L’altro giorno abbiamo provato a immaginare quanti voti guadagnano i “populisti” fra quanti leggono di Gueladje Koulibaly, immigrato clandestino dalla Guinea, con precedenti per violenza, resistenza e una molotov, che dovrebbe già essere stato rimpatriato o almeno ristretto in un Cara in attesa dell’espulsione decretata da mesi dal questore; invece nessuno lo cerca, lui resta a piede libero e tenta di stuprare una diciottenne a Torino, nel parco del Valentino. Oggi ci poniamo la stessa domanda per un’altra notizia, ancor più grave, sempre da Torino: quella di Said Mechaquat, marocchino con cittadinanza italiana, che il 23 febbraio ha sgozzato il giovane Stefano Leo scambiandolo per un ex rivale in amore, ma quel giorno avrebbe dovuto essere in carcere o ai domiciliari o ai servizi sociali (dal 9 maggio 2018, e per una condanna del 2016!) a scontare una condanna di 1 anno e 8 mesi senza condizionale per maltrattamenti alla consorte, invece era libero per i soliti ritardi nell’esecuzione della pena. Ieri il procuratore generale Edoardo Barelli s’è scusato (per quel che può valere) con i familiari della vittima e ha spiegato che il caso di Said è tutt’altro che isolato: soltanto nella civilissima Torino, ci sono circa 15 mila sentenze definitive emesse dal 2016 a oggi su almeno altrettanti criminali che attendono di essere eseguite per la cronica assenza di personale (giudici, cancellieri, segretari, agenti). Figurarsi quanti sono in tutto il resto d’Italia. Non tutti i condannati, al momento dell’esecuzione, finiscono in cella, anzi solo una minima parte...
In Italia, grazie alla legge Gozzini e alla stratificazione di infinite norme svuotacarceri (l’ultima, del ministro Orlando, l’ha fortunatamente cancellata Bonafede), chi deve scontare una pena complessiva o residua fino a 3 anni (in certi casi 4), la galera non la vede neppure in cartolina. Dunque anche Said probabilmente sarebbe finito in qualche ospizio o ente benefico, tipo B. a Cesano Boscone. Ma ci sono pure i condannati “over 3” (o 4) che un po’ di carcere devono farselo per forza. Bene, anzi male: quando finalmente lo Stato, zigzagando fra gradi e fasi di giudizio, prescrizioni, amnistie, condoni, indulti, scappatoie e cavilli vari, dopo anni e anni, con enorme dispendio di soldi, uomini, strutture ed energie, riesce finalmente ad assicurare alla giustizia un colpevole, manca il personale per l’ultimo tratto di strada da casa alle patrie galere. Decine di migliaia di potenziali galeotti, molto pericolosi visto che le loro condanne superano i 4 anni, circolano indisturbati fra noi, pronti a riprendere l’attività criminale.
Il che rende tragicamente ridicoli gli alti lai che a cadenza regolare si levano dai pulpiti “garantisti” sul “sovraffollamento carcerario” per i “troppi detenuti” e le “poche pene alternative”. Panzana che fa il paio con un’altra, già smentita dagli studi criminologici più seri: che il tasso di recidiva aumenti per chi sconta la condanna in carcere e diminuisca per chi resta a piede libero (con tanti saluti a Cesare Beccaria, gran sostenitore della certezza della pena). La verità è che l’Italia ha meno detenuti in rapporto alla media europea e soprattutto in rapporto al numero di criminali in circolazione (essendo l’unico Paese d’Europa con tre regioni controllate militarmente dalle mafie e col record di corruzione ed evasione fiscale). Chi pensa che gli attuali 60 mila detenuti siano troppi finge di ignorare che, alla luce delle sentenze ineseguite, dovrebbero essere il doppio. E, se non lo sono, è solo perché il sistema non funziona. Il che rende paradossale la solita ricetta di aprire le galere per far uscire un po’ di delinquenti, con l’ennesimo indulto, amnistia, svuotacarceri per mandare lorsignori a scontare la pena a casa propria o in qualche istituto, dove poi manca il personale per controllare che rispettino gli obblighi e non tornino a delinquere.
Le anime belle hanno criticato uno dei punti più sacrosanti del programma giallo-verde: quello di costruire nuove carceri. Queste consentirebbero ai detenuti di vivere in spazi più civili e allo Stato di adeguare i posti-cella a un fabbisogno destinato a crescere nel caso di anche minimi recuperi di efficienza della macchina giudiziaria. Carceri che si potrebbero ricavare non solo edificando nuove strutture, ma anche riadattando (per i detenuti meno pericolosi) le caserme in disuso. Ma non basta: oltre ai passi già compiuti da Bonafede (blocca-prescrizione, Anticorruzione, esclusione dei reati da ergastolo dal rito abbreviato e dai relativi sconti di pena), è in cantiere la riforma del Codice di procedura penale. L’occasione giusta per sfrondarlo da assurde scappatoie fatte apposta per regalare l’impunità ai colpevoli. L’altro giorno Giulia Ligresti ha ottenuto dalla Corte d’appello di Milano la revisione della pena di 2 anni e 8 mesi, più sequestro di azioni e immobili per circa 15 milioni, da lei stessa patteggiata a Torino per aggiotaggio e falso in bilancio. Avete mai visto un innocente che patteggia 32 mesi di galera e il sequestro di 15 milioni? Evidentemente era innocente a sua insaputa. Eppure in Italia è possibile anche questo: concordi una pena, non la impugni (perché si può pure patteggiare e poi ricorrere in appello e in Cassazione), la rendi definitiva; poi si scopre che il Tribunale dove hai patteggiato non era competente e i processi a te e agli altri ripartono altrove da zero con risultati opposti; il tuo patteggiamento diventa carta straccia; e ti ritrovi pure beatificato dai giornali come un martire sul calvario e la vittima di un errore giudiziario cui hai concorso anche tu. È populismo indignarsi per le baggianate che rendono ridicola la Giustizia? Se lo è, ci iscriviamo subito. Ma preferiamo chiamarlo buonsenso.
“Il Codice Normale” di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 6 Aprile 2019
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