PS: Fosco Giannini ci dimostra come l'UE è solo un meccanismo di sfruttamento dei popoli, dei lavoratori e dell'ambiente. Dunque, uscire da questa Unione Europea, è necessario e posibilie.

umberto marabese

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di Fosco Giannini

La verità è quella che appare? Si può essere rivoluzionari senza la teoria e la pratica della “preveggenza”? I comunisti debbono essere rivoluzionari e lavorare per la rivoluzione? Tre domande preliminari per un più vasto dibattito.

Tre domande preliminari: la verità è quella che appare? Si può essere rivoluzionari senza la teoria e la pratica della “preveggenza” e, cioè, senza “navigare” nei flussi carsici delle fasi storiche in cui i comunisti lottano? I comunisti debbono pensare alla rivoluzione e per essa attrezzarsi?

Sono tre domande, con le conseguenti risposte, attorno alle quali intenderemmo organizzare una prima riflessione volta esplicitamente all’apertura di una più vasta discussione sullo “stato delle cose” nell’area dell’Ue e sulla verosimiglianza o meno, in questa stessa area, di condizioni in divenire potenzialmente rivoluzionarie.

Che la verità non sia quella epidermica, quella che appare, è una costatazione ovvia e persino stucchevole, nella sua ovvietà. Ma è ovvia e stucchevole solo se la si formula da una postazione di razionalità. Poiché se formulata da una postazione di “superstizione” (che è quella della stragrande maggioranza, del senso comune di massa, “superstizione”, tanto per acuminare la precisione, che può avere come sinonimo la credenza popolare vana) la verità torna ad essere esattamente quella fenomenica interpretata dai sensi e non quella profonda indagata dalla scienza e auscultata dagli esploratori dei moti carsici: i rivoluzionari, in questo senso “preveggenti”. Come il Lenin de «Lo sviluppo del capitalismo in Russia», una delle sue prime opere, iniziata nel 1896 nel carcere di Pietroburgo e terminata, in cattività, in Siberia, nel villaggio di Sciuscenkoie, un’opera che attraverso l’analisi della realtà prepotentemente in divenire, ma non percettibile dagli “avatar” della “superstizione”, evoca i moti carsici sui quali fondare, dando ad esso plausibilità, il processo di violenta trasformazione sociale e ideologica che avrebbe portato, solo 21 anni dopo, all’assalto al cielo, all’Ottobre rivoluzionario.

Una lunga, possente, operazione condotta, in Occidente, dalla cultura dominante ha invece fatto sì, sul piano del senso comune di massa, che la verità sia proprio quella che appare, una proiezione puramente fenomenologica del reale, una verità, cioè, come prodotto del dato empirico e sensibile e non come interazione con l’essenza delle cose. Questo “strabismo” del senso comune di massa, indotto e costruito ad arte dal potere, produce una concezione di massa volta a “naturalizzare” i grandi apparati, le grandi strutture di potere imperialiste e capitaliste, cosicché è la Nato, ad un certo punto, ad apparire come un evento “naturale” e dunque irreversibile, ed è l’Unione europea ad apparire come un potere sovranazionale destinale, storicamente determinato e, dunque, immodificabile. Rimuovendo violentemente il fatto, invece, che sia la Nato che l’Ue sono “soggetti” transeunti, posti sotto la ghigliottina della storia, cancellabili, dai quali uscire è quindi oggettivamente possibile quanto necessario.

Qual è la verità che appare (attraverso la noncuranza dei moti carsici) al senso comune di massa in relazione all’Unione europea, alla fase storica in cui essa, con i suoi stati e i suoi popoli, è immersa? E’ un quesito dal peso decisivo, poiché capace di situare sotto i riflettori la seconda componente, dopo gli Usa, dell’intero fronte imperialista mondiale. E se questa componente crollasse, su se stessa o sotto i colpi della trasformazione sociale e politica, l’intero quadro planetario subirebbe un’accelerazione del processo rivoluzionario.

L’idea in costituzione, nel senso comune di massa, sull’Ue rievoca la definizione di Hegel sulla natura: “un’idea nella forma dell’essere altro”, un’idea che esce fuori di sé, che subisce un processo di alienazione che la porta ad essere altra cosa da sé. L’idea dell’Ue che il capitale transnazionale europeo trasmette e solidifica nel campo del sensibile privo di essenza, è propriamente quella di Hegel sulla natura: alienazione dal reale. Un inganno che oscura le coscienze dei 320 milioni circa di cittadini dei 27 paesi Ue, che nasconde ad essi i singulti e le crisi sistemiche dell’Ue e al quale inganno non si può che rispondere col metodo di lavoro che Antonio Gramsci indicava già nella primissima pagina dei Quaderni: trasformare la filosofia del senso comune di massa in coscienza di classe. Non abbiamo citato Hegel per accademia: il fatto è che la “speculazione” hegeliana sul concetto di natura è tanto potente, in relazione al rapporto tra estemporaneità e verità, da offrirsi come chiave di lettura di ogni dialettica del divenire, come esegesi stessa dei moti carsici.

Qual è, dunque, “l’idea nella forma dell’essere altro”, che il potere sovranazionale stesso dell’Ue ha impresso nel senso comune di massa dei popoli dei 27 paesi dell’Ue?

Attraverso una lunga, di proporzioni epiche, campagna divulgativa (esattamente così: divulgativa nel suo estremo significato di “facilmente accessibile al senso comune di massa, svuotata di ogni elaborazione politico-storica-filosofica e, dunque, di scarsissimo valore scientifico, ma atta, proprio per tutto ciò, all’inganno di massa) il potere apparentemente collocato a Bruxelles, ma in verità in mano al grande capitale transnazionale europeo, ha fornito all’Ue l’aura di soggetto storico “naturale” e, in quanto tale, eternizzato e inalterabile. Un inganno nel quale, ancor prima che le forze della destra europea (inizialmente immunizzate dalle loro concezioni di sovranità e di stato-nazione), sono cadute le forze della “sinistra” europea, anche quelle “comuniste” dal carattere ormai idealista e non più materialista, cosmopolita e non più internazionalista e antimperialista. Quelle forze “comuniste” che, sottovalutando il titanico peso controrivoluzionario e reazionario generale che giocano, sia sul piano planetario che continentale, le strutture Nato ed Ue, sono pronte a glissare sulle posizioni filo Nato e filo Ue espresse dai partiti e dai movimenti di sinistra se queste stesse forze esprimo poi, sulle questioni sociali (welfare, salario, pensioni) posizioni avanzate. Cadendo nella trappola politico-filosofica della “cosa in sé”, nel senso che quelle forze di sinistra che lasciano correre le questioni della Nato e dell’Ue sarebbero tuttavia buone “in sé”, in virtù delle loro virtuose politiche sociali, dimenticando che la “cosa in sé” non esiste. E che solo Kant tenta di darle, faticosamente, legittimità.

Il progetto scientifico di mitizzazione dell’Unione europea, in Italia e negli altri paesi Ue, si è avvalso sia di uno spazio temporale lunghissimo che di mezzi propagandistici volti all’organizzazione del consenso di massa di inedita e spregiudicata potenza. Dalle liturgie parlamentari ed istituzionali ai testi scolastici, dalla letteratura al cinema, dalla pubblicità all’arte, dalla politica ai media, ogni cassa di risonanza con capacità di propagazione di massa è stata accesa e resa funzionale alla costruzione della mitologia dell’Europa unita, alla trasformazione di un progetto unitario tanto artificioso e avulso dalla dialettica storica quanto feroce e antioperaio nella concreta proposta sociale, un progetto uscito come un coniglio dal cilindro del grande capitale e venduto sul mercato politico ed “esistenziale” come spinta storica destinale e irreversibile: un trucco tratto dalla peggiore tradizione positivista e volto a costruire una trappola attraverso la quale catturare i popoli e le classi lavoratrici: tuttavia una falsa coscienza dalla potenza, per le attuali forze comuniste e antimperialiste europee, rivelatasi inarginabile.

Ai fini della sistematizzazione del “discorso”, e sposando la tesi di Honoré de Balzac secondo la quale l’originalità è un mito della piccola borghesia, mi accingo, per proseguire nell’analisi, a saccheggiare me stesso.

Per gli interessi del movimento operaio complessivo europeo vi è sempre stata l’estrema necessità di smontare il moloch ideologico veterocapitalista e panliberista dell’Ue. Ora che l’Ue è servilmente e palesemente allineata con gli Usa e con la Nato nella guerra contro la Russia e contro l’intero mondo multipolare, ora che essa, perdendo ogni residua autonomia, si è resa consustanziale all’imperialismo nordamericano, tale necessità si fa ancor più stringente ed importante.

Abbiamo un estremo bisogno di decodificare i moti, tanto artificiali quanto malsani, che hanno sovrainteso la costruzione dell’Ue, ciò sia nell’intento di consegnare una coscienza di classe alla vasta area sociale che “dubita” della bontà del progetto storico Ue (che altro è, se non un dubbio di massa e sovranazionale l’ormai vastissimo e oggettivamente sovversivo astensionismo dei popoli alle elezioni europee, un astensionismo che, seppur privo di coscienza di classe, rifiuta, non santificando l’Ue attraverso il voto, non solo l’Ue in quanto tale, ma anche il melenso ideale ultramoderato della sua riforma dall’interno?), che nell’intento di costruire una vasta resistenza di massa al titanico tentativo che porta avanti il potere capitalistico sovranazionale europeo diretto a “razionalizzare” la costruzione dell’Ue, rendendo tale processo un “dato di natura” immodificabile, al quale ci si possa genuflettere, come i primi esemplari del genere “homo” si genuflettevano al fuoco.

Credo si possa strutturare un discorso (o meglio “il discorso”, come categoria politica e filosofica) sull’Ue ponendoci tre domande fondamentali:

– qual è, nell’essenza, la natura politica, storica, ideologica dell’Ue?

– L’Ue è un destino già scritto, storicamente inevitabile o la sua perduranza storica (o il suo fallimento e la sua rimozione dalla storia, “à rebours”) possono dipendere dagli interessi concreti del movimento operaio complessivo europeo, dai popoli e dagli stati dell’Ue? In altre parole: se gli interessi dei lavoratori, dei popoli e degli stati dell’Ue dovessero collidere – come collidono – con la natura dell’Ue, si dovrebbe o no lottare per porre fine all’esperienza storica dell’Ue? Per la stessa conquista della liceità politica e culturale dell’uscita di un paese, di un popolo, di uno Stato dall’Ue?

– Esiste, allo stato delle cose, un’autonomia, un’identità dell’Ue? Esiste un profilo identitario – politico, culturale, ideologico – che possa definire l’Ue come polo autonomo nel contesto euro-asiatico, planetario, geopolitico? L’articolo 5 della Costituzione italiana (relativo all’indivisibilità della Repubblica Italiana) potrebbe essere applicato, senza dubbi alcuni, all’Ue? L’Ue avrebbe la densità storica, politica, culturale per poter essere descritta dall’articolo 5 della Costituzione italiana?

Prima questione, relativa all’essenza politica, storica e ideologica dell’Ue: ci è particolarmente utile, a questo proposito, un articolo sul Mercato Comune Europeo (Mec) apparso su «L’Unità» del 28 luglio 1957 (anno del Trattato di Roma sul Mec). Ricordando che il Pci di quella fase storica italiana fu l’unica forza politica ad opporsi all’integrazione liberista europea e che quella sua posizione di carattere antimperialista “racconta”, anche, della violenta mutazione genetica che sostenne il trapasso dal PCI “togliattiano” di quegli anni ’50 al PCI del “berlinguerismo” maturo (per non parlare dei tristi, successivi e attuali epigoni di destra ultraliberista del partito che fu di Gramsci, Togliatti e Longo); va inoltre rimarcato come, nell’articolo de «L’Unità» citato, emerga un’analisi del Mec che potrebbe oggi essere totalmente utilizzata come griglia di lettura dell’Ue.

Come dire: ciò che è cambiato non è la natura economica, politica e ideologica dei processi di integrazione europei, ma radicalmente cambiata è la natura delle attuali organizzazioni politiche – a partire dal Pd, un vero braccio armato dell’Ue e della Nato in Italia – che pretendono ancora di rappresentare gli interessi dei lavoratori e spacciarsi per forze “di sinistra”.

Scrive, tra l’altro, «L’Unità» del 28 luglio 1957: “Al Mec hanno aderito Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, vale a dire le nazioni della cosiddetta ‘piccola Europa’. Questi sei paesi, attraverso il trattato, si impegnano: a eliminare i dazi doganali e le altre restrizioni riguardanti la circolazione delle merci tra gli aderenti, stabilendo in pari tempo tariffe doganali comuni per gli scambi con i paesi estranei al Mec; a realizzare la libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali nell’ambito dei sei paesi; al coordinamento e all’avvicinamento delle legislazioni nazionali in materia economica; alla creazione di un ‘fondo sociale europeo’ da utilizzare per indennizzare i lavoratori licenziati in seguito alla smobilitazione delle fabbriche che possono essere chiuse in conseguenza del Mec; e infine all’istituzione di una banca europea per effettuare investimenti nei singoli paesi aderenti”.

E’ innanzitutto impressionante come “gli impegni” del Trattato sul Mec ricordati da «L’Unità» del ’57 siano pressoché sovrapponibili, nella loro natura di opzioni iperliberiste spacciate come politiche per lo sviluppo, alle proposte che, per il disegno economico, segnano tanta parte del Trattato di Lisbona, a volte persino attraverso un tessuto semantico quasi identico. Ma mentre verso le proposte – grondanti un sentimentalismo sociale finto socialdemocratico subito deturpato da una costante apologia dell’anarchia del mercato e della liberazione degli spiriti animali capitalistici – contenute nel Trattato di Lisbona, e naturalmente anche nel Trattato che lo precede, quello di Maastricht, va la totale adesione dell’intero arco delle forze politiche parlamentari italiane, così rispondeva, alle stesse proposizioni iperliberiste europee, il Pci del ’57, su «L’Unità»: “L’elemento determinante del Mec è la necessità di rafforzare su un piano politico, oltre che economico, i grandi monopoli occidentali legati con quelli americani. Il Mec insomma è una manifestazione, sul terreno economico, della politica di divisione del mondo in blocchi, che sul piano militare si esprime con la Nato. Di fronte al fallimento dei tentativi di realizzare l’unità politica si è ripiegato sul tentativo di costituire un’unità economica. II promotore europeo del Mec, il ministro degli esteri belga Spaak, ha dichiarato con molta franchezza che il trattato è stato dettato dalla necessita di ‘non farsi risucchiare dal vuoto politico seguito al fallimento della Ced’. Dopo aver dato vita al Mec, Spaak è stato nominato segretario generale della Nato”.

Il Pci del ’57, cioè, riconosce nel Trattato di Roma per il Mec quella subordinazione economica e politica del grande capitale europeo all’imperialismo Usa che portava la stessa Europa del Mec a subordinarsi alla Nato.

Non vi è anche in ciò un elemento totalmente sovrapponibile alle politiche attuali dell’Ue, compresa la sua subordinazione all’attuale Nato? E ciò non vuol forse dire che è la stessa, intrinseca modalità dell’integrazione del grande capitale transnazionale europeo a determinare la natura economica, politica, ideologica neoimperialista dell’Ue?

C’è qualche fatto storico che più di altri disvela la ferocia antisociale insita nel processo di costruzione dell’Ue, come “i fatti di Grecia” che vanno dal 2007/2008 sino ad ora?

La troika europea, in quegli anni, impone ad Atene e ad Alexis Tsipras (tremebondo leader tanto liberista di sinistra quanto parolaio di sinistra cui, inevitabilmentesi innamorano tutti i comunisti radical italiani, la sinistra arcobaleno, i bertinottiani e i postbertinottiani d’Italia) “tre piani” di rientro da quel terribile debito che la Grecia aveva contrattato con la Bce, tre piani di prestiti miliardari che già in partenza sottendevano politiche di lacrime e sangue per il popolo greco, privatizzazioni gigantesche, cinghie strette, vera e ampia distruzione del welfare. Che provocarono, tra l’altro, numerosi suicidi tra la popolazione gettata sul lastrico, tra gli artigiani, i commercianti, i pensionati che all’alba s’aggiravano come topi umani tra i cassonetti di Atene, in cerca di rifiuti commestibili da riporre in quelle buste di plastica che tenevano nelle mani come una divisa della loro improvvisa miserabilità. Quando il 20 agosto del 2018 la Grecia esce ufficialmente dal “terzo piano di aiuti” dell’Ue il quadro sociale ricorda – come cantava Francesco De Gregori – “il crollo di una diga”.

La disoccupazione, in quell’agosto 2018, è di circa il 22%; la metà dei giovani sotto i 24 anni non ha un lavoro e particolarmente colpita, sul piano occupazionale, è la generazione degli over 50; il salario medio di un lavoratore del settore privato è crollato a 500 euro mensili e lo stipendio medio generale è di 400 euro, mentre, per ordine della Troika, la contrattazione collettiva è totalmente abolita.

L’orrore delle politiche dell’Ue guidate dalla Germania della Merkel e dalla Banca Centrale Europea diretta da Mario Draghi contro il popolo e lo Stato della Grecia, è esattamente anticipato da «L’Unità» del ’57 nella sua parte relativa a “La situazione della manodopera”: “Il Trattato di Roma non garantisce ai lavoratori di ogni singolo paese aderente una situazione nuova, di maggior occupazione, di migliori salari, di sicurezza del posto di lavoro; questa riguarda in modo particolare i lavoratori italiani. II confronto tra i guadagni orari degli operai dell’industria dei sei paesi, mostra infatti l’Italia all’ultimo posto. È noto al contrario che nel nostro paese c’è una disoccupazione permanente di circa due milioni di lavoratori che non ha riscontro in alcuno degli altri paesi del Mec. La parte del trattato relativa alla ‘libera circolazione di lavoratori’ è una di quelle che maggiormente interessano il nostro paese, ma non è stata stabilita a questo proposito una disciplina precisa (…). Le speranze di una sensibile diminuzione della nostra disoccupazione in seguito alla liberalizzazione prevista dal Trattato non possono essere convalidate in nessun modo. Inducono al pessimismo soprattutto i seguenti fatti: si prevede un aumento di produttività ma non una riduzione degli orari di lavoro, sarà richiesta mano d’opera specializzata ed altamente qualificata mentre quella italiana disoccupata si caratterizza proprio per la sua bassa qualificazione (sotto questo aspetto l’economia italiana corre addirittura il rischio di vedersi privata della mano d’opera migliore attraverso l’emigrazione degli operai specializzati). Inoltre la mano d’opera italiana entrerà in concorrenza sugli stessi mercati con la mano d’opera – a bassissimo costo – dei paesi d’oltremare.

«L’Unità» del ’57, peraltro, mette a fuoco uno dei punti cardinali della questione dell’integrazione europea, quella relativa alla liberalizzazione degli scambi, che segnando di sé anche i Trattatti di Maastricht e di Lisbona e, presentandosi come l’innovazione per uno sviluppo democratico, rivela invece il cuore nero del liberismo da spiriti animali che è stato alla base sia della costituzione del Mec che dell’Ue.

Scrive «L’Unità» di allora: “Il Mec prevede che in un periodo variante tra i 12 e i 15 anni le tariffe doganali in vigore negli scambi tra i paesi aderenti verranno progressivamente ridotte fino alla loro totale eliminazione. Lo schema programmatico di riduzione delle tariffe è quanto mai preciso e dettagliato e costituisce il punto centrale delle disposizioni del trattato. La stessa cosa si può dire per ciò che riguarda i contingenti cui sono ancora sottoposti gli scambi di merci tra i paesi della ‘comunità europea’. L’eliminazione di queste tariffe provocherà una concorrenza molto più aspra tra le diverse ditte operanti nei paesi aderenti: se si esamina la struttura industriale e in potenza economica delle varie nazioni, si comprende che la posizione dell’Italia è in generale la più debole di tutte quante, tanto è vero che finora i dazi doganali italiani sono stati i più alti, proprio per proteggere la nostra produzione dalla più robusta concorrenza straniera (la media dei dazi doganali sul prodotti della media industria meccanica, che in Italia è superiore al 20 per cento del valore dei manufatti, in Germania scende a circa l’otto per cento).

A questo punto potrebbe sorgere la domanda: perché gli industriali non si oppongono al Mec? II fatto è che gli iniziatori del Mec sono stati i grossi monopoli industriali che all’interno del mercato comune avranno sufficiente forza per poter sviluppare i loro affari ai danni dei piccoli produttori, sia nazionali che degli altri paesi. La Fiat ad esempio, grazie agli investimenti americani, è riuscita a portare la sua produzione a un’efficienza tale da potere, con i suoi prodotti di massa, battere la concorrenza di tutte le altre case automobilistiche del mercato comune, in quanto è la più grande industria privata in questo campo. Essa inoltre, attraverso il Mec, potrà partecipare in posizione solida alla creazione di una forte industria aeronautica europea, oggi praticamente inesistente, e alla spartizione di commesse belliche in questo settore. II coordinamento economico di cui si parla nel Trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi produttori, sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle sfere di influenza tra i grandi monopoli. Inoltre la riduzione dei dazi avverrà con gradualità e criteri che favoriscano gli interessi dei grandi monopoli, promotori del Mec, ai danni delle industrie non monopolistiche”.

Alla luce di ciò che è divenuta l’attuale Ue, questo de «L’Unità» del ’57 non è un semplice articolo: è una “preveggenza”.

La “libera circolazione dei capitali” è uno dei capisaldi dell’Ue nata dal Trattato di Maastricht. Ma anche per ciò che riguarda questa colonna ideologica dell’Europa “schumpeteriana”, dell’Ue segnata dalla “burrasca della distruzione creatrice” dell’ex ministro delle Finanze del governo austriaco, vale la pena riproporre un passaggio dell’articolo de «L’Unità» del ’57: “La ‘libera circolazione dei capitali’ significa che i monopoli di ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona all’altra scegliendo quella dove esistono le possibilità di realizzare maggiori profitti. Date le condizioni di inferiorità nelle quali si trova la nostra economia è possibile che, attraverso questa libera circolazione di capitali, vi sia nel nostro paese una penetrazione di tipo imperialistico di capitale straniero, soprattutto tedesco. In secondo luogo è possibile che si realizzi, da parte dei monopoli italiani, una fuga di capitali dall’Italia. Queste eventualità non sono corrette, ma al contrario accentuate dalla istituzione della cosiddetta Banca europea di investimenti. È stabilito infatti nel Trattato che questo organismo finanziario funzioni come una comune banca la quale effettua investimenti non dove questi sono richiesti dalle esigenze di ogni singolo paese, ma bensì dove essi offrono più elevati profitti ai monopoli. Quali effetti ciò può avere per le possibilità di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia è facilmente arguibile”.

La prima questione che abbiamo posto, dunque, (qual è l’essenziale natura ideologica, politica, economica dell’Ue) trova una risposta nell’ inconfutabile “liaison” che storicamente prende corpo tra la costruzione del Mec e quella dell’Ue: un lungo e omogeneo processo di costruzione di un potere neo imperialista condotto dal capitale transnazionale europeo.

Seconda questione: l’Ue è un destino già scritto, storicamente inevitabile?

Il Trattato di Maastricht viene firmato il 7 febbraio del 1992. Occorre fare attenzione alle date: il 26 dicembre del 1991 viene ammainata dalle cupole del Cremlino la gloriosa bandiera sovietica. Gorbaciov tradisce il movimento comunista e antimperialista mondiale e consegna – per il tempo breve che passerà dalla fine sovietica alla ripresa del fronte antimperialista internazionale – il mondo alle forze imperialiste. Passa poco più di un mese dal suicidio dell’Urss e con la ratifica del Trattato di Maastricht nasce di fatto l’Ue.

C’è una accelerazione forsennata verso il tentativo di costituzione dell’Ue, del suo impianto istituzionale, politico, economico e ideologico. Perché questa accelerazione? Nella risposta a tale quesito risiede buona parte della stessa risposta alla domanda relativa all’inevitabilità storica, o meno, della costruzione dell’Ue, la risposta alla stessa questione del superamento, dell’abbattimento e della liberazione popolare dall’Ue.

La “via gorbacioviana” all’autodissoluzione dell’Urss spinge Fukuyama a dichiarare, a nome dell’intero fronte capitalista mondiale, “la fine della storia”. Il capitalismo – asserisce Fukuyama – è natura e dunque immutabile e il socialismo è un’illusione ottica. A partire dalla scomparsa dell’immensa diga antimperialista rappresentata dall’Unione Sovietica le forze imperialiste e capitaliste vedono il mondo come un immenso e totale mercato da conquistare. Con le buone o con le cattive.

Anche il grande capitale transnazionale europeo ha la stessa visione di un intero mondo trasformato in uno sterminato e nuovo mercato. Occorre, in virtù di questa visione, attrezzarsi, partecipare alla lotta interimperialista e intercapitalista, conquistare i nuovi mercati battendo la concorrenza nordamericana e degli altri poli capitalistici mondiali.

Come può attrezzarsi il grande capitale transnazionale europeo per questa nuova battaglia politico-economica?

Nel modo capitalistico classico: si conquistano i mercati abbattendo il costo delle merci, abbattendo i costi sociali generali e avviando una nuova accumulazione capitalistica generale. Come si arriva a ciò? Abbattendo i diritti, i salari e lo stato sociale. Non in un solo paese europeo, ma su scala continentale.

Come giungere ad una pianificazione iperliberista sovranazionale funzionale agli interessi dello stesso capitale transnazionale europeo?

Attraverso la costituzione di un potere istituzionale sovranazionale in grado di svuotare di poteri gli stati nazionali, in grado, dunque, di estendere sul piano continentale una “pianificazione” iperliberista capace di tagliare alle radici i residui lacci e laccioli lasciati dal retaggio socialdemocratico europeo diffuso, dando modo al grande capitale di avviare una vasta e lunga stagione iperliberista, antioperaia e antidemocratica.

Il prodotto di tutto ciò è l’Ue di Maastricht, che si dota di un parlamento-farsa, che non può nemmeno legiferare ed un Consiglio europeo quale vero cuore del nuovo potere sovranazionale, formato, a conferma e difesa della natura oltremodo verticistica dell’Ue, direttamente dagli esponenti del potere politico e borghese-capitalistico europeo.

La spinta del capitale transnazionale verso l’Ue non ha nulla a che vedere con un vero processo unitario sovranazionale basato sulle pulsioni della dialettica storica e della materialità degli eventi storici unificanti.

Gli stessi Stati Uniti d’America nascono attraverso la lunga lotta delle allora 13 colonie americane che nella seconda metà del ‘700 lottano unite contro l’imperialismo britannico che le domina. Sarà sulla base di quella lotta anticolonialista che le 13 colonie troveranno la loro coesione e la loro unità, un’unità dalle basi materiali che porta sia alla vittoria contro l’imperialismo britannico che alla Dichiarazione di Indipendenza, nel 1776, degli Stati Uniti d’America. Un nuovo Stato che si dota innanzitutto di un sistema fiscale nazionale dalla natura anche redistributiva: atto statuale primario che l’Ue non adotta mai, poiché la natura intrinseca dell’Ue non può nemmeno immaginare una redistribuzione della ricchezza che vada da Bruxelles verso le aree depresse dell’Ue, una redistribuzione della ricchezza da Berlino verso Atene o verso il meridione d’Italia. Ma, al contrario, la ricchezza deve trasmigrare da un’Atene alla fame ad una Berlino dalle grasse sembianze di un Grosz.

L’Ue è dunque una finzione storica. Non nasce da quella pulsione oggettiva – storica, ideologica, politica, economica – da cui prendono vita gli Stati Uniti d’America. Gli Stati ed i popoli europei non sono sospinti all’unità da eventi storici sovraordinatori. L’Ue è una contraffazione. Essa è un polo imperialista antistorico in contraddittoria, ma feroce costruzione.

Terza questione: l’Ue ha una propria identità storica, culturale, ideologica?

Per procedere nella riflessione: dopo aver constatato l’assenza di una pulsione storica oggettiva degli Stati europei ad unirsi, ora possiamo rimarcare il fatto che tale assenza sia anche il limite insito nel processo di costruzione dell’Ue. Il suo fattore interno impedente l’unità e disgregante della parziale unità.

Il passaggio dalla mitizzazione dell’Ue dei primi anni ’90 a questa prima metà degli anni 2.000, segnato da una forte “empasse” del processo unitario e da una nuova contraddizione interstatuale e intercapitalistica tra i diversi Stati europei, la dice lunga sulla fatiscenza storica dell’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa.

Nel Trattato di Mastricht del 1992 non vi è nessun articolo relativo alla possibilità che uno stato membro dell’Ue possa liberarsi dalla gabbia dell’Ue, di poterne uscire.

Questo perché? Perché la fase successiva all’autodissoluzione “gorbacioviana” dell’Urss, alla conseguente apertura dei mercati mondiali e all’autoelezione del costituendo polo capitalistico sovranazionale europeo a nuovo “concorrente” per la conquista dei mercati mondiali riemersi, produce un’euforia paneuropea che sfocia in una generale mitizzazione dell’Ue.

La nascente mitologia dell’Ue non può, dunque, permettere che appaiano falle nel suo processo costitutivo. La proiezione di questo input sui piani istituzionali la si rintraccia nel fatto che nel Trattato di Maastricht del ’92 non sono presenti codicilli volti alla possibilità che i paesi membri possano uscire dall’Ue.

Ma già dalla prima metà degli anni ’90 il quadro mondiale ed europeo cambia radicalmente. “La fine della storia” ratificata da Fukuyama rivela la propria, inetta ed iperidealistica, natura filosofica. La storia non finisce mai ed aver tentato di collocare una pietra tombale sul socialismo, da parte degli aedi del capitalismo mondiale, si rivela essere ciò che è: non una rilevazione storica ma lo stesso, oscuro, ansioso desiderio del capitale.

Fukuyama non fa in tempo a lanciare nel mondo il proprio assunto sulla fine della dialettica storica, che la storia si rimette prepotentemente in moto e la spinta antimperialista, rivoluzionaria, socialista di nuovo attraversa il pianeta. Dall’America Latina all’Africa e all’Asia – a cominciare dal titanico sviluppo cinese e dal rifiuto della Russia di Putin di offrirsi quale agnello sacrificale del nuovo espansionismo imperialista (rifiuto che si offre come una delle basi materiali della nuova russofobia occidentale) – prende corpo un nuovo fronte dal carattere antimperialista che cambia i rapporti di forza nel mondo, spunta le unghie all’aquila imperialista giungendo a costituire prima i Brics poi la Banca Mondiale dei Brics a Shangai, alternativa al Fmi e ai suoi prestiti da strozzinaggio universale, per sfociare, oggi, nei Brics planetari.

Sul processo di mitizzazione dell’Ue non si abbatte solo il colpo micidiale del repentino cambiamento dei rapporti di forza mondiali tra fronte imperialista e fronte antimperialista: oltre ciò va manifestandosi l’estrema difficoltà del grande capitale europeo a sostenere la concorrenza internazionale con gli altri poli imperialisti, a cominciare dagli Usa e dal Giappone. Questione alla quale si aggiunge lo spaventoso default della colossale Banca americana «Lehman Brothers» e la conseguente e profonda crisi del capitalismo mondiale.

Una crisi che travolge anche l’Ue e alla quale Bruxelles e la Bce rispondono con le durissime politiche dell’austerity, imposte su tutto il movimento operaio complessivo europeo.

Peraltro, il 29 maggio del 2005 si tiene il referendum francese sulla Costituzione europea (Référendum français sur le traité établissant une Constitution pour l’Europe), una chiamata popolare che avrebbe dovuto ratificare la Costituzione europea messa a punto dalla Convenzione Europea del 2003. La maggioranza degli elettori francesi, invece, boccia, col 55% dei “no” ed anche con un’affluenza alle urne del solo 69%, la proposta di Costituzione europea, infliggendo un altro colpo al processo di costruzione dell’Ue e alla credibilità della stessa Ue di fronte ai popoli d’Europa.

La mitologia ed il ruolo destinale dell’Ue, deciso da “una volontà superiore” che prescinde dagli interessi dei popoli, si incrinano.

Nel 2009 entra in vigore il Trattato di Lisbona, che in parte sostituisce ed emenda quello di Maastricht del ’92.

Il Trattato di Lisbona, nel suo tessuto semantico e a partire dai rovesci subiti dall’Ue, sembra dotarsi di una vaga veste socialdemocratica che, lessicalmente, in alcuni passaggi pare stemperare la violenza liberista del Trattato di Maastricht.

Ma ciò è una pura ed ipocrita finzione, un inganno della grammatica, poiché il linguaggio “sentimentale” che fiorisce in un alcuni passaggi del Trattato di Lisbona si scontra con una riproposizione secca e durissima della totalità del mercato e della sua natura “anarchica” e selvaggia.

Tuttavia la crisi dell’Ue c’è stata, è stata profonda, la riproposizione dell’Ue come moloch insindacabile non ha più cittadinanza.

Ed è su questa base che nel Trattato di Lisbona appare l’articolo 50, che introduce la possibilità, per uno stato membro, di uscire, anche se attraverso alcune forche caudine regolamentari collocate come mine nel Parlamento europeo, dall’Ue.

Cita infatti l’articolo 50: “Ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Ue contestualmente alle proprie norme costituzionali”.

Ed è anche su queste basi materiali – fatiscenza storica e crisi dell’Ue e articolo 50 del Trattato di Lisbona – che le forze comuniste e amtimperialiste europee ed italiane potrebbero/dovrebbero con razionalità e verosimiglianza porre la questione strategica della fuoriuscita dall’Ue e dall’euro. Che vuol dire portar fuori i lavoratori e i popoli dal violento e artificioso processo di costruzione del neoimperialismo europeo.

Abbiamo dunque attraversato, con questa prima rassegna sull’Ue, il tema posto dalla domanda “la verità è quella che appare?”. Con la produzione di una risposta, crediamo oggettiva, libera dalla “superstizione” e volta ad affermare che la verità non è quella che appare, che l’Ue non è quella, tutta pace e libertà, che viene presentata. Che l’azione soggettiva e rivoluzionaria può/deve rovesciarne l’apparente moto destinale.

Seconda domanda: si può essere rivoluzionari senza la teoria e la pratica della “preveggenza”? Naturalmente utilizziamo il termine “preveggenza” in modo provocatorio, alludendo alla “prévoyance” francese che segnava di sé la poesia di Arthur Rimbaud, ma stando solidamente a fianco del Lenin che progettava il futuro rivoluzionario auscultando innanzitutto i moti carsici della storia. Per intervenire su di essa e dominarla, “battendo in breccia” il meccanicismo, il determinismo della Seconda Internazionale.

Quali sono i moti carsici che oggi si preparano a scuotere, dall’oscuro sottosuolo della storia, l’impianto artificioso che sorregge, come un grande ponteggio di tubi innocenti già arrugginito e fragile, la struttura dell’Ue, offrendosi a chi vorrà recuperare l’azione soggettiva, i mezzi materiali per un’azione e un progetto comunista e rivoluzionario?

– Innanzitutto, e come abbiamo già visto: l’Ue è un castello di carte, una “tour de sable” destinata a crollare, così come si è chiaramente espresso il grande filosofo marxista francese Etienne Balibar. Una torre di sabbia alla quale i miserabili intenti riformatori della sinistra moderata, gli attuali eurocomunisti in ritardo o i comunisti democratici e “perbene” (la Sinistra europea, ad esempio, l’attuale Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana) proprio attraverso il loro intento “riformatore”, nonché sollecitarne il crollo, offrono al “tour de sable” simpatiche stampelle.

– La stessa, oggettivamente impossibile (poiché, ripetendo il concetto centrale, l’Ue è un artifizio storico) costruzione di una propria identità storica, politica, economica, culturale sovranazionale spinge senza possibilità di scampo (come un idiota nelle mani di un gangster) l’Ue nelle grinfie dell’imperialismo Usa e della Nato. Con la conseguente trasformazione dell’Ue in un soldato straccione che il primo fronte imperialista invia al massacro della guerra contro la Russia, la Cina e l’intero fronte del multilateralismo.

– La genuflessione dell’Ue al potere imperialista Usa, conseguente alla stessa fatiscenza e falsità del soggetto storico Ue, determina già crisi economiche virulente non solo nei paesi economicamente più deboli dell’Ue, ma nel cuore economico stesso dell’Ue: la Germania. I dati economici usciti in questo maggio 2024 ratificano in modo probante la grande crisi economica tedesca: la sua produzione industriale è diminuita su base mensile del 2,5% e su base annua del 6,7%. Ciò per la fase iniziale del 2024 e in continuità con la pesante recessione del 2023 (una crisi economica, questa tedesca, che si ripercuoterà duramente sull’economia italiana, il cui apparato produttivo è notoriamente subfornitore di quello tedesco).

E’ del tutto evidente come il coinvolgimento tedesco e dell’intera Ue nella guerra militare “amerikana” contro la Russia e la subordinazione di Bruxelles alla guerra economica e doganale contro la Cina tendono a trasformarsi nelle basi materiali della crisi tedesca e dell’intera Ue. Basti pensare all’adesione dell’Ue alle centinaia di sanzioni Usa contro la Russia, alle forti limitazioni degli scambi commerciali, al divieto della vendita di servizi europei a Mosca, al divieto all’importazione, nei paesi Ue, di petrolio e gas russi, alle sanzioni contro il sistema bancario russo. E basti pensare alla decisione dettata da Washington a Buxelles in relazione alla maggiorazione dei dazi sulle auto elettriche, elevati, dal 5 luglio 2024, al 48%, mentre negli Usa si è aperto un dibattito volto ad elevare del 100% i dazi su di una vasta gamma di prodotti cinesi.

Peraltro, le sanzioni stesse comminate alla Russia hanno di molto tagliato i flussi di materie prime dal basso costo (dal gas al petrolio sino ai fosfati) provenienti dalla Russia, trasformando questo ordine Usa in una violenta crisi dell’industria europea e in un colpo durissimo alle condizioni di vita delle masse popolari europee.

Un’intera subordinazione al potere politico e agli interessi economici e militari Usa che ancor più scardina le già artificiose e fragilissime strutture politiche, economiche e istituzionali dell’Ue. Contraddizioni entro le quali un progetto comunista e rivoluzionario dovrebbe in modo potente e determinato entrare per far esplodere l’Ue, liberare i suoi popoli avviando processi rivoluzionari nei paesi stessi dell’Ue.

Ma, oltre la crisi economica europea indotta dal dominio Usa sul campo economico e da quello militare della Nato, altri e non secondari movimenti tellurici vanno accumulando energia distruttiva lungo i flussi carsici dell’Ue, che, come abbiamo già affermato, debbono essere prioritariamente portati alla luce dalla “preveggenza” rivoluzionaria.

– La lunga egemonia socialdemocratica europea costituitasi nel secondo dopoguerra sulla base materiale dell’esigenza del confronto con i grandi successi sociali dell’Unione Sovietica (che costringeva il grande capitale europeo, per non essere travolto dal prestigio in continua espansione, tra le masse popolari europee, dell’America Latina, dell’Occidente e dell’Oriente, del socialismo sovietico, ad una redistribuzione parziale del reddito), tale egemonia socialdemocratica si è da tempo totalmente consunta, tanto da trasformare, in pochi decenni, ogni forza socialdemocratica europea tradizionale (dalla Spd tedesca al Partito socialista spagnolo, dal Partito socialista francese a quello greco, dal Partito democratico italiano alle socialdemocrazie del nord Europa) in forze liberiste, omogenee al progetto iperliberista dell’Ue e assunte, come nuovi soldati dell’imperialismo, dalla Nato. La stessa grande vittoria del Labour Party di questo luglio 2024 nel Regno Unito è celebrata dai media vicini al Pd, dal centro-sinistra italiano e dalla stessa “sinistra” italiana come “la vittoria della sinistra contro i populismi, le destre e i sovranismi”. E tutto ciò mentre già il ministro degli Esteri in pectore del prossimo governo laburista, David Lammy, ha dichiarato: “Sull’Ucraina continueremo la strada dei nostri predecessori, il sostegno a Kiev è senza discussione. Cercheremo ancor più sinergie con l’Europa. Purtroppo l’Ucraina è solo una parte del problema. E’ importante avere una politica deterrente ancora più forte contro la Russia di Putin, minaccia sistemica all’Occidente”. Con Rachel Reeves, probabilmente nuovo ministro del Tesoro nel governo di Keir Starmer, che ha già dichiarato, esplicitamente sulle orme di Margheret Thatcher e di Tony Blair, che farà dimenticare le finanze allegre e spendaccione della sinistra del passato.

Non ha molte ragioni, il popolo del Regno Unito, di astenersi dal voto (circa il 40%) nel momento in cui il Labour vincente ripropone la stessa politica guerrafondaia subordinata alla Nato dei conservatori Boris Johnson e di Rishi Sunak, evocando la stessa politica liberista della Thatcher e di Tony Blair?

Ciò sul terreno della sinistra moderata. Ma anche la “sinistra radicale” non sembra, per ora, sfuggire alla maledizione della sussunzione all’ordine ideologico liberista e neoimperialista, e un passaggio, politicamente drammatico, del Programma politico del Nouveau Front Populaire per le elezioni in Francia di questa estate 2024 lo conferma: “Sconfiggere la guerra di aggressione di Vladimir Putin e rispondere dei suoi crimini davanti alla giustizia internazionale; difendere incrollabilmente la sovranità e la libertà del popolo ucraino, nonché l’integrità dei suoi confini attraverso la consegna delle armi necessarie, la cancellazione del suo debito estero ed il sequestro dei beni degli oligarchi che contribuiscono allo sforzo bellico russo”. E’ la composizione stessa del Nfp, che vede al suo interno diverse forze socialiste e ambientaliste moderate, movimentiste e di sinistra vaga, dai socialisti liberali sino a Raphaël Glucksmann, il moderatissimo fondatore di “Place publique” dedito a Zelensky (si legga, a proposito di tutto ciò, l’ottimo editoriale sulle elezioni francesi di Alessandro Testa su “Futura Società”), è questa composizione che ha portato al Programma citato, che rischia fortemente di collocare lo stesso Nfp nell’ambito delle sinistre di sistema.

Buona parte delle stesse destre vincenti, da Meloni a Le Pen, e gli stessi governi di destra o centro-destra (Polonia, Croazia, Ungheria, Paesi Bassi, Grecia, Cipro, Slovacchia, Lettonia, Svezia ed altri), pur mantenendo, a volte, anche significative differenze in politica estera dalle forze socialdemocratiche, di sinistra moderata e dallo stesso Partito popolare europeo, stanno subendo tuttavia un forte, rapido, processo di sussunzione e di omologazione all’interno della politica liberista dell’Ue. Ciò è particolarmente evidente per il governo Meloni, ma non è stata forse la stessa Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen, in questa fase elettorale francese, ad uscire dal partito di estrema destra “Reconquête”, di Eric Zemmour, per tornare tra le braccia di Marine Le Pen, offrendole il suo esplicito aiuto a “normalizzare”, in senso europeista e liberale, “Rassembleme National”, il partito lepenista?

Tutto ciò, tutta questa “politique politicienne” che segna quasi tutto l’arco politico e parlamentare dell’Ue, dalle sinistre alle destre, passando dai vari “centri” che di volta in volta svolgono un ruolo di cerniere nelle diverse coalizioni, non solo sostiene sempre più quelle politiche che da decenni colpiscono duramente il welfare europeo e gli interessi dei lavoratori europei, non solo sono reiterate ed esatte proiezioni dei Trattati di Maastricht e di Lisbona (come se l’Ue fosse un mostro onnivoro che tutto divora e metabolizza), ma partecipano collettivamente, come un unico partito dell’Ue, a scavare un sempre più vasto e profondo fossato tra l’Ue e i popoli. E se a ciò aggiungiamo la fatiscenza profonda dell’Ue in quanto tale, il suo essere soggetto “falso”, astorico e totalmente privo di “charme” presso i popoli, noi possiamo oggettivamente asserire che il crollo dell’Ue sia una forte eventualità storica, una liberazione per i popoli che tuttavia l’azione soggettiva dei comunisti e dei rivoluzionari deve accelerare.

Il combinato disposto tra le sovrapponibili politiche di sostegno all’Ue e a questa Ue liberista provenienti da destra, sinistra e dai centri-cerniere, nonché irrobustire l’Ue, ne minano le fondamenta, attraverso un processo di alienazione dei popoli continuo e dal carattere sempre più di massa.

Ed è in questo contesto che vanno valutate le spinte “populiste” che sempre più vanno prendendo corpo, sotto vari nomi e sigle, nei paesi dell’Ue. Un movimento “populista” demonizzato dalle elites, ma che i comunisti e i rivoluzionari debbono interpretare come corposo segno del disagio dei popoli europei, che deve, strategicamente, essere mutato in forza consapevolmente trasformatrice ed essere concepito alla stregua delle forze populiste russe che anticiparono lo stesso marxismo russo, che concorsero a terremotare il quadro politico zarista e reazionario e che al marxismo offrirono alcuni contributi. Certo, Lenin condurrà una battaglia politica e teorica aspra contro il soggettivismo populista, ma ciò non cancella il fatto che lo stesso populismo russo svolse un ruolo di denuncia contro il potere zarista, individuandone quelle criticità che poi il movimento marxista e leninista russo seppe far esplodere.

L’Ue è fortemente instabile, la sua crisi profonda può aprire nel continente un processo rivoluzionario che può trovare negli attuali rapporti di forza internazionali, non più favorevoli alle forze imperialiste, un’ulteriore legittimità, spinta storica e potenza politica e sociale.

Lo stesso epilogo della guerra Russia-Ucraina, con una eventuale quanto auspicabile vittoria della Russia, potrebbe accelerare la crisi dell’Ue e lo stesso processo rivoluzionario nel vecchio continente (ed è a partire da questo punto di vista, che ci pare goda di una sua totale coerenza antimperialista, che troviamo particolarmente perniciose le posizioni di quelle forze – da certa sinistra italiana ed europea, a volte anche comunista, sino al Nouveu Front Populaire francese – che condannano la Russia di Putin e garantiscono che, una volta al governo, continueranno a sostenere militarmente Kiev).

A partire da tutto ciò affrontiamo la terza domanda: i comunisti debbono pensare alla rivoluzione e per essa attrezzarsi?

I comunisti, anche vivendo nelle fasi storiche intermedie e non rivoluzionarie, non possono mai abbandonare il progetto strategico della rivoluzione, pena il loro cambio di natura in forze di sinistra moderata o socialdemocratica.

Ma ancor più, i comunisti debbono “pensare” alla rivoluzione in una fase come questa che stiamo vivendo in Europa, segnata da profondi moti carsici distruttivi per i vecchi poteri, dalla sofferenza dei popoli, dalla loro alienazione totale dal falso potere sovranazionale dell’Ue, da un contesto internazionale favorevole, esso stesso, alle grandi trasformazioni sociali e da una guerra di grandi proporzioni tra la Nato e la Russia che potrebbe oggettivamente avere la forza di scardinare ogni verità e stabilità apparenti aprendo nuovi, tumultuosi e sino ad ora non visibili processi.

Oggi, in Italia e in Ue, le condizioni oggettive per la rivoluzione si vanno addensando e rispondono, anche se solo in parte, anche ai “3 elementi” che Lenin indicava per rendere verosimile una situazione rivoluzionaria:

“1) l’impossibilità per le classi dominanti di mantenere immutato il loro dominio, questa o quella crisi di coloro che stanno in alto, una crisi della politica della classe dominante che crea la rottura attraverso la quale irrompe lo scontento e l’ira delle classi oppresse. Perché intervenga la rivoluzione non è sufficiente che coloro che stanno in basso non vogliano più, ma si esige che coloro che stanno in alto non possano più vivere come per l’innanzi;

2) l’acutizzarsi oltre il normale dei bisogni e delle difficoltà delle classi oppresse;

3) un aumento, in seguito alle cose ora indicate, dell’attività delle masse le quali nei momenti di tranquillità si lasciano depredare senza proteste e che nei momenti di tempesta, come in ogni situazione di crisi, sono sospinte a un proprio autonomo intervento, altrettanto quanto coloro che stanno in alto”.

Tre condizioni, queste leniniste, che nell’Ue potrebbero tutte manifestarsi e presentarsi nel mondo visibile, dopo aver per decenni soffritto nei moti carsici.

Ma per farle emergere dai moti sotterranei e trasformarli in realtà sensibile occorre una forza capace di un’azione maieutica: il partito comunista e un movimento rivoluzionario di massa.

Siamo lontani dalla messa in campo di tali soggetti? Si, siamo molto lontani. Ma il punto è il seguente: le condizioni oggettive, come abbiamo tentato di dimostrare, si vanno determinando. Dobbiamo lavorare, dunque, per la costruzione del soggetto rivoluzionario.

Attorno a quali cardini politici e teorici potranno organizzarsi e determinarsi le condizioni soggettive per la rivoluzione?

– Primo, l’abbandono totale della “rassegnazione” al moloch del potere capitalista: l’esperienza ci dice che dopo alcuni decenni di attività politica e di lotte anche un partito comunista rivoluzionario può essere sussunto nel sistema, genuflettersi alla fascinazione elettorale, innamorarsi del parlamento borghese, perdendo via via la spinta rivoluzionaria, diluendo mano a mano il progetto strategico della costruzione di un potere rivoluzionario, di una forma del potere d’avanguardia e popolare. Gli esempi relativi all’abbandono della spinta rivoluzionaria e dell’ antimperialismo sono così tanti che, proprio per la loro quantità, ci dicono come sia potente la forza d’attrazione del potere borghese e quanto sia difficile – quanto necessaria – la costruzione di un reparto d’avanguardia e rivoluzionario. L’attitudine rivoluzionaria contempla una estraneazione del partito comunista dal “presente politico” e dalla battaglia elettorale? In nessun modo; anzi, la coniugazione tra “presente politico” e mantenimento della barra rivoluzionaria rafforza questa seconda esigenza.

– Secondo, la cancellazione di ogni residuo positivista, determinista, meccanicista, tutte “pulsioni” politico-filosofiche che, appena citate, sembrano essere lontane da noi anche per il loro portato semantico apparentemente astruso e apparentemente incompatibile con la realtà politica quotidiana, ma che in verità, per la loro potenza ideologica, determinano la stessa prassi politica, segnata dalla resa alla “realtà” dettata dal potere. Si tratta, come Lenin e Gramsci con straordinaria forza intellettuale hanno tentato di fare, riuscendovi, a riconquistare e ricollocare al centro l’azione soggettiva delle avanguardie e delle masse. In un rapporto oggetto/soggetto che è l’essenza stessa dei processi rivoluzionari.

– Terzo, occorre definire un “programma rivoluzionario”, come guida all’azione e come anello di congiunzione tra tattica e strategia. Una linea di concretezza, come sempre chiede ed auspica il compagno Gianni Favaro, della segreteria nazionale del Mprc. Se, nella fase data, come abbiamo tentato di dimostrare, siamo di fronte ad una crisi profonda della struttura materiale dell’Ue, il “programma rivoluzionario” non potrà che essere quello che punti ad allargare (non a puntellare, come fanno la sinistra moderata o i comunisti della Sinistra europea) le contraddizioni interne all’Ue, mirando alla sua caduta, al suo fallimento. E le contraddizioni si aprono a partire da due obiettivi centrali: da una parte rilanciando la piena autonomia statuale e politica di ogni paese dell’Ue, rimettendo a valore la concezione anticolonialista e rivoluzionaria dello Stato-nazione come mezzo principale per l’uscita dall’Ue e dall’euro e, d’altra parte, mettendo finalmente a fuoco un progetto strategico di ricollocazione geopolitica del paese in cui si lotta (per noi l’Italia).

Uscire dall’Ue per andare dove?

La domanda che anche tra le forze politiche, sociali, intellettuali più avanzate ci si pone ha bisogno di una risposta, non ancora degnamente elaborata dagli stessi comunisti e dalle forze antimperialiste. Un vuoto politico e teorico da colmare per rendere più forte e verosimile la lotta per l’uscita dall’Ue e dall’euro.

“Per andare dove” può iniziare tuttavia a dircelo la “S” dell’acronimo Brics, la “S” del Sud Africa. Questo paese è ben più lontano dal Brasile, dalla Russia e dalla Cina di quanto lo siano i paesi dell’Ue e l’Italia. Il punto, dunque, è che l’appartenenza ad un fronte socialista, antimperialista e progressista mondiale – specie in questa fase storica segnata dall’immenso sviluppo tecnologico mondiale e dalla conseguente e grande restrizione degli spazi planetari – non dipende dalla collocazione geografica di un paese, ma dalla sua collocazione, dalla sua inclinazione politica e filosofica di fondo. Si sta dalla parte che difende il multilateralismo e la pace, dalla parte che difende gli interessi dei popoli, rompendo col fronte che ripropone il vecchio mondo unipolare, la spoliazione neocolonialista, la centralità politica, economica ed ideologica dell’Occidente, la guerra imperialista e la Nato.

A partire da questa nuova e necessaria “weltanshauung” la collocazione geografica di un paese, imposta e venduta ideologicamente come prima discriminante per la collocazione politica e filosofica nel mondo, è essa stessa retaggio dell’ancien regime imperialista.

I progetti e gli intenti politico-teorici per la rivoluzione sono stati quelli che ben più di altri hanno subito l’attacco, e persino l’irrisione, sia del potere capitalista che delle forze moderate comuniste e di sinistra. Per rendere verosimile il progetto rivoluzionario occorre, intanto, prendere le distanze da queste posizioni moderate e irridenti, conducendo contro esse una battaglia irriducibile.

György Lukács scrive il saggio Lenin. Teoria e prassi nella personalità del rivoluzionario, nel 1967. Già nel primo capitolo“L’attualità della rivoluzione”l’incipit è apodittico: “ll materialismo storico è la teoria della rivoluzione proletaria. Lo è perché la sua essenza è la sintesi concettuale di quell’essere sociale che produce il proletariato e che ne determina l’intera esistenza; lo è perché nel materialismo storico il proletariato che lotta per la propria liberazione raggiunge una chiara consapevolezza”.

Nella riflessione di Lukacs, e sulla scorta del pensiero e della prassi di Lenin, due sono le condizioni per cui una rivoluzione può essere considerata possibile e verosimile: una crisi sistemica e di fondo della struttura del potere capitalista e una soggettività rivoluzionaria pronta ad intervenire sulla crisi sistemica.

Noi sosteniamo che l’Ue attraversi tale crisi sistemica. Sosteniamo che nei paesi più colpiti da tale crisi sistemica, tra i quali l’Italia, il processo rivoluzionario potrebbe ascendere dai flussi carsici e manifestarsi, essere all’ordine del giorno. Ma manca la seconda condizione individuata da Lukacs: la soggettività rivoluzionaria.

Domanda: a partire da questa mancanza cosa fanno i comunisti, i rivoluzionari? Prendono atto di una “impossibilità” rivoluzionaria legata al fatto che la soggettività rivoluzionaria è mancante, oppure lavorano per costruire tale soggettività, con l’obiettivo di far incrociare crisi sistemica e soggetto rivoluzionario? Asseriva Marx che vi sono fasi storiche in cui vent’anni contano come un giorno e un giorno conta come vent’anni. La storia riserva sorprese continue e i rivoluzionari debbono farsi trovare pronti per “i giorni che contano come vent’anni”.

Come? Costruendo un partito solo per l’insurrezione? No, costruendo un partito comunista che sia rivoluzionario sempre, sia nella possibile fase in cui crisi sistemica e presenza della soggettività rivoluzionaria si incrocino, che nella fase in cui l’eventuale crisi sistemica del potere non incrociasse la soggettività rivoluzionaria. Poiché la costruzione di un partito comunista ideologicamente volto alla trasformazione sociale e alla transizione al socialismo è l’unica garanzia che una possibilità rivoluzionaria e la trasformazione sociale siano sempre accese, sia nelle fasi di sconfitta della rivoluzione e di ritirata tattica del movimento operaio, che nella fasi in cui l’assalto al cielo si presenti come una possibilità ed una opportunità.

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