di Vittorio Nicola Rangeloni
La pressione ucraina su Donetsk si è allentata rispetto alle settimane precedenti, quando più volte al giorno la città veniva colpita da numerosi razzi. In questo periodo giorno e notte ho cercato di mostrare in tempo reale quello che accadeva, testimoniando distruzione, morte, macerie e disperazione. I ritmi erano tanto intensi da non avere tempo per fermarmi a riflettere e cogliere dettagli più profondi. Per affrontare queste situazioni bisogna chiudersi, nascondersi nella propria corazza. E non parlo del giubbotto antiproiettile, che comunque può proteggere dalle schegge. Bisogna cercare di non farsi coinvolgere dalle emozioni e di non assorbire la reazione delle persone; serve rimanere indifferente davanti ai corpi senza vita o alle imponenti macerie, così come è meglio evitare di pensare al fatto che lungo diverse strade che percorri ogni giorno ci sono conficcati decine di razzi e che altri potrebbero cadere in qualsiasi momento. Eppure tutto ciò non sempre è possibile, anche quando sei convinto di essere abituato a tutto.
Pochi giorni fa ho raggiunto una casa colpita da un razzo. Il tetto ed il solaio erano crollati sull’appartamento del quinto piano travolgendo una donna. Sul luogo sono immediatamente intervenuti i vigili del fuoco, accorgendosi delle grida della signora. La situazione era drammatica e rischiosissima, non c’è stato nemmeno il tempo per attivare l’autogru per sollevare la lastra di cemento armato divenuta una trappola mortale che ogni secondo cedeva sulle altre macerie schiacciandole il corpo.
«Se rimuoviamo le macerie da questa parte c’è il rischio che il solaio le schiacci la testa!», ha esclamato uno dei soccorritori.
Intanto un secondo pompiere fissava le macerie, dalle quali provengono le grida disperate della donna.
«Credi che sia possibile tirarla fuori viva?», chiedo al ragazzo.
Dai suoi occhi improvvisamente iniziano a scorrere lacrime. «Lei mi chiede aiuto, ma io non posso farci nulla».
Non avevo mai visto piangere un vigile del fuoco. Anche nelle situazioni più difficili hanno sempre trasmesso speranza e sicurezza. Per la prima volta in tutti questi mesi si è aperta una crepa lungo il mio muro interiore che in casi come questo blocca ogni coinvolgimento emotivo.
«Non rimane tempo, dobbiamo provare il tutto per tutto. Così è destinata a morire in pochi minuti. Se proviamo da quest’altro punto a sollevare la lastra… le probabilità sono scarse, ma non ci sono alternative. Potrebbe funzionare!», ha proposto il terzo uomo presente attorno alle macerie.
Il tutto è durato qualche secondo, dopodiché ho visto la testa della donna coperta di polvere grigia spuntare dalle macerie. Ce l’hanno fatta, credendo in quell’unica rischiosissima possibilità. Pochi minuti dopo la donna era già a bordo dell’ambulanza. Appena si sono chiusi gli sportelli posteriori del mezzo i pompieri in silenzio si sono messi in disparte, in silenzio, per fumare una sigaretta e fissare il vuoto con gli occhi lucidi, approfittando di una pausa di pochi minuti: la palazzina a poca distanza colpita nello corso della stessa porzione di razzi stava bruciando e bisognava andare a far supporto alla squadra di colleghi impegnata a poche decine di metri di distanza.
In questi ultimi mesi di terrore a Donetsk ho assistito quasi ogni giorno a molte situazioni estreme, pesanti, difficili da affrontare emotivamente. Lavorando in questo contesto ci si abitua a tutto, impari a mettere in pausa le emozioni affinché non influenzino il lavoro. Impari a rimanere freddo di fronte ad una vita che, davanti ai tuoi occhi, è in procinto di abbandonare il suo corpo fatto a pezzi dalle schegge delle bombe; impari a fare abitudine al fatto che sulle strade che percorri più volte al giorno possono piovere razzi e bombe, e nessuno sa quando cadrà il prossimo: sai solo che è questione di tempo. Minuti, ore o qualche giorno. Comprendi che tutto ciò è rischioso, ma allo stesso sei consapevole che tutto questo va raccontato.
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*Post Facebook del 23 dicembre
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