giovedì 17 ottobre 2019

Alberto Stabile - Così Zar Vladimir ha vinto la campagna di Siria

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PS: Non condivido lo scritto di Alberto Stabiloe, ma l'informazione è indispensabile. 
"... Ai presenti ( posteri )l'ardua sentenza..."!
umberto marabese
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BEIRUT – Tra tubi di Pringles lasciati semiaperti sui tavoli e minibar pieni di lattine ghiacciate di soda, i soldati dell'armata siriana di Putin, come ci ha raccontato un giornalista moscovita al seguito delle truppe russe, si sono impossessati in un attimo degli avamposti occupati dagli americani fino alla precipitosa ritirata dal Nord Est della Siria ordinata da Trump venerdì scorso e alla conseguente invasione turca. Un regalo insperato per i nuovi arrivati, tutto quel ben di dio lasciato dall'esercito Usa che, come si sa, quanto a generi di conforto per i soldati impegnati nelle missioni all'estero non bada a spese. Ma più rilevante del gesto sembra il significato simbolico di quel turnover senza passaggio di consegne. Ripiegato sulle sue egocentriche priorità, l'Impero d'Occidente se ne va, abbandona la Siria, le cui sofferenze non ha mai fatte sue, né ha mai abbracciate fino in fondo. 
Mentre l'ex Grande Potenza d'Oriente, per quanto sia piena di rattoppi e di crepe e in mano ad uno zar inviso per palese carenza di cultura democratica come Vladimir Putin, prende il suo posto nel deserto siriano, ancora una volta centrale nel gioco degli equilibri, e si afferma come l'unico mediatore sulla scena capace di cambiare lo stato delle cose.
Come è potuto succedere?...
Certo, l'inconsistente inerzia politica dell'Europa, assieme alla recalcitrante reticenza degli Stati Uniti a giocare il ruolo che loro compete in Medio Oriente, unite alla inaffidabilità della maggior parte degli attori regionali, ha messo la Russia nella condizione di poter imporre la propria strategia, per quanto discutibile e spregiudicata essa sia apparsa sin dal suo irrompere sulla scena, nel settembre del 2015.
Mentre Assad veniva dato per finito, l'esercito siriano a brandelli e il regime in procinto di crollare, Putin dichiarava il suo appoggio al Rais di Damasco, affermava di voler difendere l'integrità territoriale della Siria mettendo in guardia contro la frantumazione del paese, accusava i gruppi ribelli di albergare nel loro seno radicalismo islamico e confusione mentale e i loro sostenitori arabi od occidentali di volere realizzare nessuna risoluzione democratica ma nient'altro che un cambio di regime. Ma Putin, almeno, una strategia l'aveva. Gli altri, no.
I bombardieri russi fatti affluire nella base di Khmeimim, a nord dei Latakia, la roccaforte della minoranza alawita, setta eterodossa dello sciismo, e dunque della famiglia Assad, hanno permesso ad Assad di capovolgere le sorti della guerra, colpendo, senza il disturbo di alcuna contraerea, le basi degli insorti e, spesso e volentieri, i centri abitati in cui si trovavano, mietendo vittime tra i civili. Questo ha consentito al regime di riguadagnare il controllo della Siria urbana. Un primo passo.
Di contro, inseguendo il mito dei ribelli moderati ed affidabili, che avrebbero dovuto garantire una transizione ordinata alla demo crazia, dopo l' inevitabile uscita di scena del rais, gli Stati Unti hanno bruciato miliardi di dollari senza ottenere alcun risultato. Ma in realtà, il timore che le armi sofisticate inutilmente reclamate degli insorti potessero finire nelle mani dei terroristi islamici è stato soltanto il pretesto dietro cui Obama, prima e Trump, poi hanno nascosto la loro diffidenza e il timore di sprofondare nella palude siriana. Meglio, dal loro punto di vista, lasciare campo liberto all'interventismo di Putin.
Erdogan ha fatto tutto, o quasi, quello che poteva per destabilizzare la Siria, consapevole che il crollo del regime gli avrebbe offerto la possibilità di perseguire a mani libere il suo principale obbiettivo: allontanare a qualsiasi costo le organizzazioni nazionaliste curdo-siriane (YPG e PYD, vale a dire, nell'ordine, le Unità di Autodifesa Popolare, braccio armato del Partito dell'Unione Democratica) dal confine turco-siriano per impedire loro di raccordarsi in un'alleanza devastante con quella che i governanti turchi considerano la casa madre dei separatisti curdo-siriani, vale a dire il turco PKK, o Partito dei lavoratori del Kurdistan, fondato da Abdallah Ochalan e considerato dagli Stati Uniti dalla Unione europea e dalla Nato un'organizzazione terroristica, in guerra da 35 anni contro il lo stato turco.
L'uomo forte di Ankara, per dirla con i critici più benevoli, mentre per i più sarcastici Erdogan è semplicemente il “sultano”, è passato dalla sera alla mattina dalla strategia esemplificata dalla formula rosea “nessun problema coi vicini”, su cui aveva fondato i suoi rapporti con Bashar el Assad, al ruolo di principale sponsor dei gruppi ribelli che si ripromettevano di abbattere il regime di Damasco, proteggendoli ed offrendo loro una comoda retrovia. Ma soprattutto aprendo il confine agli jihadisti stranieri, i cosiddetti foreign fighters, che si sono precipitati in Siria sulle tracce del califfato.
E' stato l'avvento dello Stato Islamico che ha dato a tutti i protagonisti del dramma siriano un nuova ragion d'essere. Se non ci fosse stato, l'Isis, bisognava inventarlo.
Gli Stati Uniti hanno dispiegato finalmente la loro forza aerea alla testa di una coalizione per combattere il Califfato di cui hanno fatto parte decine di paesi. Ma prima che i loro aerei si alzassero per colpire i convogli di petrolio siriano che dai pozzi del Nord Est della Siria venivano contrabbandati al di là del confine con la Turchia ce n'è voluto.
La presenza di un nemico comune come l'Isis ha permesso agli Stati di trovare finalmente un alleato affidabile sul terreno: i miliziani curdi del YPG che hanno rappresentato la spina dorsale della forza terrestre messa insieme per combattere gli jihadisti. Le cosiddette Syrian Democratic, Forces, composte da miliziani curdi e arabi arruolati tra i clan sunniti della zona, una volta sconfitto lo Stato islamico, hanno consentito agli Stati Uniti di mantenere il controllo sul Nord Est della Siria, pari a quasi un quarto del territorio nazionale, e sulle sue risorse energetiche, pozzi di petrolio e giacimenti di gas, sottraendole allo stato siriano.
Secondo stime che filtrano da Washington con molta reticenza, e se ne capisce il motivo, per permettere alla coalizione a guida americana di realizzare i suoi obiettivi di distruggere l'Isis e mantenere, al tempo stesso, un potere deterrente, o intimidatorio, nei confronti del regime di Assad, i curdi hanno sacrificato 11.000 uomini. Senza il loro sacrificio Raqqa sarebbe ancora la capitale del califfato. E Trump non avrebbe mai potuto dichiarare “vittoria al 100%” sull'Isis impegnando soltanto da parte americana 1000 uomini appartenenti alle forze speciali.
Si capisce allora come Putin, quando Trump ha dato l'ordine di ritirarsi (secondo un giornalista israeliano s'è trattato di “una nota a piè di pagina di una lunga lista di vergogne”), Putin si sia trovato al posto giusto nel momento giusto, per colmare con la sua iniziativa l'ennesima voragine creata dal titubante disinteresse con cui gli Stati Uniti si sono affacciati sul panorama siriano.
In questi anni tragici, Zar Vladimir ha saputo mantenere rapporti con tutti. Mentre le truppe russe occupavano gli avamposti abbandonati dagli americani, lui si trovava in visita ufficiale negli Emirati Arabi Uniti, proveniente dall'Arabia Saudita. Come dire, i due partner gemelli della nuova Santa Alleanza, a questo punto presunta, molto presunta, creata da Trump, assieme ad Israele, per contenere l'espansionismo dell'Iran nella regione.
Ma, mentre le petroliere saudite bruciano nel Golfo Persico, The Donald, preoccupato solo della sua campagna elettorale, non si muove, tentenna, da ordine di attaccare l'Iran per ritorsione e poi ritira la mano. I sui alleati cercano allora di vedere se ci sono i margini per intavolare un dialogo con Teheran. E Putin, che con l'Iran e la Turchia è in eccellenti rapporti, si presta volentieri. “Ho sempre pensato alla Russia come alla mia seconda casa, uniti come siamo da un profondo rapporto strategico – gli ha detto quel venditore di tappeti di lusso che risponde al nome di Mohammed Bin Zayed, l'erede al trono di Abu Dabi e ministro della Difesa degli Emirati, nonché mentore dell'erede al trono saudita, il discusso Mohammed bin Salman. Siamo, per dirla in breve, nella cerchia più ristretta degli entusiastici e generosi sostenitori arabi della presidenza Trump. Forse non più così entusiasti.
Per non dire della triade, non ancora Triplice Alleanza, messa insieme da Putin con Turchia e Iran, dopo che il cosiddetto processo di Ginevra, avviato dalle Nazioni Unite per cercare punti di contatto tra il regime di Damasco e glI oppositori in vista di una possibile, ma non probabile successione ad Assad, naufragò nell'indifferenza generale, prigioniero del dogma che qualsiasi futura soluzione alla crisi siriana avrebbe dovuto prevedere l'allontanamento di Assad dal potere. Putin, allora, volle dimostrare che un'alternativa a Ginevra in realtà c'era e si inventò il “processo di Astana” dal nome della capitale del Kazakstan dove convennero la prima volta i capi dei paesi maggiormente coinvolti in Siria: Russia, Turchia e Iran. Ne è venuto fuori un accordo per creare zone di de-escalation, sembra ancora troppo parlare di tregua, che sopravvivono soltanto ad Idlib, dove la Turchia fingendo di mettere il freno ai gruppi islamisti confluiti in Hayat Tahrir al Sham, ex Fronte al Nusra, ex al Qaeda, in realtà manovra con i ribelli che ne ne accettano, come dire, la leadership politica, gli stessi ex appartenenti al Libero esercito Siriano, un assemblaggio di fazioni formate in maggior parte da disertori e fuoriusciti dell'esercito di Assad, oggi trasformatosi in Esercito Nazionale Siriano e presenti accanto alle forze armate turche tra le unità che hanno invaso il Nord Est della Siria.
Invasione che il Cremlino si guarda bene dal condannare in maniera esplicita, preferendo sottolineare, ancora e sempre, la necessità di difendere l'integrità territoriale della Siria, come a voler spiegare il perché Putin abbia spinto gli indipendentisti curdi, traditi da Trump, a cercare e trovare un'intesa d'emergenza, per la sopravvivenza, con Assad. Intesa che vedrà l'esercito di Damasco (ovviamente con il supporto della Russia) garantire la sicurezza alla frontiera con la Turchia e i dirigenti curdi a gestire l'amministrazione e la sicurezza interna delle province curde (Rojava). Ma anche lì, nella visione normalizzatrice di Putin, l'oggettiva contrapposizione di interessi con la Turchia non vuol dire andare a cercare lo scontro, o per lo meno a considerare lo scontro inevitabile. Basta un semplice esercizio retorico a rimettere le cose a posto e fugare ogni allarme. Non a caso, dopo aver riaffermato il principio dell'integrità territoriale siriana, lo stesso Cremlino è pronto a riconoscere (più o meno con lo stesso pragmatismo, o cinismo che dir si voglia, dispiegato dagli americani alle prese con gli eccessi d'Israele verso i palestinesi di Gaza) che “la Russia rispetta il diritto della Turchia all'auto-difesa”, evidentemente nei confronti degli attacchi che possono venire dai nazionalisti curdi.
A proposito delle capacità diplomatiche di Putin, resta da dire dei sempre eccellenti rapporti con Netanyahu, l'antitesi di Assad, rapporti che hanno permesso al presidente russo di evitare che in questi anni i bombardieri israeliani prendessero di mira direttamente l'esercito siriano, tranne nel caso in cui gli israeliani non si venissero da questo minacciati, e potessero concentrare le loro sortite sui convogli partiti da Teheran e diretti a rifornire di missili di precisione la milizia sciita libanese Hezbollah e, o, le forze agli ordini dei Guardiani della Rivoluzione Iraniana presenti in Siria.
Ora, come mai Trump, pur essendo consapevole del ruolo emergente assunto dal presidente russo nel conflitto siriano, con tutto quello che questa ascesa potrebbe implicare, verdi ad esempio, un netto miglioramento dell'immagine di Putin compromessa dalla crisi dell' Ucraina,gli ha in sostanza lasciato tutto lo spazio che Putin potesse desiderare? Azzardo una risposta: forse perché Trump, come Obama nel 2015, spera che prima o poi la Russia trovi nel deserto siriano, la tomba delle sue ambizioni. Qualcosa di simile a quello che il Vietnam è stato a suo tempo per gli americani. Le altre possibili spiegazioni le lascio agli esperti di dietrologia.--- 

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