di Giacomo Gabellini per L'AntiDiplomatico
Lo scorso dicembre, Vladimir Putin ha firmato un decreto implicante la sospensione delle forniture nei confronti dei Paesi europei che avevano imposto il tetto al prezzo del petrolio russo – fissato a 60 dollari per barile – trasportato via mare.
Anche se comprensiva di una “scappatoia” che previa debita autorizzazione governativa autorizza l’export di greggio alle nazioni sostenitrici del “tetto”, la misura suggella la torsione a 180° del baricentro energetico-commerciale russo avviata da Mosca sulla scia del rapido deterioramento delle relazioni con lo schieramento euro-atlantico, e nel cui ambito rientra la realizzazione delle condutture Altai, Power of Siberia, China-Russia Eastern Gas Pipeline e Soyuz-Vostok concepite per convogliare il grosso delle esportazioni metanifere russe verso la Repubblica Popolare Cinese.
Un processo epocale, destinato a subire una forte accelerata per effetto del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2 che secondo la ricostruzione formulata dal decano del giornalismo investigativo statunitense Seymour Hersh sarebbe stata perpetrata dagli specialisti della Us Navy, ma reso necessario dalla inaudita campagna sanzionatoria imposta dallo schieramento atlantico in seguito allo scatenamento della cosiddetta “operazione militare speciale” contro l’Ucraina.
Nello specifico, i provvedimenti assunti dagli Stati Uniti e dai loro alleati-sottoposti hanno comportato il congelamento di circa 300 miliardi di dollari detenuti dalla Banca Centrale Russa presso istituti occidentali, lo scollegamento del 75% circa delle banche russe dal circuito di pagamento Swift, il blocco degli investimenti esteri, l’interruzione della fornitura di componenti hi-tech e la recisione del solidissimo legame energetico euro-russo.
Senza contare il sequestro dei beni di proprietà di cittadini russi ritenuti vicini al governo di Mosca, e l’abbandono del mercato russo deciso dalle imprese occidentali (di entità ben più ridotta rispetto a quanto sbandierato, in realtà). Misure draconiane, predisposte al fine di condannare la Federazione Russa a un soffocante isolamento economico e finanziario costringendola così a ritirarsi dall’Ucraina. E magari, indurre la popolazione russa a rovesciare il governo e creare le condizioni per una frammentazione geopolitica del Paese.
L’impatto delle sanzioni si è rivelato indubbiamente dirompente, in particolare per quanto riguarda le ricadute prodotte dall’inaccessibilità ai capitali e alle competenze occidentali, ma si sono rivelate ben lontane dal garantire il conseguimento degli obiettivi prefissati. Poche settimane dopo l’attacco russo, l’Institute of International Finance prevedeva una caduta del Pil russo nell’ordine del 15%, mentre l’International Energy Agency sosteneva che le sanzioni contro il settore energetico russo avrebbero prodotto «la più grande crisi di approvvigionamento degli ultimi decenni». Nell’ottobre successivo, il Fondo Monetario Internazionale non soltanto riteneva che alla fine dell’anno l’economia russa avrebbe registrato una contrazione pari ad “appena” il 2,3%, ma che le sue prospettive fossero relativamente promettenti: l’outlook contempla un +0,3% per il 2023 e un +2,1% per il 2024. Dati di tutto rispetto, specie se raffrontati alle deludenti performance previste per l’Unione Europea (+0,7% nel suo complesso per il 2023) e il Regno Unito (-0,6% per il 2023). Nel 2022, per di più, la Federazione Russa ha conosciuto una serie di miglioramenti su base annua letteralmente sbalorditivi, specialmente per quanto concerne la produzione petrolifera (+2%, pari a 535 milioni di tonnellate), l’export di carburante (+7,5%) e i proventi generati dall’industria energetica (+28%, pari a 336,5 miliardi di dollari). L’andamento tendenziale di questi ultimi ha per la verità conosciuto una flessione negli ultimi mesi dell’anno (i ricavi netti giornalieri sono diminuiti di oltre 170 milioni di dollari), da ascrivere però alla caduta delle esportazioni di gas naturale verificatasi in seguito al sabotaggio delle condutture trans-baltiche.
Le consegne verso l’Asia, in compenso, sono letteralmente decollate.
Nel mese di novembre, la Cina, vale a dire il primo acquirente di petrolio al mondo, ha importato dalla Russia quantità praticamente doppie di Gas Naturale Liquefatto (852.000 tonnellate) e carbone (7,2 milioni di tonnellate), oltre a metano via conduttura – il solo China-Russia Eastern Gas Pipeline ha trasportato nel 2022 ben 15 miliardi di metri cubi di gas naturale russo in Cina; nel 2023, il volume dovrebbe aumentare ad almeno 22 miliardi di metri cubi. Nonché prodotti petroliferi per un controvalore di 8 miliardi di dollari, che hanno posto la Federazione Russa nelle condizioni di scalzare l’Arabia Saudita come principale fornitore di petrolio della Repubblica Popolare Cinese. Complessivamente, il commercio bilaterale tra Russia e Cina è cresciuto nel 2022 del 34,3%, a 190 miliardi di dollari, polverizzando il record realizzato l’anno precedente (+26,6%). Nel dettaglio, l’export cinese verso la Russia è incrementato anno su anno del 17,5%, a fronte di un aumento delle importazioni russe del 48,6%. La Federazione Russa esporta prevalentemente materie prime ed energia, ed importa soprattutto manufatti, pezzi di ricambio e beni hi-tech. Stando a un’inchiesta condotta dal «Wall Street Journal», nel computo rientrerebbero apparecchiature di navigazione, componentistica e tecnologie a doppio uso rivelatesi funzionali a sostenere lo sforzo bellico russo in Ucraina.
Ancor più impressionanti risultano i dati relativi all’India, che occupa il terzo posto nella graduatoria dei maggiori importatori di petrolio al mondo. Grazie ai cospicui sconti (pari a 19 dollari per barile nel maggio 2022) applicati da Mosca, che hanno reso il petrolio russo maggiormente economico rispetto a quello dell’Arabia Saudita (il tradizionale fornitore di riferimento dell’India), tra l’aprile e il maggio del 2022 ha preso la via dell’India un flusso di petrolio russo per un controvalore di 3,2 miliardi di dollari. Una crescita letteralmente vertiginosa, considerando che nel febbraio precedente le importazioni indiane di greggio russo erano praticamente inconsistenti e nel mese successivo ammontavano a poco più di 200 milioni di dollari. Nel mese di dicembre, Nuova Delhi ha acquistato dalla Russia petrolio per una media di 1,2 milioni di barili al giorno, a fronte dei 36.255 che ne importava appena un anno prima. Una crescita di ben 33 volte, capace di incrementare la quota di fabbisogno energetico indiano coperta dal petrolio russo al 25%, rispetto allo 0,2% registrato nel marzo 2022.
Va tuttavia specificato che non tutto il greggio russo importato dall’India va a soddisfare la domanda interna. Parte di esso viene infatti lavorata dalle società indiane Reliance Energy e Nayara Energy e trasformato in una particolare miscela denominata Virgin Gas Oil (Vgo) puntualmente riesportata verso gli Stati Uniti. I quali, non potendo più approvvigionarsi di Vgo direttamente dalla Russia a causa delle loro stesse sanzioni, hanno incrementato in via compensatoria gli acquisti indiretti triangolando con l’India. Attualmente, la sola Reliance sta acquistando dalla Russia circa 600.000 barili di petrolio al giorno da convertire in Vgo. Il che significa che sta rivolgendosi a Mosca per coprire circa la metà della propria capacità totale di raffinazione. Nayara, dal canto suo, sta trasformando la Russia nel suo unico canale di approvvigionamento, analogamente a colossi del settore pubblico quali Indian Oil Corporation, Bharat Petroleum e Hindustan Petroleum. Nelle prime due settimane di gennaio, gli acquisti di greggio russo – scontato di 10 dollari circa – da parte dell’India sono saliti a 1,7 milioni di barili al giorno, polverizzando il record registrato il mese precedente e trasformando il gigante indiano nel secondo maggiore acquirente di petrolio russo, oltre che nel principale compratore di greggio russo importato via nave.
Sempre a partire da gennaio, per di più, i raffinatori indiani hanno cominciato a rifornirsi di petrolio russo tramite mediatori con base a Dubai espletando i relativi pagamenti in dirham (la valuta degli Emirati Arabi Uniti) anziché in dollari.
Stesso discorso vale per le acciaierie e i cementifici indiani, avvalsisi in maniera sempre più cospicua di dirham, euro, dollari di Hong Kong e yuan per pagare le proprie importazioni di carbone. Le quali sono anch’esse aumentate a dismisura nel corso del 2022, al punto da rendere la Russia il secondo fornitore di carbone dell’India alle spalle dell’Australia.
Con riferimento al giugno 2022, la quota coperta dallo yuan sul totale dei pagamenti indiani effettuati in monete alternative al dollaro ammontava al 31%, a fronte del 28% registrato dal dollaro di Hong Kong, del 25% dall’euro e dal 16% dal dirham. Anche la rupia è destinata ad acquisire un peso considerevole, come si evince dalla recente decisione della Reserve Bank of India di autorizzare l’espletamento di alcune transazioni con la Russia in moneta indiana.
Segno inequivocabile che le sanzioni hanno mancato clamorosamente l’obiettivo di assestare un colpo fatale all’economia della Federazione Russa, riuscita a riconfigurare in tempi sorprendentemente rapidi la struttura del proprio export beneficiando della terzietà mantenuta da gran parte delle nazioni del mondo.
Nonché ad elaborare complesse manovre di aggiramento delle misure punitive adottate dallo schieramento euro-atlantico, e a preservare la propria centralità nel commercio internazionale. A dispetto degli appelli al boicottaggio e alle minacce, la domanda globale di materie prime ed energia russi non si è attenuta, né è venuta meno la capacità di Mosca di reagire in maniera sia proporzionale che asimmetrica alle iniziative occidentali. Lo conferma la recente risalita del prezzo del petrolio conseguente al taglio della produzione di 500.000 barili al giorno disposto autonomamente dalla Russia in risposta all’imposizione del tetto al prezzo del petrolio ad opera del fronte atlantista.
Ma soprattutto, le sanzioni hanno generato effetti a cascata altamente controproducenti per i loro principali promotori, in termini incremento della spinta alla de-dollarizzazione, di strutturazione di canali di pagamento alternativi a Swift e più in generale di elaborazione di sistemi alternativi a quelli “tradizionali”, dominati dagli Stati Uniti e dai loro alleati-sottoposti. Come si legge in una preoccupatissima analisi formulata dal «New York Times», «il commercio russo con l’Occidente è crollato, ma gli scambi commerciali tra la Russia e nazioni asiatiche, mediorientali, latino-americane e africane sono cresciuti […]. Le ricchezze della Russia rimangono troppo allettanti per essere tagliate fuori completamente.
Il richiamo di materie prime a basso costo nella disponibilità della Federazione Russa sta stimolando l’aggiramento strutturale delle sanzioni su una scala mai vista prima. Una “flotta fantasma” di petroliere non assicurate e difficili da rintracciare vaga per gli oceani per provvedere alla consegna di petrolio russo agli acquirenti di tutto il mondo.
I commercianti di materie prime con sede in Svizzera si sono spostati presso gli Emirati Arabi Uniti per definire la compravendita di carichi di petrolio, gas, carbone, fertilizzanti e grano russi. La Turchia si è accreditata come un canale fondamentale per le imprese intenzionate a continuare a operare in Russia, mentre lunghe colonne di camion attraversano i passi di montagna del Caucaso. Le raffinerie indiane e le società di stoccaggio di petrolio di Singapore stanno realizzando ingenti profitti acquistando petrolio russo scontato e rivendendolo in tutto il mondo. Attraverso una serie di intermediari, i microchip di fabbricazione occidentale continuano a finire negli elicotteri e nei missili da crociera russi. Piccoli Paesi come l’Armenia e il Kirghizistan si sono riciclati come utili depositi di telefoni, lavatrici e altri beni di consumo da spedire in Russia. Rispetto ai modelli prebellici, questo nuovo allineamento commerciale è meno efficiente, più costoso e più soggetto a interruzioni. Tuttavia, ha consentito alle importazioni russe di tornare ai livelli prebellici».---
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