di Thierry Meyssan
Siamo abituati a vedere Israele commettere atrocità prendendo a preteso la propria sicurezza e gli anglosassoni prenderne le difese nel Consiglio di sicurezza. Siamo spettatori di crimini che non comportano alcuna conseguenza giudiziaria. Questa situazione sta per finire. La Corte internazionale di giustizia ha tolto di mezzo il paralogismo di Tel Aviv e ha riconosciuto lo Stato di Palestina membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Ormai non si potrà più fingere di non vedere la sofferenza dei palestinesi e costoro potranno perseguire i loro carnefici.
All’apertura della settantanovesima sessione, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha infatti reso esecutiva la risoluzione ES-10/23 dello scorso 10 maggio [1]. Così lo Stato di Palestina è diventato membro a pieno titolo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Nessuno quindi può più opporsi all’esercizio dei suoi diritti di Stato sovrano.
Il riconoscimento della Palestina come Stato sovrano modifica l’interpretazione dell’Accordo interinale sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza (il cosiddetto Accordo di Oslo II). L’Autorità palestinese non è più l’amministrazione provvisoria di un periodo di transizione, ma un governo nel pieno senso del termine. I Territori palestinesi non sono più «aree contese», ma il territorio internazionalmente riconosciuto di uno Stato sovrano.
Dalla guerra del 1967, nota come Guerra dei Sei giorni, il movimento dei coloni ha guadagnato costantemente terreno. Oggi ci sono oltre 700 mila coloni in Cisgiordania, Gerusalemme Est e sulle alture del Golan.
Il 19 luglio la Corte internazionale di giustizia (CIG) il tribunale interno delle Nazioni unite consultato dall’Assemblea generale delle Nazioni unite, ha definito le norme giuridiche relative alle politiche e alle pratiche di Israele nei Territori palestinesi occupati [2]. Il parere della CIG non ha ancora avuto seguito perché solo il Consiglio di sicurezza ha il potere di costringere Israele ad applicarlo.
Ricordiamo che il diritto internazionale, a differenza del diritto penale, non si basa su una forza di polizia e su un sistema carcerario. Impone semplicemente ai governi l’obbligo di rispettare la firma del loro Stato. Aderendo all’Onu, Israele ne ha sottoscritto lo Statuto [3] che, al capitolo XIV, impegna ogni Stato membro «a conformarsi alla decisione della Corte internazionale di giustizia in qualsiasi controversia di cui sia parte».
La Corte ha ritenuto (paragrafo 229) che le politiche e le pratiche di Israele nei Territori palestinesi occupati vìolino la Convenzione internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Secondo la CIG, Israele pratica una forma di apartheid (cfr. art. 3 della Convenzione). Questo è esattamente quanto proclamò l’Assemblea generale dell’Onu il 10 novembre 1975: «Il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale» (risoluzione 3379) [4]. Questo testo fu abrogato solo per facilitare la Conferenza di pace di Madrid del 1991 [5]. Tuttavia, non avendo Israele adempiuto agli impegni assunti all’epoca, anzi avendo esacerbato le sue politiche e le sue pratiche, questo testo dovrebbe essere ripristinato.
La Corte ha anche osservato (paragrafo 263) che «gli Accordi di Oslo non autorizzano Israele ad annettere parti dei Territori palestinesi occupati per soddisfare le proprie esigenze nonché gli obblighi in materia di sicurezza. Né lo autorizzano a mantenere allo stesso scopo una presenza permanente nei Territori palestinesi occupati». Ciò che era vero a luglio è ancor più vero ora che la Palestina è uno Stato sovrano, riconosciuto a livello internazionale.
Di conseguenza, la settimana scorsa ossia dopo questa decisione e prima che la Palestina entrasse a far parte dell’Assemblea generale le Forze di difesa israeliane (FDI) hanno improvvisamente evacuato le principali città della Cisgiordania che avevano occupato. Il 12 settembre il governo israeliano ha per contro dichiarato che non c’è ragione di aumentare gli aiuti umanitari a Gaza, poiché Israele non controlla questo territorio e quindi non vi ha alcuna responsabilità.
Ciò premesso, la Corte ha concluso che «Israele ha l’obbligo di risarcire pienamente i danni causati dai suoi atti internazionalmente illeciti [l’occupazione e l’apartheid] a ogni persona fisica o giuridica interessata» (paragrafo 269). Questo implica «l’obbligo per Israele di restituire terra e altre proprietà immobiliari, nonché tutti i beni confiscati, a qualsiasi persona fisica o giuridica dall’inizio dell’occupazione del 1967, e tutti i beni e gli edifici culturali sottratti ai palestinesi e alle loro istituzioni, compresi gli archivi e i documenti. Esige inoltre che tutti i coloni degli insediamenti esistenti siano evacuati, che le parti del muro costruito da Israele situate nei Territori palestinesi occupati siano smantellate e che tutti i palestinesi sfollati durante l’occupazione possano tornare al luogo di residenza originario» (paragrafo 270).
Si noti che la Corte non ha ordinato il risarcimento dei danni causati prima del 1967. Non era questo il quesito posto dall’Assemblea generale. Inoltre le armi hanno parlato e i palestinesi hanno perso diverse operazioni militari di cui devono sopportare le conseguenze. I torti sono da entrambe le parti, sebbene sia evidente che i danni subiti dai palestinesi sono sproporzionati rispetto a quelli subiti dagli israeliani.
La Corte si è pronunciata sulle conseguenze dell’occupazione dal 1967. Le sue decisioni non sono retroattive. Essa però prende atto che i danni hanno continuato ad aggravarsi dal 1967.
Rivolgendosi a tutti gli Stati membri delle Nazioni unite, la Corte ha notificato loro che «hanno l’obbligo di non riconoscere alcun cambiamento nel carattere fisico o nella composizione demografica, nella struttura istituzionale o nello status dei territori occupati da Israele il 5 giugno 1967, compresa Gerusalemme Est, se non quelli concordati con le parti attraverso negoziati, nonché di distinguere, nelle relazioni con Israele, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967. La Corte ritiene che nelle relazioni con Israele l’obbligo di distinguere tra il territorio proprio di tale Stato e i Territori occupati comprenda tra l’altro l’obbligo di non intrattenere relazioni convenzionali con Israele in tutti i casi in cui quest’ultimo pretenda di agire in nome dei Territori palestinesi occupati o di una parte di essi in questioni riguardanti tali territori; di non intrattenere, in ciò che concerne i Territori palestinesi occupati o parte di essi, relazioni economiche o commerciali con Israele, che fossero di natura tale da rafforzare la presenza illecita di Israele in questi territori; nello stabilire e mantenere missioni diplomatiche in Israele, devono astenersi dal riconoscere in qualsiasi modo la presenza illegale di quest’ultimo nei Territori palestinesi occupati; nonché dall’adottare misure per impedire il commercio o gli investimenti che contribuiscano al mantenimento della situazione illegale creata da Israele nei Territori palestinesi occupati» (paragrafo 278).
Per questo motivo, il 9 settembre Volker Turk, alto commissario delle Nazioni unite per i Diritti umani, aprendo la 57^ sessione del Consiglio per i Diritti umani, ha dichiarato: «Nessuno Stato deve accettare la flagrante inosservanza del diritto internazionale, nonché delle decisioni vincolanti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e le ordinanze della Corte internazionale di giustizia, in questa situazione [l’occupazione israeliana della Palestina] o in qualsiasi altra».
Ognuno di noi deve esserne consapevole: le regole sono cambiate. L’occupazione dello Stato di Palestina da parte di Israele è illegale. Dal 10 settembre questo Stato è riconosciuto a livello internazionale, anche se diversi membri del Consiglio di sicurezza non lo hanno fatto a titolo personale. Ora lo Stato di Palestina dispone dei mezzi legali che gli mancavano. L’ombrello anglosassone dietro cui Tel Aviv si ripara non esiste più a livello giuridico. Stiamo entrando in un nuovo periodo in cui Washington e Londra dovranno usare la forza per mantenere questo sistema di oppressione.
Questa rivoluzione giuridica segna una vittoria per la strategia del presidente Mahmoud Abbas (89 anni). Paradossalmente arriva alla fine della sua vita, proprio in un momento in cui il suo governo è screditato dalla collaborazione con Israele e dalla corruzione.
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