venerdì 2 dicembre 2016

La lingua usata da tutti (e un consulente stilistico): ecco com’è stata scritta la Carta




na delle poche battaglie perse dalla Democrazia cristiana durante l’anno e mezzo 
di lavoro che portò l’assemblea costituente a discutere e approvare la nostra carta fondamentale aveva la firma di Giorgio La Pira. Il cattolicissimo futuro sindaco di
 Firenze voleva che in un preambolo della Costituzione, sull’esempio americano,
 venisse invocato il nome di Dio. Mancavano pochi giorni al Natale 1947. La proposta
 di La Pira non passò e l’assemblea, che si era insediata il 25 giugno dell’anno
 precedente, dopo diciotto mesi di lavoro si affrettò ad approvare — il 22 dicembre,
 a larghissima maggioranza (453 voti a favore e 62 contrari) — la Costituzione, che fu promulgata il 27 dicembre ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948.

Un testo accessibile a tutti....

Alcuni estimatori di quel testo sono arrivati a dire che è «la Costituzione più bella
 del mondo». Un giudizio su cui concordano anche i fautori della revisione,
soprattutto per quanto riguarda la prima parte, quella sui principi e sui diritti e 
doveri dei cittadini. C’è poi una bellezza della nostra Costituzione insita nel testo. 
Un testo semplice, scritto in un linguaggio accessibile a tutti, così riassunto dallo 
storico della lingua Tullio De Mauro: «Il testo della Costituzione italiana è lungo 
9369 parole. Esse sono le repliche, le occorrenze di 1357 lemmi. Di questi 1002 appartengono al vocabolario di base italiano». Ogni frase, con una media di 19,6
 parole, contro le 120-180 di cui solitamente si compongono i periodi dei nostri
 legislatori, doveva essere capita anche da quel 59,2 per cento di cittadini ultraquattordicenni analfabeti dell’immediato dopoguerra. Il testo — prima di
 passare all’approvazione e alla discussione dell’assemblea Costituente, composta
 da 556 parlamentari, di cui 207 dc, 115 socialisti, 104 comunisti, 41 dell’Unione democratica nazionale (liberali), 30 del Fronte dell’Uomo qualunque, 23 
repubblicani — venne elaborato da una Commissione ristretta. La cosiddetta
 Commissione dei 75 presieduta dal giurista liberale Meuccio Ruini. Venne assunto 
anche un consulente linguistico, il critico letterario del «Corriere della sera», 
Pietro Pancrazi, per correggere alcuni vizi di forma e dare maggiore eleganza agli 
articoli.

Figlia della Resistenza

È stato scritto che la nostra Costituzione è figlia della Resistenza e rispecchia i 
valori delle tre grandi anime politiche: la cattolica, la marxista e la liberale. Sono
 due affermazioni veritiere. In particolare già dall’articolo 1, dovuto a una trovata
 di Amintore Fanfani, si vede il compromesso tra visione cattolico-sociale e visione socialista, laddove si dice che «l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
 lavoro» e non una «Repubblica dei lavoratori», come chiedevano i comunisti. Le
 istanze marxiste si vedono soprattutto negli articoli che danno un indirizzo sociale 
alla conduzione dell’economia, mentre quelli liberali nelle parti riguardanti le 
libertà
 di espressione e i diritti dell’individuo, quelle cattoliche infine negli articoli sulla
 scuola, la famiglia, oltre che nel clamoroso inserimento dentro la nostra
 Costituzione dei Patti lateranensi, con il determinante contributo dei voti comunisti.
 Una scelta voluta da Palmiro Togliatti, tesa a non allontanare dal Pci l’elettorato
 cattolico, che spiazzò liberali, azionisti e socialisti, come aveva già fatto del resto
 nel marzo 1944 con il riconoscimento del governo Badoglio, la cosiddetta «svolta di Salerno».
25 giugno 1946, la seduta inaugurale dell'Assemblea Costituente: a presiederla - in qualità di decano - il liberale Vittorio
 Emanuele Orlando (Ansa)

La discussione sul Senato

La seconda sottocommissione della Commissione dei 75, che lavorò sino  al 31 
gennaio 1947 per consegnare all’aula un testo completo, si occupò del  problema 
della formazione del Parlamento. La prima domanda era se dovesse trattarsi di 
un Parlamento monocamerale o bicamerale. La seconda questione, come scrisse il 
giurista repubblicano Tomaso Perassi («Il nuovo Corriere della sera», 17 gennaio
 1947), riguardava le caratteristiche della seconda camera, o Senato. Si optò per
 una rappresentanza su base regionale, bocciando le proposte che venivano da una parte della Dc, di una rappresentanza regionale ma per categorie professionali e sociali. Queste ricordavano troppo le Corporazioni fasciste, sicché l’idea venne abbandonata. Vinse il principio di un bicameralismo lento, ma che desse maggiori garanzie: secondo Perassi, la bontà di una legge non dipende «dalla celerità con la quale è fatta».
1947: il presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini con la moglie Maria Laura

Articolo 7: così lo Stato laico «sposò» la Chiesa

Sul «Nuovo Corriere della sera» del 26 marzo 1947 un lungo articolo siglato S. N., le
 iniziali del capo della redazione romana, l’instancabile Silvio Negro, dava notizia che
 alle ore piccole, passata l’una di notte, «a grande maggioranza» era stato approvato l’articolo sui Patti lateranensi. Il famoso articolo 7 che inserì nella nostra Costituzione
 i patti stipulati nel febbraio 1929 tra il Vaticano e lo Stato fascista. Votarono in 499, 
350 a favore, 149 contro. Significativo il voto a favore dei comunisti, deciso da Palmiro Togliatti, dopo un’intensa settimana di dialogo con il Vaticano attraverso la mediazione
 di don Giuseppe De Luca. Sempre quel 26 marzo, mentre il «Corriere» titolava in 
maniera neutra «Un laborioso varo alla Costituente – Approvazione a grande maggioranza dell’articolo sui Patti lateranensi», il leader socialista Pietro Nenni scriveva nel suo
 diario: «È cinismo applicato alla politica. Ma non è il cinismo degli scettici, ma di 
chi ha un obiettivo. È la svolta di Salerno che continua, applicata questa volta alla 
Chiesa e ai cattolici». Il patriarca dei liberali, Benedetto Croce, votò contro, come 
tenne a chiarire in un articolo sul «Corriere» del 29 aprile 1947. Votarono «no» alcuni comunisti, Concetto Marchesi e Teresa Noce.

Niente matrimonio, ma matrimonio non indissolubile

Tra i temi maggiormente dibattuti alla Costituente quelli riguardanti la famiglia, su
 cui le opinioni andavano dalle più retrive di alcuni qualunquisti (Rodi, per esempio)
 contrari alla parità tra i coniugi, a quelle avanzate di esponenti azionisti come il 
giurista Piero Calamandrei, il quale si batteva contro la indissolubilità del matrimonio. 
Sulla prima pagina del «Corriere» del 18 aprile 1947 le varie posizioni erano brevemente
 ma efficacemente riassunte. Sembrava che l’alleanza tra cattolici e conservatori 
dovesse far passare anche il principio dell’indissolubilità del matrimonio, ma alcune
 assenze significative durante il voto, nella notte tra il 26 e il 27 aprile, fecero sì che il principio di indissolubilità venisse bocciato. Ciò non significava, come spiegò prontamente sul «Corriere» Silvio Negro in un articolo del 27 aprile che era stato approvato il divorzio. Per l’introduzione del divorzio nel nostro ordinamento bisognò aspettare sino al 1970. Per l’approvazione della legge Fortuna non bisognò ritoccare la Costituzione per via di quelle assenze dei costituenti cattolici che avevano impedito di approvare il principio di indissolubilità.
Una seduta dell'Assemblea presieduta da Giuseppe Saragat (ph. Rcs Periodici/Armando Bruni)

Libera scuola in libero Stato

Un altro dei tempi caldi (e caro al partito cattolico) era quello dell’istruzione scolastica e della parità tra istituti statali e privati (leggi, cattolici). Una battaglia vinta, di cui si ha evidenza nell’articolo 33 del titolo II del Costituzione. Nello stesso articolo di prescrive l’ordine di un esame di Stato «per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi o per l’abilitazione all’esercizio professionale». Una norma che diede lo spunto al Luigi Einaudi per un brillante editoriale pubblicato dal «Corriere» dell’11 maggio 1947 e intitolato «Libertà della scuola e vanità dei titoli». In esso il grande economista liberale esponeva le sue idee contrarie al valore legale del titolo di studio: «L’articolo consacra il pregiudizio del certificato del diploma, del titolo non in quanto sia testimonianza di studi compiuti e di profitti conseguiti, ma attestazione del valore giuridico di certi pezzi di carta. Qui è l’equivoco grossolano…».

Stato e Regioni

«A tredici mesi dall’inizio della sua attività», scriveva sul «Corriere» del 29 luglio 1947 il giurista Giovanni Battista Boeri in un editoriale intitolato «Tempo di arresto», «l’Assemblea costituente ha esaurito la trattazione di una delle parti principali del suo lavoro: quella relativa alle regioni….La Assemblea ha imposto un arresto alla crescente tendenza accentratrice tanto più pericolosa in uno Stato come il nostro, , in cui il progressivo svilimento dell’autorità pretende di compensarsi con un insistente accrescimento dei poteri: ha affidato alle regioni limitate ma precise facoltà…». Peccato che per l’attuazione delle Regioni da quel luglio 1947 bisognò attendere 23 anni, sino al 1970.

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