lunedì 27 luglio 2015

Gaetano Colonna - Lezioni per tutti dalla crisi della Grecia

La Grecia ha avuto la sfortuna di trovarsi al crocevia di 3 elementi: bolla speculativa; democratizzazione del debito, rigidi comandamenti degli eurocrati [G. Colonna]. 
Dialogo fra sordi

Yanis Varoufakis, il ministro greco defenestrato per permettere l'accordo con l'Eurogruppo, ha descritto così le sue discussioni con i 19 ministri delle finanze dell'Eurozona:
"Non è che la discussione andava male, si rifiutavano proprio di discutere questioni economiche. Punto e basta. Tu presenti una proposta a cui hai lavorato, ti assicuri che sia coerente, e ti trovi davanti sguardi vuoti e inespressivi. È come se non avessi parlato. Quello che dici è indipendente da quello che dicono loro. Se avessi cantato l'inno nazionale finlandese, avrebbero avuto la stessa reazione".

Eppure Varoufakis non è affatto quell'estremista paleo-comunista che la stampa italiana ha spesso descritto: è un economista formatosi nelle migliori università anglo-sassoni, dove ha anche insegnato; è uno dei massimi esperti mondiali della "teoria dei giochi", un sofisticato metodo logico-matematico spesso utilizzato proprio nella simulazione di trattative diplomatiche. Queste sue elevate competenze tuttavia gli sono servite a ben poco: dovremmo chiederci perché......
Soprattutto dovremmo chiederci a cosa servisse quella trattativa fra sordi intorno alla quale i media hanno creato tanta suspence, quasi che da essa dipendesse il futuro della Grecia e dell'Europa intera. Fin dall'11 luglio, infatti, cioè prima che l'accordo capestro con la Grecia fosse raggiunto, lo stesso Fondo Monetario Internazionale, una delle parti in causa, ha distribuito a quello stesso Eurogruppo il seguente comunicato:
"Il debito pubblico greco è divenuto altamente insostenibile. (...) Il fabbisogno finanziario fino alla fine del 2018 è ora valutato in 85 miliardi di euro e ci si aspetta che il debito [pubblico] giunga al 200 per cento del PIL nei prossimi due anni, ammesso che vi sia presto un accordo su di un programma. Il debito greco può ora diventare sostenibile grazie a misure di riduzione del debito che vanno ben oltre ciò che l'Europa ha inteso prendere in considerazione fino ad oggi".
Come a dire: la Grecia è comunque fallita; o si riduce il debito, oppure i giochi sono fatti. Ma questo BCE, FMI, Unione Europea lo sapevano benissimo: da cinque anni, infatti, i vertici politici e finanziari europei sono perfettamente coscienti di quello che il FMI si è tardivamente sentito in dovere di mettere ora per iscritto.
Dunque, se tutti gli attori del dramma erano consapevoli che solo la riduzione del debito potrebbe impedire la rovina della Grecia, allora i 325 miliardi di euro di aiuti dati alla Grecia non vengono prelevati dalle tasche degli europei per la salvezza del popolo greco. È quindi ben chiaro che questo denaro semplicemente deve evitare che questa crisi aggravi quella generale del sistema finanziario europeo ed internazionale.

Come si distrugge un'economia

La Grecia, come tutti noi, ha avuto la sfortuna di trovarsi al crocevia di tre micidiali elementi che hanno caratterizzato l'inizio del millennio nelle economie europee:
- la bolla speculativa, nota come bolla dei mutui sub-prime, partita dagli Usa;
- la cosiddetta democratizzazione del debito, vale a dire la spinta esercitata dal mondo finanziario su aziende e consumatori a comprare, approfittando del basso costo del denaro, indebitandosi;
- i rigidi comandamenti imposti, senza alcuna reale giustificazione economica, dagli eurocrati.
Questi tre elementi hanno operato in modo fra loro interconnesso: la democratizzazione del debito ha favorito, per esempio, l'accesso al credito per consumatori che in realtà non guadagnavano abbastanza per sostenere i debiti via via contratti; le grandi società finanziarie, prime fra tutti la solita Goldman Sachs, hanno speculato ben oltre i limiti del lecito(1) per fornire a molti governi, tra cui proprio quello greco, gli strumenti finanziari che, alterandone i bilanci, consentissero il raggiungimento dei parametri di Bruxelles; questi limiti sono del tutto privi di senso, dato che oggi sappiamo che, ad esempio, il mitico 3% del PIL fu indicato a spanne da due oscuri funzionari che avevano il solo merito di aver studiato alla Scuola Nazionale di Statistica ed Amministrazione Economica di Parigi (2).
A tutto ciò nel caso greco si è aggiunta l'oggettiva esiguità delle dimensioni produttive di un Paese all'epoca di poco più di 11 milioni di abitanti (la regione Lombardia nel 2014 ne contava 10 milioni), con un PIL nel 2010 di 229 miliardi di euro (l'Italia nel 2010 aveva 1.548 miliardi di euro di PIL), con un consistente sbilancio commerciale e un sistema politico-amministrativo caratterizzato da clientelismo, inefficienza e corruzione. Ma tutto questo ancora non spiega nulla, così come non lo spiega da solo il successivo aumento del deficit pubblico, indicato come la colpa massima della Grecia.
Fin dai primi mesi del 2009, ben prima dello scoppio della crisi e della "scoperta" delle alterazioni del bilancio pubblico greco, il governo greco aveva iniziato a sostenere massicciamente le perdite del proprio sistema bancario, come hanno fatto tutti i Paesi occidentali, a seguito del crollo borsistico e bancario nord-americano. Da allora, i governi greci hanno sborsato 82 miliardi di euro a sostegno alle banche, come dimostra un accuratissimo studio di R&S Mediobanca (3).
E come è stato ripagato il governo greco dal sistema bancario nazionale? Molto semplicemente così:
"Le banche greche hanno trasferito 69 miliardi di euro ad una lunga lista di Paesi, in testa alla quale si trovano Turchia e Cipro, seguiti da Bulgaria, Romania, Regno Unito, Isole Marshall, Liberia, Serbia, Germania, Albania, Ucraina, Panama e Isole Maldive. Inoltre, furono effettuati probabilmente diversi trasferimenti di fondi a Paesi non inclusi nelle statistiche della BIS [Banca dei Regolamenti Internazionali, BRI]. Per esempio, alcune fonti affermano che i Greci hanno parcheggiato in Svizzera 200 miliardi di euro"(4).
Non sono state da meno le banche internazionali, così prodighe fino a quel momento nel finanziare l'economia greca:
"negli ultimi tre mesi del 2009 le banche europee hanno infatti mediamente ridotto l'esposizione sulla Grecia del 29%. Dopo lo scoppio in ottobre della crisi, hanno "scaricato" sul mercato 79 miliardi di dollari di debiti targati Atene. Il piede più lesto l'hanno avuto gli svizzeri, che in tre mesi hanno ridotto l'esposizione del 95%. Ma si sono difesi bene anche gli istituti del Belgio (-54%), dell'Austria (-24%) e dell'Italia (-20%)" (5).
Questa ingente quantità di capitali, speculativi e non, tra i quali si trovano ad esempio i lauti guadagni degli armatori greci, invece di essere a disposizione dell'economia del Paese si sono quindi riversati nei due grandi "depositi" dell'odierno capitale internazionalizzato: nelle isole del tesoro, gli intoccabili paradisi fiscali nei quali queste somme sono al sicuro, oltreché dal prelievo fiscale dei governi, dai controlli di qualsiasi sistema pubblico, dalla Svizzera alle Isole Marshall (6); negli strumenti speculativi (titoli, futures, derivati, CDS) che da allora fino ad oggi continuano ad essere utilizzati senza regole, per l'80% su mercati over-the-counter (vale a dire non regolamentati e non controllati), permettendo ad esempio agli hedge fund, i fondi speculativi ad alto rischio, dei vari George Soros, David Einhorn, Marc Mezvinsky, John Paulson, Dan Loeb di realizzare altissimi guadagni in tempi brevissimi, comprando ad esempio i titoli del debito greco a diciassette centesimi per rivenderli a trentaquattro (7).
A conti fatti, se i dati che abbiamo citato sono veri, quasi 150 miliardi di euro di capitali a disposizione del sistema economico-produttivo greco sono "spariti" proprio quando il Paese ne aveva maggior necessità, proprio mentre il governo cominciava a prendere dalle tasche dei cittadini, per salvare le stesse banche, altri 80 miliardi di euro, che quindi venivano anch'essi a mancare all'economia reale greca. Come si poteva pensare che, con la scomparsa di una simile massa di capitali, per oltre 200 miliardi di euro, in Grecia si potessero attuare investimenti in grado di rilanciare l'economia reale, permettendo di ripagare i debiti e risanare i bilanci?
È questo, prima del debito pubblico, il nodo delle crisi che hanno colpito le economie reali dei Paesi industrializzati a seguito della crisi dei subprime: un elemento cruciale, di cui solo ora pare ci si cominci ad accorgere anche in Italia, grazie ad un recente studio (8) che documenta la riduzione di oltre 100 miliardi di investimenti tra il 2007 ed il 2014, per oltre il 60% ascrivibile alle imprese. Quando i capitali disponibili in un sistema economico vengono tesaurizzati nei paradisi fiscali o utilizzati dalla finanza speculativa ed i risparmi rastrellati dalla pressione fiscale, è chiaro che non si alimenta più la creazione e lo sviluppo delle attività economiche reali: il sangue cessa di circolare nell'organismo economico.
A questo dobbiamo aggiungere l'ulteriore spoliazione che la Grecia ha subito e subisce attraverso il gigantesco piano di privatizzazioni che dal 2010 le è stato imposto come collaterale degli aiuti europei. Merita davvero visitare il sito del Fondo di sviluppo degli asset della Repubblica ellenica (Hradf), l'authority delle privatizzazioni greche, che ha selezionato i 1.000 beni più appetibili tra i 3.000 messi a disposizione. Si tratta di "centinaia di immobili e terreni lungo la costa, castelli e anche meravigliose terme naturali, 22 infrastrutture pubbliche (porti, autostrade, aeroporti) e 10 società che comprendono utility dell'acqua, fornitori e gestori di energia elettrica e anche il giacimento di gas naturale di Zalova" (9). Un patrimonio che doveva portare 50 miliardi di euro ai creditori della Grecia ma che pare non sia arrivato nemmeno ad 8, poiché i potenziali acquirenti hanno buon gioco a tirare al massimo ribasso. In questo modo, ovviamente, si contribuisce ad indebolire ulteriormente le possibilità di ripresa del sistema economico della Grecia, dato che gli introiti realizzabili, ad esempio, dalle infrastrutture pubbliche, finiscono nelle tasche delle società estere che li hanno rilevati.
A quel punto, visto che tutte le ottimistiche previsioni di ripresa della Grecia sono saltate (è davvero avvilente per la "scienza economica" rileggere a distanza di solo pochi anni quante affermazioni di esperti sono state polverizzate dalla realtà...), i grandi operatori finanziari, in primis il "fondo di salvataggio" europeo EFSF di cui torneremo fra breve a parlare, sono stati capaci solo di escogitare la grande soluzione finale, emettendo 5,5 miliardi di euro di nuovissimi titoli di debito greci con scadenza a 30 anni, maggioritariamente sottoscritti ovviamente da fondi speculativi privati (10)!


Come le banche socializzano le perdite

Detto questo, potrebbe sembrare che la questione riguardi solo la Grecia: che la disgrazia sia capitata solo a loro, insomma. Del resto, qualcuno ha proprio insinuato che sia tutta colpa loro. Ma abbiamo già visto che non è così: se di colpe dobbiamo parlare, le loro colpe infatti sono le colpe di tutti - avere subito il dominio del capitalismo finanziario. Siamo tutti Greci, dovremmo dire!
Questo è vero anche in un altro senso: i numeri dimostrano in maniera inequivocabile che nel corso del 2014 il "rischio" Grecia si è poco a poco trasferito dalle banche agli altri Stati. Le perdite del sistema finanziario internazionale inerenti alla crisi greca sono state in questo modo rapidamente "socializzate" tra i cittadini europei e anglo-sassoni.
Nel dicembre 2009 le banche di Francia e Germania, per fare gli esempi più significativi, erano esposte rispettivamente per 78,8 e 45 miliardi di dollari. Nel 2014 la situazione muta completamente dal momento che i soldi stanziati sono principalmente pubblici. "Lo Stato tedesco ha ridotto notevolmente l'esposizione bancaria (13 miliardi di dollari), aumentando decisamente quella pubblica (61,7 miliardi di euro), così come lo Stato francese, esposto per 46,5 miliardi di euro. L'Italia, infine, ha aumentato la sua esposizione del 510%: dai 6,86 miliardi delle banche nel 2009, ai circa 42 miliardi attuali, quasi esclusivamente pubblici" (11).
Sono dati impressionanti dei quali nessun governo europeo, tanto meno quello italiano, hanno reso conto alle opinioni pubbliche; sui quali non è stata fornita alcuna giustificazione o motivazione di interesse generale, a parte quella generica e, come abbiamo visto, falsa, di voler salvare la Grecia.
Un altro aspetto molto significativo di cui si è sentito ben poco parlare, è il mutamento intervenuto negli ultimi mesi anche nella distribuzione geo-politica del rischio greco. Risulta infatti che l'esposizione bancaria di Gran Bretagna e Stati Uniti è oggi divenuta superiore a quella tedesca, la più alta d'Europa: a fronte degli attuali già visti 13 miliardi di dollari tedeschi, infatti, UK e Usa contano insieme ben 24,9 miliardi di dollari (di cui 12,7 Usa e 12,2 UK) di esposizione delle banche verso la Grecia (12).
Questo mutamento spiega dunque l'insistenza anglo-americana perché si arrivasse a tutti i costi ad un accordo con il governo greco e le pressioni esercitate su quest'ultimo, ovviamente nei termini della completa accettazione delle condizioni imposte dall'Eurogruppo. Mostra anche, se ce ne fosse bisogno, la perdurante dipendenza delle scelte europee dai desiderata della finanza anglo-sassone che rappresenta comunque oggi il propulsore mondiale dell'intero sistema.
Del resto, la reazione di questo sistema alla crisi è stata tanto semplice quanto conservativa. Da un lato, come si è appena detto, il massiccio ricorso all'aiuto pubblico: secondo uno studio autorevole, esso vale per il 34%-35% di tutti gli aumenti di capitale eseguiti per cassa dalle maggiori banche mondiali nel decennio 2003-12, dunque per oltre un terzo. Dall'altro lato, con un gigantesco processo di concentrazione che ha portato alla riduzione da 90 a 61 del numero dei maggiori istituti bancari nello stesso arco di tempo. Tutto ciò mentre il 48% del portafoglio titoli delle banche Usa risulta ancora composto da "titoli strutturati, cioè rivenienti da operazioni di cartolarizzazione", e mentre "il tasso di copertura dell'esposizione massima al rischio di credito (che comprende sia le attività rischiose in bilancio che quelle "fuori bilancio") da parte del capitale netto tangibile" a fine 2012, era del 4% in Europa, del 5,4% delle principali banche giapponesi e del 6,1% delle banche degli Stati Uniti, in spregio ai tanto decantati parametri di Basilea (13)!
Il che vuol significa che il sistema bancario internazionale è sempre più concentrato ma sempre più esposto ad elevati rischi globali, in quanto ancora e sempre basato sulla creazione di moneta e debito dal nulla. Niente in sostanza è dunque cambiato rispetto a prima della grande paura dei subprime!


Le allucinazioni della sinistra europea

Tutto questo fa capire che la questione euro sì-euro no con cui si è distratta l'opinione pubblica della Grecia, portandola ad un referendum il cui esito è stato poi platealmente contraddetto dalle scelte del governo Tsipras, è in definitiva nient'altro che un utilissimo specchietto per le allodole, che mobilita la gente intorno a falsi obiettivi. La questione di fondo è la battaglia contro la finanza globalizzata, che opera senza alcuna possibilità di controllo da parte degli Stati e delle economie reali, pur esercitando su di esse un potere costrittivo e condizionante. Da questo punto di vista, bisogna dire che la sinistra europea ha dato di sé la peggior prova possibile, dimostrando di non aver né strumenti di lettura né metodi di interpretazione adeguati alla realtà. Essa si è mossa e si muove con un'approssimazione ed un'ambiguità che arrivano a far pensare, nel migliore dei casi, ad un'ormai costitutiva incapacità di comprendere come opera oggi quel capitalismo globalizzato contro il quale tanto ci si scaglia a parole.
Infatti, accanto all'inutile diatriba sull'euro, vi è una forse ancor più ottusa santificazione del ruolo dello Stato, una fascinazione che rischia di coltivare un'altra delle peggiori illusioni del presente. Il crescente potere delle istituzioni europee non democraticamente elette (Commissione, Eurogruppo, BCE) dimostra quanto lo Stato-nazione così come modernamente concepito sia ormai inadeguato di fronte alla volontà di potenza esibita dai grandi conglomerati speculativi della finanza internazionale ed alla soggezione totale a quei centri di potere delle classi dirigenti politico-economico-culturali che reggono i nostri Paesi. Abbiamo visto che l'Eurogruppo è stato capace di infrangere le stesse regole stabilite al momento della creazione dell'euro, come quella dell'art. 125 del Trattato dell'Unione Europea che vieta che uno Stato membro debba rispondere del debito di un altro Stato membro.
Lo stesso si deve dire di chi continua a illudere il pubblico con l'idea del rafforzamento delle Banche centrali degli Stati. Ci si tolga per questo lo sfizio di andare a vedere la composizione odierna del capitale della Banca di Grecia: il 33,3% è di istituzioni bancarie private, il 57,2% è dello Hellenic Finace State Fund (HFSF) il quale è interamente finanziato coi titoli dello European financial Financial Stability Fund (EFSF), il cosiddetto organismo di salvataggio europeo, il quale ha lo status giuridico, si osservi, di società privata di investimenti, di diritto lussemburghese. In essa, attraverso l'EFSF Market Group, investono le 39 maggiori istituzioni bancarie internazionali, tra le quali ritroviamo i grandi gruppi finanziari mondiali: da Citigroup a Deutsche Bank, da Goldmans Sachs a J.P. Morgan, da Barclays a Nomura a Unicredit... (14).
Non diversamente, la Banca d'Italia è posseduta dalle maggiori banche di cosiddetto "interesse nazionale". Ma anche qui non tutto è così semplice. Intesa San Paolo possiede il 31,22% della Banca d'Italia e Unicredit il 22,11%: da sole quindi hanno una più che ragguardevole quota proprietaria dell'istituto. Ma, tra i pacchetti azionari nelle due banche di "interesse nazionale" troviamo ad esempio un gigante del private equity, la società di investimenti Blackrock, di cui ci siamo più volte occupati (15), che possiede il più importante singolo pacchetto azionario di Unicredit (5,24%) ed il secondo maggior pacchetto azionario (4,897%) di Intesa San Paolo, dopo la Compagnia di San Paolo. Se questo spiega perché il premier Renzi, tra i suoi primi atti di governo, è andato a cena con il Ceo di Blackrock, Larry Fink (16), dovremmo esprimere dei dubbi che la Banca d'Italia risponda ancora ad interessi italiani.

Emancipare l'economia reale

Continuare a far credere quindi alla gente che sia lo Stato politico la forza in grado di riscattare la sovranità economica dei popoli rischia di evocare un "fantasma della libertà" dietro il quale possono comodamente lavorare gli odierni "padroni delle ferriere". Lo dimostra ad esempio l'ottuso trionfalismo con cui la sinistra sindacale italiana ha accolto il recentissimo accordo tra il governo italiano e Whirlpool, un passo che in conclude degnamente una delle vicende più vergognose del capitalismo e del sindacalismo triplicista italiano: dopo essere stato decantato per decenni come fiore all'occhiello del "modello adriatico" nostrano e dopo aver percepito per decenni miliardi di aiuti di Stato pagati dai contribuenti italiani, un celebre gruppo imprenditoriale italiano ha ceduto ad una multinazionale il know-how e il lavoro delle maestranze italiane, nell'acquiescenza più totale del governo regionale e nazionale, e dei sindacati. I prossimi anni ci diranno se è davvero in questo modo che si tutela il lavoro degli Italiani.
È tempo di liberarsi di queste abitudini di pensiero e di cominciare a concepire in modo realmente nuovo la questione sociale che oggi, come già agli inizi del XX secolo, torna prepotente alla ribalta. L'economia deve essere emancipata dal nuovo potere feudale dei "padroni dell'universo" (come gli speculatori non a caso possono auto-definirsi) e dalle classi dirigenti che li servono in obbedienza assoluta. Imprenditori, lavoratori e consumatori devono insieme esigere la piena sovranità economica nell'ambito dell'organizzazione sociale, sottraendola al potere della finanza ed alla pressione della partitocrazia. In quanto protagonisti del ciclo di produzione, circolazione e consumo, devono assumere poteri di direzione dell'economia, di gestione del credito e dell'allocazione dei capitali e dei mezzi di produzione. Per far questo esistono già sufficienti strumenti giuridici: associazioni interprofessionali di imprenditori, tecnici, lavoratori, consumatori e risparmiatori potrebbero per esempio rilevare le aziende in crisi, o entrare in lizza quando si privatizzano patrimoni pubblici. Alcuni esempi non mancano: occorre trasformarli in una procedura consolidata e ampliarne le potenzialità, ricorrendo a strumentazioni già esistenti: accordi di area, accordi di rete, eccetera. Non sono utopie, sono possibilità d'azione reali.
A fianco a questa economia emancipata, i parlamenti politico-amministrativi, una volta sottratti alla partitocrazia, devono fissare regole semplici e chiare che garantiscano come fondamentali principi democratici di responsabilità sociale la non-mercificazione del lavoro e della moneta. La cultura, la scuola, l'arte, fuori dai vincoli imposti dai programmi di Stato e dai condizionamenti dei partiti, devono alimentare l'intero organismo sociale, fornendo al Paese idee e competenze che lo rafforzino e gli conferiscano prospettive di lungo termine.
Questa grande trasformazione, di cui tutti i popoli avvertono sempre più forte l'esigenza, è da tempo a portata di mano: occorre solo acquisirne una piena consapevolezza, forgiare gli strumenti operativi e formare gli uomini in grado di metterla in pratica.
Anche la crisi della Grecia, nella sua lampante e devastante chiarezza, potrebbe diventare allora, come avvenne ai primi decenni dell'Ottocento, stimolo al risorgimento dell'Europa. 

NOTE
(1) http://www.monde-diplomatique.fr/2010/03/HALIMI/18882 (marzo 2010).
(2) V. Lops, "Parla l'inventore della formula del 3% sul deficit/Pil: «Parametro deciso in meno di un'ora, senza basi teoriche»", Sole 24 Ore, 29 gennaio 2014.
(3) Mediobanca Ricerche e Studi, Interventi dei Governi nazionali a favore delle banche e degli Istituti finanziari in Europa e negli Stati Uniti dal settembre 2007 al dicembre 2013 (aggiornamento al 31 dicembre 2013). Scaricabile dal sito di Mediobanca Ricerche e Studi. Per inciso, da questo studio si rileva che l'Italia ha "speso" 127 miliardi di euro, nello stesso periodo, in favore del suo sistema bancario. Gli Usa, al netto dei rimborsi, 2.000 miliardi di euro.
(4) Hans-Werner Sinn, The Euro Trap: On Bursting Bubbles, Budgets, and Beliefs, Oxford University Press, 2014, p. 145.
(5) Moriya Longo, "Banche UE in fuga da Atene: esposizione tagliata del 29%", Sole 24 Ore, 29 aprile 2010.
(6) N. Shaxon, Le isole del tesoro, Feltrinelli, Milano, 2012.
(7) "nel febbraio 2010 gli hedge fund speculavano sui Credit default swaps o Cds, contratti derivati per proteggersi da un default, ma usati dai fondi per guadagnare sull'incapacità del governo di Atene di onorare i suoi debiti. Verso la fine del settembre 2011, i bond greci andavano a ruba tra gli hedge fund, che pagavano appena 36 centesimi per ogni euro di valore nominale. Una scommessa dopo il primo salvataggio da 110 miliardi da parte della Commissione Ue, della Bce e del Fondo monetario internazionale, la famigerata troika, nel maggio 2010, per evitare il rischio dell'uscita di Atene dall'eurozona, che avrebbe avuto conseguenze imprevedibili sulla tenuta dell'unione monetaria, e puntando su un nuovo bailout da 130 miliardi, poi ratificato a febbraio 2012. Atene sprofondava, contagiando anche i Paesi della periferia dell'eurozona, ma grazie alla crisi greca l'americano Daniel Loeb, 1,3 miliardi di patrimonio stimato da Forbes, con il suo hedge fund Third Point ha guadagnato 500 milioni in meno di 6 mesi. Loeb ha cominciato a comprare bond ellenici all'inizio di luglio ad appena 17 centesimi, accumulando una posizione da circa un miliardo di dollari, mentre la maggioranza degli investitori scappava. E quando il 3 dicembre 2012 il governo di Antonis Samaras ha annunciato un riacquisto (buyback) di titoli greci a un valore di 34 centesimi, finanziato dagli Stati dell'eurozona, Loeb ha fatto jackpot". Giuliana Ferraino, Corriere della Sera, 8 gennaio 2015.
(8) Studio dell'Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre. Lo studio è scaricabile a questo indirizzo:
http://www.cgiamestre.com/wp-content/uploads/2015/07/Investimenti25-07-2015.pdf
(9) G. Faggionato, Lettera 43, 25 febbraio 2015.
(10) Si veda la presentazione agli investitori dello stesso EFSF:
http://efsf.europa.eu/attachments/EFSF%20ESM%20New%20Investor%20presentation%20July%202015.pdf
Sull'allungamento del debito come tendenza generale del sistema, vedi anche il mio:
http://www.clarissa.it/editoriale_n1936/La-missione-della-finanza-internazionale-un-debito-perpetuo
(11) Infodata, Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2015.
(12) J. Defterios, CNN Money, 29 giugno 2015.
(13) Le cifre sono dell'ottimo studio del centro Ricerche & Studi di Mediobanca, "Dati cumulativi delle principali banche internazionali 2014", scaricabile dal sito della società.
(14) si veda qui il dettaglio dei 39 gruppi finanziari:
https://www.bundesbank.de/Redaktion/EN/Downloads/Service/Service_fuer_Banken_und_Unternehmen/EBS/members_of_efsf.pdf?__blob=publicationFile.
(15) si veda per esempio:
http://www.clarissa.it/editoriale_n301/Padroni-dell-universo-e-sovranita-dei-popoli-il-caso-BlackRock
(16) per questo episodio si veda:
http://www.clarissa.it/editoriale_n1922/Primo-Maggio-con-la-BlackRock


Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1943/Lezioni-per-tutti-dalla-crisi-della-Grecia.

http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=122340&typeb=0&sconfinamento-del-conflitto-siriano-in-turchia

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