martedì 3 maggio 2016

Maurizio Blondet - Cronache dal mondo in deflazione. 2° parte.




CRONACHE DAL MONDO IN DEFLAZIONE – di Luigi Copertino – seconda parte

Le conseguenze dell’indipendenza delle Banche Centrali (ma la soluzione non è quella di Milton Friedman)

A proposito del problema dell’indipendenza della Banche Centrali, Maurizio Blondet, su questo stesso sito, ha di recente (“Draghi ha fallito. Ma non è colpa sua, dopotutto”, 11 marzo 2016) scritto un interessante intervento che è bene rammentare. «Milton Friedman – scriveva dunque Blondet – è stato il guru supremo del liberismo e della deregulation monetaria, il fondatore della Scuola di Chicago,  il  venerato padre della dogmatica “meno stato più mercato”. Ebbene: pochi sanno (perché lo nascondono) che Friedman era contrario all’indipendenza delle banche centrali. Più specificamente, propose di subordinare la Fed al Ministero del Tesoro. Lo propose per motivi perfettamente coerenti con la sua teoria di nemico dei monopoli. La cosiddetta indipendenza concentrava il potere monetario in un unico “locus” in mano a persone che non rendevano conto a nessuno; la dipendenza della banca di emissione dallo Stato avrebbe avuto almeno il vantaggio di creare una dialettica fra le due entità, una concorrenza: in caso di errori si sarebbero accusate a vicenda. Ovviamente, Friedman vide che una banca centrale indipendente sarebbe stata troppo dipendente dalle opinioni dei banchieri, e avrebbe accontentato loro invece che l’economia generale; che l’indebita influenza delle opinioni dei banchieri avrebbe offuscato (nelle mente del banchiere centrale) la differenza che esiste fra i problemi che la banca affronta sul mercato del credito e i problemi della politica monetaria. Il montante della produzione di moneta è un atto politico, non tecnico. Molti studi negli anni ’70 avevano già dimostrato che più una banca centrale è indipendente, più l’inflazione cala, fino a divenire deflazione. (…)....
L’11 febbraio scorso, un fondo dell’Economist … notava con biasimo che le banche centrali sono “schiave dei mercati”: ovviamente i mercati finanziari, non i mercati rionali (di cui in deflazione, la banca centrale dovrebbe preoccuparsi). In quei mercati (Wall Street, Londra eccetera) da tempo “gli investitori hanno scoperto che, se fanno qualche capriccio infantile, le banche centrali accorrono alla loro riscossa. Sul lungo termine, ciò incoraggia comportamenti a rischio come quelli della fase che ha preceduto la crisi del 2007-2008”. E’ la scoperta del segreto di Pulcinella: il fatto notevole è che lo ammetta l’Economist. Che arriva addirittura a palare di “privatizzazione di profitti e pubblicizzazione delle perdite”. Ciò vuol dire una cosa: che il metodo è arrivato al capolinea. Nel gergo, si dice “il cavallo non beve”. Nella realtà, lorsignori sanno che non posso più sfruttare la colossale idrovora che ha sottratto capitali dal basso per profitti in alto (all’1%). Perché l’idrovora non pesca più. E insistere nel  far funzionare l’idrovora sarebbe stato ormai controproducente. (…). Fra le misure prese da Draghi, c’è un complesso meccanismo per cui la BCE “paga un interesse alla banca a cui presta denaro” se questa banca “presta molto a imprese e famiglie”. Un istituto che presta molto all’economia potrà essere finanziato dalla BCE “più degli altri e a condizioni più favorevoli”. Nobile tentativo. Peccato che le famiglie non abbiano stipendi e salari su cui indebitarsi, e che le imprese hanno già debiti andati a male presso le banche per 220 miliardi (in Italia). E gli interessi negativi ormai instaurati che cosa volete che siano? Un ulteriore furto alle famiglie: avete, poniamo, 100 mila euro in banca? L’anno prossimo saranno 98 mila. Secondo la mentalità distorta dei banchieri centrali, è una punizione per i risparmiatori, che dovrebbe spingerli a “investire”: dove? L’effetto sarà di far sentire le famiglie ancor più povere e inclini a spendere ancor meno. Interessante l’ululato che si è elevato dal governo tedesco e dalla Bundesbank: con i suoi trucchi Draghi mantiene le banche zombi? Verissimo, ma anche e soprattutto le loro. Draghi trasferisce il denaro dalla Germania  agli stati-zombie del Sud Europa, finanziandone il debito, incoraggiandone i governi a indebitarsi sempre più allegramente. “E’ la più grande redistribuzione di ricchezza in Europa dalla seconda guerra mondiale”, strilla Handelsblatt. Prima di tutto, il trasferimento è esattamente quello che sarebbe comunque avvenuto se l’euro fosse davvero una moneta unica, e l’avrebbero comunque pagato i tedeschi coi loro surplus di profitti; vero che ciò avviene in altri modi furbeschi. Ma vediamo l’alternativa. Prima del divorzio Tesoro-Bankitalia” il debito pubblico italiano era del 60% del Pil; oggi è salito al 130 circa.. La Francia, paese meglio governato, aveva un debito sul Pil del 20,7 % del Pil nel 1980; oggi, quasi del 100% e un deficit annuo che supera il nostro italiano, è al 4 per cento. Con inflazione allo 0 per cento, o sottozero, non ci sono che i quantitative easing e i tassi negativi della BCE che tengono galla il sistema. Non solo un rialzo dei tassi, ma un’interruzione del quantitative easing, aggraverebbe situazione di stati che sì, sono già falliti, provocandone la bancarotta. La Germania sarebbe contenta di trovarsi nella zona euro, da cui ha tanto guadagnato, nel mezzo del ciclone delle bancarotte di Italia, Spagna, Francia…? Magari a Berlino pensano di essere solvibili, come dicono i loro bilanci pubblici? Sì, se non ci fosse Dutsche Bank con i derivati  che la espongono per un multiplo del Pil tedesco. E le Sparkassen, sono solvibili? Davvero? Il punto è che l’intero sistema finanziario non è più adeguato ad una situazione dove grazie alla politica di austerità non c’è più crescita e né inflazione. Milton Friedman se fosse ancora qui, potrebbe commentare: Ve l’avevo detto».
Maurizio Blondet ha colto il nocciolo del problema attuale dell’eurozona sottoposta al diktat folle della egemonia tedesca. Tuttavia riguardo a Milton Friedman la questione è alquanto diversa. Infatti secondo la sua visione liberista fondata sulla “teoria quantitativa della moneta”, la Banca Centrale deve essere sotto controllo governativo affinché un “buon” governo liberista faccia spending crunch ossia tenga sotto controllo la quantità della base monetaria legale, in modo da tenere poi sotto controllo l’inflazione. Certamente lo stesso Friedman raccomandava, all’occorrenza, di “spargere moneta con l’elicottero”, ossia politiche monetarie espansive, ma anche questa prospettiva rientrava nella concezione quantitativista della moneta per la quale l’inflazione dipenderebbe dal montante del circolante immesso nel sistema. In altri termini Milton Friedman partiva dall’errato presupposto che l’inflazione dipende dalla eccessiva quantità di moneta legale in circolazione. Sicché il Governo controllando la Banca Centrale, ovvero l’Istituto di Emissione, dovrebbe tenere sotto controllo la quantità di moneta legale in circolazione in modo tale che essa non interferisca nel meccanismo, “spontaneo e sempre benefico”, di formazione dei prezzi sul libero mercato. Ora, tutto ciò si è dimostrato una illusione. Quando Reagan e la Thatcher hanno provato ad applicare la politica di “monetary targeting” proposta da Milton Friedman – ossia hanno provato a determinare preventivamente il montante di moneta in circolazione – il risultato è stato disastroso. Infatti la massa monetaria complessiva non diminuì affatto perché, a fronte della contrazione della quantità di moneta legale, crebbe inesorabilmente la quantità di moneta bancaria: quella creata ex nihilo dalle banche (indipendentemente da obblighi di riserva legale in depositi, obblighi che in molti ordinamenti non esistono affatto, e di cui le banche rispondono, in caso di fallimento, con il proprio patrimonio ed il capitale di fondazione).
Questo accadde perché la domanda di moneta da parte di famiglie ed imprese trasformò la moneta bancaria in un valido surrogato della moneta legale. La sostituzione della moneta bancaria a quella legale impedì, nell’immediato, che le politiche monetariste sprofondassero l’economia nella deflazione. Il fallito esperimento monetarista dimostrò, da un lato, che l’inflazione non dipende dalla quantità di moneta, legale o bancaria, in circolazione – il Quantitative Easing di Mario Draghi ha iniettato enormi quantità di moneta legale nel sistema ma non riesce a riportare l’inflazione vicina al 2% – e, dall’altro lato, che né i Governi né le Banche Centrali sono in grado di controllare la quantità complessiva di moneta – tutt’al più possono controllare solo quella legale – sicché l’unico strumento a disposizione della politica monetaria, per realizzare un almeno parziale controllo del circolante, è soltanto la manovra sul saggio di interesse o tasso di sconto. Ma senza affiancare alla politica monetaria anche una politica fiscale espansiva, ossia senza il deficit spending ed un ben studiato piano di cospicui investimenti pubblici, dalla depressione non si esce. Il fatto è che la moneta è endogena, non esogena, al mercato ossia dipende dalla domanda di moneta (non dalla sua offerta) sicché il mercato, dove non trova a disposizione moneta legale, sollecita ed accetta qualsiasi altro surrogato monetario per evitare la  contrazione del volume della produzione e dello scambio. Quindi il problema che ha lo Stato non è solo quello di controllare la Banca Centrale – con lo scopo di monetizzare a basso interesse il proprio fabbisogno di spesa di investimento, stimolatrice della domanda aggregata e quindi del mercato, e non per fare spending crunch come vorrebbero i monetaristi – ma anche quello di controllare la moneta di emissione bancaria, attraverso opportune normative che vincolano la moneta bancaria al solo uso di investimento, da parte dei privati, contestualmente reprimendone ogni uso speculativo.
Ma è efficace il Quantitative Easing? Ancora su Mario Draghi ed i suoi critici
La crisi iniziata nel 2009 è caratterizzata, come già quella del 1929 della quale essa ripete alcuni caratteri essenziali ad iniziare dal fatto che sono nate entrambe in contesti storici di liberalizzazione dei mercati finanziari e di liberismo dogmatico, è crisi da deflazione ossia da caduta vertiginosa dei prezzi con conseguente sovrapproduzione, per mancanza di domanda, implosione della produzione e disoccupazione di massa. Per combattere la deflazione è necessaria l’inflazione ossia l’aumento dei prezzi. Questo infatti è stato l’obiettivo al quale ha puntato la Bce di Mario Draghi quando annunciò la discesa in campo dell’Autorità monetaria europea: raggiungere un tasso di inflazione vicino al 2%. Un tasso che alcuni critici ritennero già al momento dell’annuncio del tutto insufficiente vista la gravità della deflazione in corso. Altri critici, di indirizzo monetarista ed ordoliberista, ad iniziare dai detrattori tedeschi di Draghi, invece paventarono impennate incontrollabili di inflazione su scala europea.
Dopo l’annuncio del 2012 ed alcuni iniziali provvedimenti presi nel 2014, il primo Quantitative easing fu varato un anno fa, esattamente il 9 marzo 2015. Oggi a distanza di un anno, mentre Draghi ha annunciato sia il prolungamento temporale di detta misura sia nuove misure come l’ulteriore diminuzione del tasso di interesse per arrivare fino a tassi negativi nel tentativo di aumentare la liquidità monetaria sul mercato, molti hanno iniziato a fare un primo resoconto sull’efficacia della politica monetaria espansiva della Bce di Mario Draghi.
Il primo rendiconto  stato proprio quello, ufficiale, della Bce ossia di Mario Draghi per il quale tale politica sta funzionando. Tuttavia questo è vero solo in parte. Perché se l’obiettivo di calmare la speculazione e quello di sottrarre i Paesi euro-mediterranei al default, per impossibilità di trovare mercato, a buon prezzo, per i propri bond, sono stati raggiunti, almeno provvisoriamente, non altrettanto può dirsi  per l’altro, essenziale, obiettivo che la Bce si era posto ossia l’innalzamento dell’inflazione su livelli prossimi al 2%.
Secondo i critici keynesiani di Draghi il QE (Quantitative easing) europeo sarebbe intervenuto troppo tarsi, a crisi ampiamente aggravatasi, mentre il pronto ed immediato intervento della Fed americano e quello Banca Centrale Nipponica hanno consentito a Stati Uniti e Giappone di uscire prima dalla crisi anche se non tutti i problemi nippo-americano sono stati risolti, ad iniziare dall’abissale divario ancora esistenti tra i redditi dei diversi ceti sociali.
I critici monetaristi ed ordoliberisti, in primis i conservatori tedeschi e la componente germanica del Board della Bce, invece stanno stupidamente esultando del fallimento del QE senza rendersi conto che, al contrario, detto fallimento ha messo una pietra tombale sulla “teoria quantitativa della moneta” e dunque sui presupposti stessi della scuola economica ortodossa, nelle sue diverse varianti da quella neoclassica “viennese” a quella monetarista. Infatti se la massiccia emissione di moneta legale, mediante acquisto a gogò di debito pubblico da parte dell’Istituto di Emissione, non riesce a portare l’inflazione né al 2% né a livelli superiori questo significa una sola cosa ossia che la relazione, supposta dalla “teoria quantitativa”, tra quantità di moneta in circolazione e livello dei prezzi, ossia l’inflazione, non ha alcun solido fondamento e che i fatti si sono incaricati di smentirla. O, perlomeno, che essa non è sempre vera, anzi quasi mai. Ne consegue, con buona pace di Hayek, Mises e Milton Friedman, che la causa dell’inflazione deve essere cercata altrove, in altri fattori, che non nella cosiddetta massa monetaria.
La persistenza della deflazione, anzi il suo aggravamento nonostante i massicci QE, compresi quelli nippo-americani, dimostra che non è nella moneta di per sé, e pertanto nella politica monetaria che da questo punto di vista è limitata, che sta il potere di accrescere la domanda per superare la deflazione se a fianco della politica monetaria, come dice lo stesso Mario Draghi, non interviene la politica fiscale ossia la politica di spesa pubblica. E’ la rivincita di John Maynard Keynes su Milton Friedman.
Attenti però all’equivoco
Ma – attenzione! – quando Mario Draghi ed altri invocano l’intervento della politica, ossia dei governi, spesso si insinua un grande equivoco. Quello per il quale tali interventi debbano consistere, in massima parte, in tagli delle tasse. Con due obiettivi: tagliare la spesa pubblica, e quindi ridurre il debito, ed aumentare il reddito disponibile per famiglie ed imprese per aumentarne il potere d’acquisto e la domanda in modo da consentire ai consumi di ripartire e di incentivare, mediante la riduzione delle tasse, gli investimenti privati. E’ vero che insieme a quelli privati si concede, vedasi il cosiddetto Piano Juncker (oltretutto presto arenatosi), anche uno spazio agli investimenti pubblici. Da realizzare devolvendo i tagli di spesa corrente all’aumento delle poste di bilancio destinati alla spesa di investimento, in conto capitale, e non attraverso una massiccia monetizzazione da parte della Banca Centrale per un ampio programma di lavori pubblici o, nella nostra era cibernetica, di iniziative pubbliche in settori ad alta remunerazione come le reti informatiche o la banda larga. Ma è altrettanto vero che, in questa prospettiva, il ruolo che gli Stati dovrebbero giocare continua ad essere considerato di rimessa, ossia al traino del ruolo del mercato – laddove keynesianamente, al  contrario, gli investimenti privati seguono quelli pubblici – piuttosto che da attore protagonista.
Si tratta, in altri termini, di una versione riveduta e corretta della teoria dell’austerità espansiva, secondo la quale il contenimento della spesa pubblica agevolerebbe gli investimenti privati, che, fino a qualche anno fa, ha costituito la dottrina ufficiale del FMI. Una dottrina opposta, come si diceva, all’idea keynesiana per la quale gli investimenti privati si dirigono solo dove c’è una forte domanda aggregata, quindi alti redditi, e non dove detta domanda è bassa e quindi bisognosa, soprattutto in momenti di recessione ovvero quando tutti hanno timore a spendere ed investire, di sostegno dall’unico soggetto capace di spendere senza timori in tempi di crisi ossia lo Stato, se fosse monetariamente sovrano. Nell’ottica keynesiana gli investimenti privati, lungi dall’essere spiazzati da quelli pubblici, seguono a ruota questi ultimi attratti dalla domanda aggregata sostenuta da politiche di equità salariale e di spesa pubblica di qualità.
La teoria ortodossa sull’origine monetaria di inflazione e deflazione confutata dalla crisi in atto  
Il persistere della deflazione nonostante i massicci QE sta dimostrando che la causa dell’inflazione è da cercarsi altrove e non nella quantità della moneta in circolazione. La deflazione, ossia il progressivo crollo dei prezzi, è causata dalla mancanza di domanda aggregata, sicché l’offerta resta insoddisfatta, la produzione non trova acquirenti né mercato, e di conseguenza i prezzi tendono inesorabilmente ad abbassarsi avvitando tutto il sistema nel vortice della recessione e della depressione. L’indicatore più evidente della deflazione in corso è il prezzo petrolio che continua a crollare dal momento che non c’è più la stessa forte domanda di greggio che c’era prima della crisi. La produzione ferma o ristagnante non ha bisogno di petrolio nelle stesse quantità di un tempo, da qui il crollo della sua domanda. La stessa Cina, in precedenza grande consumatrice di oro nero, ha tirato i remi in barca.
Significativamente una delle maggiori cause, non certo l’unica né quella originaria (questa sta nei giochi speculativi della finanza liberalizzata), dell’attuale deflazione è nell’andamento del prezzo del petrolio. La cosa è significativa dal momento che alla base delle due grandi fiammate inflazionistiche degli anni ’70 del secolo scorso – quella che fecero gridare alla fine della dottrina economica keynesiana e che imposero soluzioni monetariste come l’indipendenza delle Banche Centrali o le politiche monetarie restrittive – ci fu proprio il prezzo del petrolio, il quale, all’epoca, aumentò spropositatamente per via della contrazione dell’offerta a causa delle guerre arabo-israeliane, riflettendosi sull’aumento dei costi di produzione e quindi sui prezzi finali dei prodotti. Si trattava di inflazione da costi e da domanda di greggio (eccedente l’offerta). La massa monetaria, sia legale che bancaria, aumentò soltanto in una fase successiva all’aumento dei prezzi del greggio e dei prodotti finali, perché “tirata” dall’impennata di questi ultimi.
Pur non potendosi a priori escludere cause monetarie, che però dipendono da contesti storici oggi del tutto insussistenti, l’inflazione ha le sue cause principali o nell’aumento dei costi delle materie prime (inflazione da costi) o nell’aumento della domanda a fronte di una offerta non sufficiente (inflazione da domanda). La quantità di moneta in circolazione non c’entra nulla o poco, ed è solo un effetto e non come causa.
Quando il QE fu annunziato, nel gennaio 2015, la previsione era di un’inflazione all’1,5% nel 2016 ed all’1,8% nel 2017. Oggi le proiezioni più ottimistiche stimano che l’inflazione nel 2016 si assesterà al di sotto dell’1% (a febbraio 2016 era al -0,2%) e che l’obiettivo programmato dell’1,8% non sarà raggiunto neanche nel 2018. Tuttavia a parere di Mario Draghi senza il QE l’inflazione non avrebbe dato neanche il timido segnale di risalita che ha dato. Se ciò fosse completamente vero si potrebbe acconsentire con l’autodifesa dell’attuale governatore della Bce. La questione è che il crollo della domanda, e quindi del prezzo, del petrolio ha dato una mazzata al tardivo – tardivo per colpa della cecità eurogermanica – QE europeo. Ma anche depurando la bassa inflazione registrata dall’impatto negativo del prezzo del greggio e delle altre fonti energetiche, i dati ci dicono che l’inflazione “core” ha smesso di crescere. La politica monetaria  dimostra, dunque, tutti i suoi limiti nel tentativo di far ripartire l’inflazione e con essa l’economia dell’eurozona.
Il punto è che l’attuale rallentamento della domanda globale, non solo quella di materie prime e di fonti energetiche, indica una contrazione generale dell’economia produttiva per, appunto, carenza di domanda aggregata. Monetaristi e neoclassici sono dunque serviti e smentiti nelle loro fumose utopie da “austerità espansiva”. Mentre la domanda globale crolla, quella interna non riesce a sostenere il mercato neanche a livello nazionale.
Alcuni effetti positivi del QE. Ancora sulle critiche tedesche
Il QE ha comunque ottenuto l’effetto, positivo, di far scendere il tasso medio sui prestiti bancari a famiglie ed imprese, dando una spinta al credito. Una spinta certo limitata ma in ogni caso benefica sebbene di dimensioni molto ridotte. L’altro importante effetto del QE è stato l’abbassamento dei tassi di interesse sui titoli di Stato, consentendo, soprattutto ai Paesi euro-mediterranei in difficoltà e sotto attacco speculativo, di ottenere risparmi di bilancio sugli interessi sul debito pubblico. L’Italia ha risparmiato circa 6,5 miliardi ma anche la Germania ha goduto di un risparmio di 5,1 miliardi. Il problema è che se il QE fallisse nel suo obiettivo programmatico dell’inflazione all’1,8%, la perdurante deflazione sarà devastante per gli Stati europei, in particolare per quelli del sud, privi di sovranità monetaria, dato che mentre l’inflazione aiuta i debitori, al contrario, la deflazione è vantaggiosa per i creditori.
Allo scopo di sollecitare le banche a riversare sul mercato le ingenti risorse di liquidità da esse accumulate in questi anni di crisi, per timore che eventuali prestiti concessi a famiglie ed imprese si traducessero in ulteriori sofferenze bancarie che si sarebbero accumulate a quelle già in atto, la Bce a guida Mario Draghi ha recentemente abbassato ancora il già basso tasso di interesse sui depositi che le banche hanno presso la Bce, riducendolo di altri 10 punti a partire da un –0,30% ossia da un tasso già negativo ovvero sotto lo zero. Le banche naturalmente, nella loro tendenza autoreferenziale, hanno immediatamente levato gli scudi dal momento che in tal modo esse si vedono contratti i guadagni sulla rendita da interesse detenuta nei confronti della Banca Centrale. La “crociata” è guidata, non a caso, dalle banche tedesche, responsabili a suo tempo della crisi in Europa con il loro decennale prestar facile ai “piigs” per sostenere l’export tedesco, che ora, con l’appoggio della Bundesbank, innalzano moralistici argomenti contro l’“azzardo morale” di Draghi e dei governi “euro-sudici”.
Il problema principale dell’UE
Lo scenario dell’eurozona sta inoltre dimostrando che il vero problema è l’assenza di un’Autorità Politica Confederale che coordini le politiche fiscali nazionali, con manovre espansive di bilancio, ossia maggiori investimenti pubblici, unica politica che possa far uscire qualsiasi economia dalla depressione. Autorità Politica affiancata da una autorità monetaria – la quale dovrebbe essere pubblica dato che, in quanto “quarto potere” dello Stato o della Confederazione di Stati, dopo il legislativo, l’esecutivo, il giudiziario, non si vede nessun fondato motivo per cui la Banca Centrale deve essere patrimonialmente privata: la magistratura privata, come gli arbitrati, è una residua eccezione nell’ambito di uno dei poteri dell’Autorità Politica secondo l’accezione moderna montesquieiana – che agendo “sinfonicamente” con il governo politico ne sostenga gli sforzi monetizzando la spesa di investimento in un regime normativo che ne regoli l’uso in senso altamente qualitativo e contenga, reprimendolo, qualsiasi uso allegro e facile della spesa pubblica. In altri termini, la sola politica monetaria, come quella attuata nell’UE per vuoto politico, non basta.
«La situazione economica di Eurolandia – ha scritto Riccardo Sorrentino su Il Sole24ore del 10 marzo scorso – è sempre più difficile da risanare con la politica monetaria. I tassi (ufficiali) reali sono negativi dal 2011, ma le famiglie europee risparmiano una quota … crescente del loro reddito (…). I prestiti … non crescono (…) (nonostante che) Parallelamente l’offerta di moneta della Bce, la base monetaria …, è (…) (in) aumento, negli ultimi 18 mesi, del 57%. Questi sono i sintomi – come insegna da tempo Richrad Koo di Nomura – di una recessione da bilanci (balance sheet recession), che ha interessato … le economie di Eurolandia (…). Durante questo tipo di crisi l’obiettivo di famiglie e imprese è di ridurre i debiti e comunque, se non altro per le crescenti incertezze, di non farne di nuovi; mentre le sofferenze impediscono alle banche di prestare le risorse necessarie a una ripresa. La via d’uscita? La politica fiscale, che però in Eurolandia è affidata ai singoli governi. Quelli più “bisognosi” però non hanno più spazio per agire, un po’ per i vincoli del Fiscal Compact, un po’ perché non hanno la necessaria fiducia degli investitori di altre economie (…). E’ tutto il mondo, infatti, a essere in difficoltà, e ovunque la politica monetaria deve far fronte a vincoli globali avendo a disposizione armi “locali”, limitate a quella che le banche centrali chiamano la propria “giurisdizione”. (Sarebbero necessari) (…) interventi coordinati, che però non sembrano probabili. Un’analisi di Gustavo Reis, per la Oxford economics, mostra … che tre fattori globali comuni, uno legato ai prezzi delle materie prime, uno alla disinflazione nei paesi emergenti, uno agli effetti dei cambi, spiegano … la variabilità dell’inflazione globale. Tutto questo non significa che sia inutile ampliare il quantitative easing, o sia necessario – come chiedono i tedeschi – rinunciare a far salire l’inflazione al 2%. (…) però … dopo l’euforia da politica monetaria, è iniziata … una fase di disincanto sul potere delle banche centrali».
Oltretutto, in assenza di una Autorità Politica che sappia normare il comportamento degli operatori economici, ad iniziare dalle banche, può accadere che la politica monetaria espansiva, portando i tassi di interesse sui depositi verso lo zero, abbia come effetto collaterale l’innalzamento dei tassi sui mutui bancari con la conseguenza di parzialmente vanificare gli effetti espansivi della politica monetaria stessa. Accade, cioè, che le banche, se non impedite a farlo oltre la misura necessaria, nei periodi di crisi economica, per restare a galla a “filo d’acqua”, chiedendo ad esse un momentaneo sacrificio per il bene comune, cercano di recuperare oltremisura il costo che, con i tassi negativi, esse devono sopportare sulla liquidità dei depositi.
Le banche non fanno solo intermediazione finanziaria
Il fatto è che fino a quando non si comprenderà, anche a livello accademico, che le banche non fanno mera intermediazione finanziaria ma creano moneta ex nihilo sotto forma di “moneta bancaria”, perché tale è ogni accensione di prestito per effettuare la quale non è affatto necessario alla banca possedere in cassa l’equivalente in depositi – questi ultimi verranno dopo, alla fine del circuito finanziario, quando i beneficiari del prestito copriranno con moneta legale o altra moneta bancaria il mutuo originariamente contratto –, non si potranno porre le basi culturali per acquisire piena consapevolezza che, essendo esse non mere attività economiche, tali da risolversi riduzionisticamente in soli rapporti commerciali, patrimoniali o obbligazionari, ma innanzitutto funzioni politiche espressione della sovranità politica, nazionale o confederale, la moneta e l’attività creditizia, bancaria, anche laddove lasciate all’esercizio privato, non possono essere non controllate e regolate, per dirigerle a finalità politiche di bene comune, dall’Autorità Politica, pur affiancata da necessari organi a competenza tecnica.
Ma questa consapevolezza culturale, dalla quale sola può scaturire una “rivoluzione politica”, stenta, come detto, ad affermarsi anche a livello accademico se persino docenti universitari di economia, come Marina Brogi, insistono a scrivere (Il Sole24ore del 10 marzo scorso) che la redditività ed il profitto delle banche provengono dal «margine di interesse … ossia quanto si guadagna dall’intermediazione creditizia – raccolta di depositi ed erogazione di prestiti …» nonostante che sia ormai scientificamente acclarato (endogenità della moneta) che la sequenza reale dell’attività bancaria non è “raccolta depositi → erogazione prestiti” ma quella esattamente contraria “erogazione prestiti →raccolta depositi”. La scienza neoclassica ragiona ancora come su schemi concettuali validi, forse, secoli fa, nell’epoca del regime monetario aureo.
(Continua)
Luigi Copertino

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