PS: «Quelli
che, come i grillini, mi accusano di volere un’amnistia pro-Berlusconi
sono persone che fanno pensare a una sola cosa, hanno un pensiero fisso e
se ne fregano dei problemi della gente e del Paese. E non sanno quale
tragedia sia quelle carceri. Non ho altro da aggiungere».
...condivido, presidente, tutto! Il più delle volte certe critiche al Presidente mi hanno trovato d'accordo e molte altre mi vedrà d'accordo, ma io non intendo offendere e tanto meno deridere nessuno, ne che si chiami Grillo, ne che si chiami Napolitano e ne che si chiami Berlusconi. Non si può pensare solo ad un persona in Italia....siamo più di 60 milioni!
umberto marabese
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FONTE: http://www.beppegrillo.it/2013/10/impeachment_a_napolitano.html
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"«Il precipitare della grave questione
costituita dai comportamenti sempre più abnormi e inquietanti del
Presidente della Repubblica non è che l’ ultimo anello della spirale
involutiva che sta stringendo il Paese». Così scriveva nel 1991 Giorgio Napolitano, in occasione della richiesta di impeachment
contro l’allora Presidente della Repubblica Cossiga. Certo Napolitano,
prudentemente, storceva il naso di fronte alla messa in stato d’accusa:
eppure non esitava a domandare le dimissioni del Capo dello Stato,
notando come «si è totalmente smarrito il senso della misura al Quirinale» (G. Napolitano, Tutto quello che penso sul “caso Quirinale”, in «La Repubblica», 29 novembre 1991). Chissà se Napolitano si ricorda ancora delle sue parole. Che ne è, oggi, del «senso della misura al Quirinale»? Le recenti dichiarazioni di Re Giorgio segnano un punto di non ritorno. La richiesta di amnistia e indulto è stata chiara: «un
indulto di sufficiente ampiezza, ad esempio pari a tre anni di
reclusione, e una amnistia avente ad oggetto fattispecie di non
rilevante gravità». Nessuno mette in dubbio che la «condizione delle carceri» in questo Paese sia degradante, infamante. Né che un immediato intervento sulla «drammatica»
situazione carceraria costituisca un imperativo giuridico e morale.
Pure, è innegabile che l’effetto politico dei provvedimenti auspicati
non sarebbe che uno: salvare il Caimano.......
Un conto, infatti, sono le
retoriche e le ideologie (umanitarismo, diritti, condizione degli
stranieri, etc.) che servono a giustificare la concessione di amnistia e
indulto; un altro, sono le conseguenze politiche che
da questi provvedimenti derivano. Ed è un fatto oggettivo che, in
questo momento, tutto ciò servirebbe a far tornare sulla scena il
Caimano. Tutto questo il Capo dello Stato non lo sa? L’«imperativo» sarà pure giuridico o morale, ma il «condizionale» (che qui è d’obbligo) è certo politico. Il M5S lo ha detto chiaramente, e la risposta di Napolitano non è stata delle più pacate, come ci si attenderebbe dal rappresentante dell’unità nazionale: «Quelli
che, come i grillini, mi accusano di volere un’amnistia pro-Berlusconi
sono persone che fanno pensare a una sola cosa, hanno un pensiero fisso e
se ne fregano dei problemi della gente e del Paese. E non sanno quale
tragedia sia quelle carceri. Non ho altro da aggiungere». Ed invece vi sarebbe molto da aggiungere. La replica di Napolitano, anzitutto, è faziosa.
Forse il Capo dello Stato non sa che a questione carceraria è uno dei
temi di più intensa riflessione all’interno del M5S? Forse non conosce
il «piano carceri» più volte presentato dal MoVimento 5 Stelle
e già consegnato al ministro Cancellieri il 5 agosto scorso, senza
neppure ottenere una risposta? Va da sé che la stampa di questo Paese
vada dietro alle “sviste” del Presidente della Repubblica: «misera,
nonché miserabile, reazione di Grillo, che ne ha parlato come di un
salvacondotto per Berlusconi, incurante delle condizioni inaccettabili
in cui versano i detenuti», si leggeva ieri sulle pagine de La
Stampa. Ma vi è di più. Può il Capo dello Stato entrare in lite con la
prima forza politica del Paese? Quale diritto ha il Capo dello Stato, il
«garante della Costituzione», attaccare esplicitamente
l’opposizione parlamentare per aver questa criticato gli effetti
politici che deriverebbero da una legge approvata dal Parlamento?
Scriveva il costituzionalista Manzella, a proposito del “caso” Cossiga: il Presidente della Repubblica «rappresenta
l' unità nazionale. Nella formula costituzionale le parole sono
semplici, ma pesano come pietre. Esse significano che il Presidente
smette di fare il Presidente quando diventa rappresentante di disunità.
Un presidente "in lite" può avere torto o ragione. Ma il fatto è che non
deve essere in lite» (A. Manzella, Sul Colle ci vuole un uomo di pace, in «La Repubblica» 14 dicembre 1991). Non è la prima volta che Napolitano attacca esplicitamente una parte politica, difendendo la «partitocrazia»
e le sue alleanza. Napolitano è stato, dapprima, sarcastico,
inopportunamente sarcastico, contro il M5S, con quel suo ormai celebre «di boom ricordo solo quello degli anni Sessanta in Italia, altri boom non ne vedo».
I suoi interventi, con il tempo, si sono fatti sempre più espliciti.
Napolitano si è servito del potere di esternazione come strumento di
direzione politica, di intervento negli equilibri politici, di attacco
contro il M5S, prima forza d’opposizione all’interno del Parlamento e
unica reale minoranza parlamentare i cui diritti dovrebbe essere
tutelati e garantiti proprio dal Capo dello Stato. Napolitano si è
servito dei poteri previsti dalla Costituzione non per difendere la
legalità costituzionale, ma a fini politici: difendere a tutti i costi
le «larghe intese» tra PDL e PD-L, assicurare la stabilità
parlamentare al Governo Letta, impedire lo scioglimento anticipato delle
Camere e nuove elezioni. La sua stessa rielezione, del tutto atipica, è
stata una consegna del potere di determinare l’ indirizzo politico del
Paese nelle sue mani (“accetteremo ogni tua condizione, a patto che tu rimanga”).
Come si può sostenere che il Governo Letta sia un governo parlamentare
quando il voto di fiducia delle Camere ha funzionato come mera ratifica a
posteriori di una decisione presa direttamente e sostanzialmente dal
Presidente della Repubblica? Il Governo Letta non è neppure più, come
quello di Mario Monti, un «governo presidenziale» (ossia voluto dal Presidente): è il Governo diretto dal Presidente,
ossia il Governo a capo del quale c’è, seppur per interposta persona,
Napolitano. E che dire, poi, della continua minaccia di dimissioni in
caso di crisi del Governo, della nomina dei quattro senatori a vita,
della esplicita difesa dell’operato politico di Ministri (come Alfano,
nel “caso kazako”), dei richiami contro la cosiddetta «magistratura politicizzata»,
della nomina di Amato a giudice della Corte Costituzionale? Dimissioni,
esternazioni, poteri di nomina: sono tutte prerogative del Capo dello
Stato, certamente. Eppure esse si giustificano solo quando vengono
adottate in conformità ai compiti ed ai poteri che la Costituzione
attribuisce al Capo dello Stato. Esse non possono, invece, essere
utilizzate dal Presidente per scopi politici estranei alle sue
prerogative ed ai suoi poteri. Il Capo dello Stato – potere “neutro”, garante super parte della Costituzione – non può servirsi delle proprie prerogative
per determinare la politica del Paese, incidere sulla formazione del
Governo, impedire lo scioglimento delle Camere. Dall’attacco degli
scorsi giorni contro il M5S, è ormai evidente che questo Presidente
della Repubblica non rappresenti più l’unità della Nazione, ma soltanto
una parte del Paese: quella che ha voluto le “larghe intese” della partitocrazia, quella che cercherà, con tutti i mezzi a sua disposizione, di salvare ancora il Caimano. Che fare? L’ «ora è scoccata», scriveva Norberto Bobbio contro Cossiga, ancora in quel novembre 1991. Sino a quando, dunque, si chiedeva ancora Bobbio? «Siamo in molti a domandarci se l’ora non sia ormai già scoccata».
Che fare? Per i reati di attentato alla Costituzione e di alto
tradimento commessi dal Presidente della Repubblica, la Costituzione
prevede soltanto la messa in stato d’accusa, deliberata dal Parlamento e
giudicata dalla Corte costituzionale. Vi sono perlomeno due obiezioni.
L’una, di tipo giuridico: era, questa, l’obiezione che Napolitano faceva
allora alla richiesta di l’impeachment. Questione «assai controversa sul piano della sostenibilità giuridica»,
dichiarava. Certo è difficile capire come la Consulta (di oggi è
giudice Giuliano Amato, tanto per ricordare) potrebbe giudicare la messa
in stato d’accusa. L’altra obiezione è di tipo politico: il senso
politico della messa in stato d’accusa (al di là delle eventuali
sanzioni penali, e quindi delle conseguenze giuridiche) sarebbe quello
di costringere il Capo dello Stato alle dimissioni. E,
nel nostro caso, ciò avrebbe l’effetto di ritardare ulteriormente nuove
elezioni (in quanto – per indire nuove elezioni – sarebbe necessario
eleggere il nuovo Presidente). Eppure si tratta, a ben vedere, di due
obiezioni che non colgono il punto. Costringere Napolitano alle dimissioni
– se pure tecnicamente ritarderebbe i tempi per nuove elezioni –
rappresenterebbe un atto politico fondamentale: significherebbe la
sconfitta delle larghe intese PDL – PD-L, della farsa che ha visto, come
ha ricordato Grillo, «l’entusiasmo e il sorriso di Berlusconi, i suoi applausi felici alla nomina di Napolitano alla Camera». E poi la messa in stato d’accusa avrebbe un valore simbolico e politico ben più alto di quello di un semplice procedimento “giudiziario”. Scriveva Umberto Eco: «Il
cosiddetto impeachment non costituisce necessariamente, come la parola
potrebbe far ingenuamente supporre, una forma di condanna.
Semplicemente, di fronte all’accusa che il Presidente abbia ecceduto
nell’ esercizio dei suoi poteri, il Parlamento si riunisce per discutere
se questo sia vero o no, e - come tutti i tribunali - può decidere che
il fatto non sussiste. Ma, nell’interpretare gli articoli della
Costituzione che definiscono i poteri del Presidente, fa qualcosa che va
molto al di là del caso singolo […] Prima ancora di giudicare […], il
Parlamento deve rileggere la Costituzione ad alta voce e di fronte al
Paese» (U. Eco, Va in onda dal Colle il quinto potere, in «La
Repubblica», 22 dicembre 1991). È questo il senso politico della messa
in stato d’accusa: il Parlamento – in quanto rappresentante della
nazione – più che giudicare come un Tribunale ricostruisce la verità dei
fatti, rilegge la Costituzione ad alta voce, dichiara di fronte al
Paese ciò che pensa sull’operato del Capo dello Stato. Non si può
pensare la messa in stato d’accusa in termini puramente giuridici, come
un procedimento giudiziario. La controversia giuridica è una cosa, la
necessità politica è un’altra. Che Napolitano abbia violato o meno una
norma giuridica, certo è che egli ha esercitato le sue prerogative al di là dei limiti previsti dalla Costituzione,
ha snaturato il senso politico e morale della figura del Capo dello
Stato. L’impeachment è, allora, il momento in cui il Parlamento valuta
la condotta del Re: sulla base della Costituzione lo accusa, lo giudica e
lo condanna politicamente. Per questo la messa in stato d’accusa ha un valore indipendentemente
dal giudizio che, su di essa, darà poi la Corte Costituzionale. Essa
rappresenta, infatti, il momento in cui il Parlamento, in quanto unico
organo che è espressione diretta del popolo, si fa lui stesso garante
della Costituzione, in cui è chiamato a leggere ed applicare la
Costituzione contro il Re che l’ha usurpata. Questa è dunque
l’occasione, per il Parlamento, di prendere finalmente coscienza di
quanto accaduto nel corso di questi ultimi mesi. E di accusare il Capo
dello Stato, di fronte al popolo, di aver violato la Costituzione in
nome della quale egli ha sempre dichiarato di agire." Paolo Becchi
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