Sissi Bellomo
Mentre l’Opec continua a tagliare la produzione di petrolio, il Canada ha cominciato a fare marcia indietro. La provincia dell’Alberta, patria delle oil sands, da settembre potrà mettere sul mercato 3,76 milioni di barili di greggio al giorno, 25mila in più rispetto ad agosto e 200mila in più rispetto a gennaio, quando erano entrati in vigore i tetti di estrazione: una misura simile a quelle adottate dall’Organizzazione degli esportatori di greggio, di cui il Canada non ha mai fatto parte.
Anche in questo caso i tagli servivano a sostenere il prezzo del barile, ma le autorità di Edmonton non guardano al Brent, né al Wti. E sono ben poco interessate al livello globale delle scorte petrolifere, che tanto preoccupa l’Opec. Ciò che importa sono le valutazioni del greggio bituminoso locale – il Western Canadian Select (Wcs) – e queste sono migliorate...
Pazienza se la produzione extra finirà comunque nel calderone dell’offerta mondiale, contribuendo a perpetuare quel surplus contro cui l’Opec combatte da anni e che pesa sulle quotazioni internazionali.
Una completa revoca dei tagli canadesi (che in origine ammontavano a 325mila bg, in vigore fino al 31 dicembre 2019) sarebbe un ulteriore fattore ribassista per il petrolio, che già risente dei timori sulla domanda, legati alle guerre commerciali.
Dai colloqui Usa-Cina di questa settimana gli analisti non si aspettano una svolta e ieri per il barile è stata un’altra seduta volatile, con spunti al rialzo legati soprattutto alle aspettative sulla Federal Reserve, gonfiate da un tweet in cui Donald Trump ha affermato che «la Fed ha fatto ogni possibile mossa sbagliata» e che «un piccolo taglio dei tassi non è sufficiente». Il Brent ha chiuso poco mosso, sotto 64 dollari.
Parzialmente isolato dal mercato a causa dell’insufficienza della rete di oleodotti, il Canada l’anno scorso aveva sofferto una pesante svalutazione dei prezzi del suo greggio: a ottobre 2018 il Wcs era arrivato a costare oltre 50 dollari meno del Wti. Grazie anche ai tagli produttivi, lo sconto rispetto al riferimento Usa è tornato a livelli più normali, quasi sempre tra 9 e 13 $ quest’anno.
Il nuovo governo dell’Alberta, in carica da aprile, giustifica il graduale ritiro dei tagli con la maggiore capacità di esportazione del greggio, che comincia a smaltire le scorte locali. L’export via ferrovia in particolare è salito a 285mila bg a maggio, secondo il National Energy Board: un balzo del 23% dal mese precedente e di quasi il 70% da marzo.
Paradossalmente tuttavia proprio la risalita del prezzo del Wcs minaccia di frenare l’impiego dei treni, un mezzo molto caro per spostare il greggio: ci sono carrozze cisterna ferme per 250mila bg, denuncia Mark Little, ceo di Suncor, uno dei maggiori produttori di oil sands dell’Alberta, concludendo che l’idea dei tagli da questo punto di vista «non sta funzionando bene».
Il nuovo premier della provincia, Jason Kenney, da un lato ha prospettato la possibilità di prorogare al 2020 i controlli sulla produzione, ma dall’altro sta dicutendo una proposta delle compagnie locali: limiti più elevati per chi sottoscrive contratti di trasporto ferroviario con il Governo.
Nel frattempo, anche sul fronte degli oleodotti ci si attende progressi. Tra agosto e settembre Tc Energy dovrebbe incrementare di 50mila bg i flussi del sistema Keystone, mentre Endbridge promette 135mila bg di capacità supplementare sulla sua rete entro il primo trimestre 2020.
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