sabato 23 giugno 2018

ROBERTO PECCHIOLI - SONO ITALIANO PARLO ITALIANO...


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di Roberto PECCHIOLI

Gli esami di maturità sono iniziati con la prova di italiano. C’è da chiedersi per quanti anni ancora verrà richiesto agli studenti di dimostrare padronanza di lingua e pensiero in italiano. Nei mesi scorsi, le scuole hanno indetto l’open day per mostrarsi a genitori e cittadini; ogni mattino ci misuriamo con lo spread, intere leggi dello Stato hanno nomi anglofoni, jobs act, fiscal compact, il famigerato bail in. Persino lo sport ci parla di Champions League e, per i forzati della televisione, all’ora di pranzo trasmettono il lunch match. Ci asteniamo da ulteriori esempi per non irritare i lettori.
Segnaliamo tuttavia il gravissimo pericolo di estinzione che corre la nostra lingua, aggredita dal globish, l’inglese elementare tecno-finanziario. Non molti italiani sanno che in alcune università pubbliche – pagate con il denaro dei contribuenti italiani- diversi corsi di materie economiche sono tenuti in lingua inglese. Del pari, la nostra lingua non è costituzionalmente indicata come idioma ufficiale del popolo italiano, a differenza delle minoranze linguistiche autoctone, cui è giustamente accordata tutela giuridica. Scriveva Joseph De Maistre che non si deve mai perdere di vista la lingua, vero barometro le cui variazioni annunciano infallibilmente il buono e il cattivo tempo. Se il grande savoiardo aveva ragione, la tempesta è in corso....

Per dare un giudizio, occorre risalire alle cause dell’imbarbarimento dell’italiano. Esiste una ragione interna, importante ma minore, legata al disinteresse degli italiani per ciò che è loro, la preferenza istintivamente assegnata a ciò che viene da fuori. E’ il segno più sicuro del provincialismo: disprezzare il proprio per innalzare l’altrui. In più, sembra che “faccia fino” chiamare le cose con nomi astrusi, a cominciare dalle notizie del giorno diventate news e dal fastidio per l’oppressione fiscale, a cui reagiamo organizzando il no tax day.
Ma la ragione più profonda, grave ed allarmante della crisi della nostra lingua (e di molte altre, invero) è l’avanzata impetuosa della globalizzazione che ha investito le coscienze, che ha generato un nuovo vocabolario semplificato, una lingua franca ben lontana dall’inglese di Shakespeare o dei grandi romanzieri, destinata ad essere “un grigio mezzo di scambio linguistico tecnicizzato che sempre più si limita a raddoppiare lo scambio economico […] americanocentrico. La globalizzazione rivela la sua essenza di anglobalizzazione” (Diego Fusaro).
La lingua naturale è chiamata presso ogni popolo “lingua madre” per i suoi intimi rapporti con l’identità, l’appartenenza, il legame con il tempo e lo spazio. E’ madre perché ce l’ha insegnata chi ci ha messo al mondo in uno spazio concreto chiamato patria, terra dei padri. Già a partire dalle parole, sorge un legame con la filiazione, l’appartenenza, la continuità, l’identificazione in un Sé comunitario. Nella lingua tedesca il termine patria si rende in due modi diversi: heimat, femminile, che richiama la casa (heim) e Vaterland, neutro, terra del padre.
La neutralizzazione del mondialismo attacca con furia ogni radice, destruttura l’idea stessa di madre, legalizzando pratiche come l’utero in affitto. L’idea di padre, espiantata, non pervenuta. Contemporaneamente, svaluta anche la filiazione. Anziché persone radicate in una famiglia all’interno di una comunità, emerge l’inedita figura di individui generati “tecnicamente”, destinati unicamente al ruolo di consumatori, essi stessi merci senza radici, deprivati di identità. Migranti nello spazio, atomi nel tempo, uomini dimidiati nell’identità anche linguistica. Nella corsa all’identico, si impone il grugnito globale pronunciato in una parlata meticcia e liquida come il resto della società, lo pseudo inglese globale, globish.
Non ci addentriamo nell’analisi di langue (la struttura di un idioma) e parole, l’uso concreto che ne fa ciascun parlante. Ci basta rammentare un vocabolo della psicanalisi di Freud, unheimlich, tradotto come “il perturbante”, ma che indica letteralmente ciò che non è “di casa”, è estraneo e perturba in quanto spezza i confini, manda in frantumi le nostre credenze più radicate, sfregia il paesaggio dell’anima, rimuove tutto ciò che ci era familiare, materialmente e spiritualmente.
Le parole definitive del legame indissolubile tra lingua, identità, vita le pronunciò Hegel: “è proprio della più alta cultura di un popolo il poter esprimere tutto nella propria lingua. I concetti che noi esprimiamo con parole straniere sembrano avere per noi qualcosa di estraneo, che non cu appartiene propriamente e immediatamente.” Gli italiani del primo scorcio del XXI secolo non sanno più esprimere nella loro lingua le porte aperte della scuola (open day), il desiderio di meno tasse (no tax day), non pagano più le prestazioni sanitarie, ma corrispondono il ticket!
C’è qualcosa di malsano allorché non si sa più dire qualcosa se non fuoriuscendo da se stessi. Si chiamano alienazione e estraneazione, abbiamo fatto in tempo a tradurre dal tedesco di Karl Marx Entfremdung e Entausserung. Senza lingua madre, siamo migranti dell’anima. Migranti, cioè provvisori, in transito, neppure immigrati, ovvero stabilizzati in un luogo e in sistema. Il mondialismo pretende, quindi costruisce masse amorfe a propria immagine e somiglianza. Nessuna patria, nessuna idea precisa né, tanto meno, le parole per esprimerla, ma una poltiglia linguistica di cui l’inglese non è che il veicolo strumentale.
George Orwell intuì perfettamente l’enorme portata della ri-costruzione linguistica. Cambiare i significati, mutare gli stessi suoni, alla lunga rende afasici. Sfuggono le parole adatte a esprimere i concetti, specie quelli non adattivi, antagonisti, forieri di ribellione. Un esempio: il salvataggio delle banche insolventi a carico dei depositanti è noto come “bail in “, espressione che significa cauzione, garanzia interna. Se identificassimo questa vergognosa procedura nella nostra lingua, forse ci chiederemmo il senso ultimo dei termini garanzia, cauzione, interno, e ci indigneremmo.
Sotto il velo delle parole nuove, oscure, provenienti da un mondo arcano presentato come “superiore” passano le peggiori cose, ma il saggio deve osservare la luna, non il dito che la indica. Il nuovo ordine mondiale favorisce, impone l’abbandono delle culture vernacolari, nazionali, affinché si imponga lo stolido apolide prescritto dal Padrone globale. Sul piano individuale, ci tolgono padre e madre, ovvero coloro che ci hanno accolti nel mondo; sul piano collettivo, ci espropriamo dei mezzi per esprimere i nostri sentimenti.
Dare un nome alle cose è sempre stato il gesto costitutivo della civiltà degli uomini. Ne parla il Genesi (2;20): così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici”. Il Corano, nel versetto 32 della Sura della Vacca, afferma che fu Allah ad insegnare agli uomini i nomi delle cose. Le parole, dunque, non sono neutre, e ciascun uomo ha un rapporto personale con suoni, risvolti, significati della sua lingua madre. Per quanta cultura possieda un uomo, non sa manifestare un sentimento, pronunciare una frase d’amore meglio che nella lingua madre, quella che sgorga dalle labbra perché appresa dai genitori, dai fratelli, dall’ambiente circostante.
L’inglese globish non è affatto un arricchimento, ma una capitolazione, la rinuncia a se stessi in cambio di niente. Ci impongono una vita orizzontale, un singolare al posto dei mille plurali delle varie culture. Il capitale fattosi dominio non vuole, prescrive il medesimo, l’identico, ciò che riproduce la lingua unica del Mercato, del Consumo, dell’Economia, della Tecnica. Lo Stato nazionale aveva nazionalizzato le masse. L’attuale globalizzazione ci vuole meno che nomadi: migranti della vita, della cultura, della lingua. Ha inventato strumenti appositi, tipo il programma Erasmus che indottrina allo sradicamento, allena a diventare homines instabiles.
Una delle operazioni indispensabili per la riuscita di questa colossale ingegneria antisociale è estirpare la lingua madre, sostituirla con una neolingua elementare e tecnica, asimbolica e nello stesso tempo liturgica, una sorta di nuovo rito senza mito che produca l’espianto delle identità culturali, dei patrimoni simbolici, dell’universo valoriale di cui una lingua è pilastro. Da colonne a cariatidi, affinché si diffonda la comunicazione in un pidgin costruito a tavolino. Il pidgin è lo strumento linguistico delle popolazioni confinarie per costruire un codice comune di significati. Sempre, è stato solo un mezzo, un utile meccanismo per favorire i commerci e la comunicazione corrente. Mai ha preteso di sostituire la lingua madre, distruggere o vietare la quale è un crimine contro l’umanità.
L’Italia è particolarmente esposta al rischio di veder disseccato il grande patrimonio culturale della sua lingua per i motivi citati e, diciamolo, per la natura servile, traditrice delle sue sedicenti élites. La rivolta, anche in termini d’amore per l’italiano, non può che venire dal popolo. Esiste un’oasi che impressiona gli ultimi cultori del più antico degli idiomi moderni, la lettura della stampa delle aree italofone esterne alla repubblica, il canton Ticino svizzero, l’eroica minoranza connazionale superstite dell’Istria e di Fiume. In quei testi l’italiano è curato, il lessico appropriato, scarseggiano le parole inglesi che inondano i nostri giornaloni e giornaletti, gli articolisti cercano di esprimere in buon italiano ogni concetto, segno di un amore per l’identità assai meno diffuso nella madrepatria. L’Italia non è moda, sole, pizza, amore, la Ferrari e i ruderi degli antenati, è soprattutto, la nostra ricca, meravigliosa lingua.
Sono italiano, parlo italiano. Vorrei che gli italiani restassero “le genti del bel paese là dove ‘l sì suona”. La definizione di un’identità in un endecasillabo perfetto. Yes, Dante, of course.


ROBERTO PECCHIOLI

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