joe Biden, che in conferenza stampa aveva dichiarato: “Putin è responsabile per la morte di Navalny. Quello che è successo a Navalny è un’ulteriore prova della brutalità di Putin. Nessuno dovrebbe lasciarsi ingannare”, Ursula van der Leyen e Josep Borrell avevano dichiarato che Navalny era stato “lentamente assassinato dal presidente Putin e dal suo regime” e che non avrebbero risparmiato “alcuno sforzo per chiederne conto alla politica e alle autorità russe.”
In Italia, Carlo Calenda aveva promosso una manifestazione in Campidoglio per il blogger morto, vi aveva aderito l’intero arco parlamentare italiano. In quella circostanza l’unico a smarcarsi timidamente dalla condanna a Putin era stato Matteo Salvini che aveva osato dichiarare: “Sulla morte di Navalny bisogna fare chiarezza, ma la fanno i medici, i giudici, non la facciamo noi”. Apriti cielo: quelle parole erano valse al segretario della Lega l’accusa di collateralismo con il nemico russo. Per rispondere a Salvini si era scomodata addirittura la Commissione Europea, gli aveva infatti risposto il portavoce degli affari esteri, Peter Stano, ricordando a Salvini che gli stati membri avevano già sottoscritto una dichiarazione comune sulla morte di Navalny nella quale era scritto non serviva un’indagine penale per stabilire le responsabilità della morte.
Sul lato giornalistico il tenore era più o meno lo stesso: accuse in assenza di prove, risposte preconfezionate, tanta emotività e fonti quasi del tutto assenti. In un primo momento era stata accreditata la versione della vedova di Navalny: Julia, che aveva sostenuto la versione dell’avvelenamento voluto da Putin. “L’hanno avvelenato”, aveva titolato il Corriere della Sera in prima pagina martedì 20 febbraio, mentre La Stampa si era lanciata in un retroscena dell’avvelenamento citando non meglio precisate “fonti ben informate”. Subito dopo era stata accreditata una nuova versione: quella del pugno. Il Corriere della Sera l’aveva lanciata a pagina 4 nell’edizione del 24 febbraio: “Navalny, la nuova accusa: ucciso da un pugno al cuore”. A sostenerla una singola persona: Vladimir Osechkin, fondatore del sito Gulagu.net.
Dopo giorni di accuse di complotto ordito dal Cremlino, nelle scorse ore è arrivata una doccia gelata per tutti coloro che aveva gareggiato nella corsa a lanciare l’accusa più pesante e frettolosa verso le autorità russe. Il capo della dell’intelligence militare ucraina, Kyrylo Budanov, ha infatti dichiarato che secondo le informazioni in suo possesso l’oppositore russo Alexei Navalny è morto per cause naturali. “Potrei deludervi”, ha dichiarato, “ma quello che sappiamo è che è morto davvero per un coagulo di sangue. E questo è più o meno confermato”.
Poche parole ma sufficienti a demolire le dichiarazioni delle più alte cariche politiche occidentali e delle più blasonate testate europee e statunitensi. Noi possiamo solo limitarci a sottolineare che anche stavolta avevamo in dubbio la versione data da tutti per buona ma priva di fondamenti fattuale, e i fatti ci stanno dando ragione anche stavolta
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