lunedì 28 gennaio 2019

(Francesco Floris – linkiesta.it) - La vera emergenza? Non sono i migranti, ma i magistrati che si occupano di migranti



I tre giudici del Tribunale dei ministri di Catania che hanno chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere per Salvini sono iscritti a Magistratura Democratica, corrente di sinistra delle toghe. Anche il pm che ha indagato sulla Diciotti. Che siano in buona fede o no si è creato un circolo vizioso.

(Francesco Floris – linkiesta.it) – 
L’ultima bagarre riguarda i tre giudici del Tribunale dei ministri di Catania che hanno chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere per Matteo Salvini: Nicola La Mantia, Sandra Levanti e Paolo Corda sono tutti iscritti a Magistratura Democratica, la corrente “di sinistra” fra le toghe. Come anche Luigi Patronaggio, il Procuratore ad Agrigento da cui ha preso il là l’indagine sulla nave Diciotti e che ha ipotizzato in prima battuta il sequestro a scopo di coazione a carico del leader leghista. “È punito con la reclusione da 25 a 30 anni” si legge nel codice penale. Tantini per il caso Diciotti, anche per un hater seriale del vicepremier. Alle polemiche sulle correnti fanno eco le parole del procuratore per i minorenni sotto l’Etna, Caterina Ajello, che ha chiesto con una lettera ufficiale che vengano fatti sbarcare i minorenni dalla Sea Watch 3, ferma nella rada del porto di Siracusa. O gli applausi, dopo l’intervento del segretario dell’Associazione nazionale magistrati di Catania, Antongiulio Maggiore, che ha espresso «preoccupazione e sconcerto per quanto accaduto» e per le parole di «di una gravità inaudita» pronunciate dal ministro dell’Interno in diretta Facebook dopo la richiesta dei magistrati sul caso Diciotti...
Si discute di immigrazione nei tribunali d’Italia: è iniziato l’anno giudiziario. Sotto il segno dei Gemelli dispettosi. Di Magistratura Democratica è anche il dottor Fabio Regolo, sostituto procuratore a Catania, il primo a ipotizzare una fantasiosa associazione per delinquere in seno alla ong spagnola Proactiva Open Arms, nel marzo 2018. Undici giorni dopo la vittoria della (futura) maggioranza giallo-verde nelle urne. Per lui gli iberici “umanitari” hanno messo in piedi un disegno criminoso. Nave sequestrata. Gli indagati si rifiutano di firmare l’atto perché steso solo in lingua italiana (Amanda Knox si è appena fatta un gruzzoletto a spese dei contribuenti su queste “mancanze”). Ma nel decreto di sequestro gli indagati e lo Stato di diritto vengono rassicurato sulla correttezza delle procedure: “Il presente è stato tradotto oralmente in lingua spagnola dal verbalizzante sostituto commissario Perino”. Chapeu per il sostituto commissario Perino.
A Proactiva contestano l’associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Associazione che generalmente è un accordo criminoso permanente, per commettere una pluralità di reati, in un arco di tempo indeterminato. Più atipica quella contestata a Proactiva: nata il 15 marzo 2018 e morta il 17 dello stesso mese. Dopo aver messo a segno, in meno di 48 ore, uno sbarco di migranti in Sicilia. Invece di chiamare Malta o lasciarli nelle mani della sedicente Guardia costiera libica. Un’associazione per delinquere che muore una seconda volta dieci giorni dopo: quando il Presidente dell’ufficio Gip di Catania, Nunzio Sarpietro, è chiamato ad esprimersi. E spiega agli inquirenti che per contestare il 416 “viene a mancare l’elemento essenziale del dato numerico dei tre associati” e che vi è “mancanza di seri elementi probatori circa la ricorrenza del delitto”. Prende il fascicolo e lo spedisce a Ragusa per competenza territoriale. Dove un altro Gip, Giovanni Giampiccolo, ricorda anche il significato dell’articolo 54 del codice penale: il reato è giustificato se chi lo ha commesso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo. Il Gip ragusano sancisce “la scriminante dello stato di necessità” e ordina il dissequestro della motonave Open Arms.
Tutte nozioni che il dottor. Fabio Regolo conosce. Gliele avranno spiegate i vertici di Marina militare, Unhcr, Governo italiano, Croce Rossa, Csm, prefetture, Comunità di Sant’Egidio il 20 e 21 febbraio 2015 a Palazzo Platamone, Catania. In quell’occasione il giudice è responsabile organizzativo di un interessante convegno, per conto di Area-Magistratura Democratica e Articolo 3-Movimento per la Giustizia. Titolo? “L’immigrazione che verrà. Dal respingimento a Mare Nostrum. Dall’Italia all’Europa”. In pratica: quando a fare le stesse identiche cose delle ong nel Mediterraneo è la Marina miliare, quello è “L’immigrazione che verrà” e “Dall’Italia all’Europa”. In caso contrario un’associazione per delinquere. Si può obiettare che sulla terra ferma solo gli stolti non cambiano mai idea. In mare aperto, invece, sono i furbi che sentono girare il vento prima degli altri. E dire che il giudice Regolo sa bene che cos’è la macchina del fango, perché l’ha provata sulla propria pelle. Quando stava alla sezione fallimentare di Vibo Valentia nascono sospetti su consulenze al fratello, che lavora in uno studio di commercialisti di Milano. In un giro di telefonate fra boss, avvocati dei boss, imprenditori legati al clan Mancuso e magistrati viene fuori il suo nome. Il Fatto Quotidiano titola “Magistrati in odore di mafia”. Lui è uno di questi. Tutto falso. Lo certificherà anche il Csm e ci saranno le scuse di alcuni giornali locali – ma visto come è facile?
Del resto è facile anche scrivere in un atto giudiziario, o lasciar intendere a vantaggio dei cronisti con i riflessi del cane di Pavlov, che l’Aids si trasmette attraverso i vestiti infetti e gli scarti alimentari dei migranti. Lo hanno fatto i suoi colleghi catanesi, Alfio Gabriele Fragalà e Andrea Bonomo, nell’inchiesta “Borderless” sulle navi di Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranée, che avrebbero smaltito illegalmente i rifiuti nei porti italiani per risparmiare soldi. Più semplice ancora è parlare di conversazioni fra uomini delle ong a bordo delle navi di soccorso e libici sulla terra ferma. Nastri intercettati via radio dall’intelligence, anche se non si è mai capito quale. Ecco la prova del grande complotto. Peccato che le comunicazioni “terra-bordo” – così si chiamano in gergo – siano ascoltabili su un canale a frequenze aperte, il 16. Basta trovarsi nell’area delle operazioni con un’imbarcazione, un aereo, un elicottero, una tavola da surf dotata di ricetrasmittente. Non serve nessuna intelligence e nessuna intercettazione. Ha dimenticato di dirlo il capo di Fragalà, Bonomo e Regolo quando lo svelò al mondo: Carmelo Zuccaro, l’uomo da cui due anni fa è partito il casino mediatico-giudiziario che oggi impedisce di parlare con serenità e serietà di immigrazione, morti in mare, esternalizzazione delle frontiere europee e chi più ne ha, più ne metta. Senza la sponda giudiziaria offerta da Zuccaro, nessuna delle politiche recenti targate Minniti-Salvini sarebbe stata possibile o realizzata in tempi così ristretti. Una solerzia che invece è mancata alla Procura di Catania quando si è trattato di processare Roberto Castiglione, ex sottosegretario all’agricoltura e Ras dell’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano, per l’inchiesta sul Cara di Mineo, tra i più importanti centri per richiedenti asilo della penisola. Quasi quattro anni ci sono voluti per la richiesta di rinvio a giudizio. Non male per un magistrato che andava in Parlamento a spronare la politica, dicendo che «la giustizia ha tempi troppo lunghi». Carmelo Zuccaro non è iscritto a Magistratura Democratica ma a UniCost: Uniti per la Costituzione, i centristi togati. Salvini a inizio mandato ha detto di volerlo incontrare. Chissà come è andata.
A Catanzaro c’è invece quello che vuole «mandare 50 uomini dei servizi infiltrati in Libia e in Centro Africa da dove partono i flussi dei migranti». Così «vediamo chi organizza i viaggi». Il magistrato Nicola Gratteri si autodefinisce «non esperto» davanti al Comitato parlamentare di controllo e vigilanza su Schengen, Europol e Immigrazione, perché lui ogni giorno non si interessa di «questo pessimo servizio Taxi che c’è nel Mediterraneo». Eppure non resiste proprio alla tentazione di dire la sua su come risolvere la sfida globale del millennio – o forse no? –, l’immigrazione africana in Europa. Che cosa dovrebbero fare i 50 uomini bianchi dell’Aise a spasso per le strade di Benin City, Asmara o Bamako non è chiaro. Come non è chiaro quale effetto deterrente potrebbero avere su Mamadou – uomo maliano che vive a Milano – che se ne è andato dopo essere stato sfregiato in faccia dal padre per essersi innamorato di una donna cristiana. O su Andrew – ragazzo nigeriano che chiede l’elemosina in circonvallazione – ex responsabile della sicurezza sul lavoro per società controllate da Eni e Saipem nell’Edo State. Prima che il crollo a picco del prezzo del petrolio distruggesse il suo e altri migliaia di posti di lavoro in patria. Gli 007 potrebbero comprare tanta benzina e fare il pieno un paio di volte in più l’anno per restituirgli un mestiere? Certo sortirebbe l’effetto di far calare i migranti economici. E aumentare quelli climatici.
Chissà se il re delle inchieste sulla ‘ndrangheta ha parlato della sua idea “africana” con il ministro dell’Interno, durante la recente cena fra magistrati, politici e imprenditori, organizzata dall’associazione “Fino a prova contraria” della giornalista Annalisa Chirico. Di certo a quel convitato è stato aggiunto un posto a tavola anche per Francesco Lo Voi, Procuratore Capo a Palermo. Il suo ufficio ne sa qualcosa di sparate sull’immigrazione. A bei tempi lo si chiamava corto circuito mediatico-giudiziario: inchieste fatte e “lanciate” per sortire una buona impressione su capo redattori e titolisti dei giornali. Che nome abbia oggi questo meccanismo non sappiamo, fatto sta che nella procura del capoluogo siciliano rimangano celebri le conferenze stampa a inviti nell’ufficio del capo, dove solo alcuni adepti della carta stampata, e non, potevano accedere. Celebri le mirabolanti inchieste del gruppo “Tratta e immigrazione clandestina”, coordinato da Calogero (chiamato affettuosamente “Gery”) Ferrara, che vede jihadisti nei barconi da tutte le parti. Salvo dimenticarsi di contestare reati connessi al terrorismo o l’aggravante nei processi. È il caso dell’inchiesta Scorpion Fish, che smantella un gruppetto di italiani e tunisini che trafficano in migranti e sigarette fra il nord Africa e la Sicilia. Per la precisione: una cinquantina di migranti in un anno e 102 chilogrammi di tabacco di contrabbando – queste le evidenze investigative. Nelle carte compare un’intercettazione. Questa: “L’uomo chiede se lo sceicco con cui aveva parlato e ha detto che dovevo partire alle 8; Amine risponde che è un bugiardo, parla e basta”. Lo “sceicco” aizza gli inquirenti. Che parlano di rischio per la sicurezza nazionale e miliziani votati alla jihad pronti a partire. Si sprecano i titoli sulla longa manus integralista dietro gli sbarchi. Poi non se ne parla più: né i magistrati, né la Guardia di Finanza che ha condotto le indagini.
A nessuno viene in mente di verificare se in Tunisia esistano effettivamente sceicchi, con il loro carico immaginario di pozzi di greggio, Ferrari e harem. O di osservare per qualche secondo le generalità dei due capi dell’organizzazione criminale – Kamel e Jabranne, padre e figlio – che di cognome fanno “Ben Cheikh”. Parola che traslitterata significa proprio “sceicco” in arabo, oltre che un’altra mezza dozzina di significati. Il 20 dicembre 2018 si va a sentenza per il filone più corposo del processo, celebrato con rito abbreviato: due tunisini della “banda dello sceicco”, Mongi Ltaief e Anis Beltaief, vengono assolti per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste, stabilisce la gip Annalisa Tesoriere di Palermo. Venti giorni dopo, il 9 gennaio, vengono indagati nuovamente dagli stessi magistrati per un’inchiesta fotocopia: associazione per delinquere, favoreggiamento dell’immigrazione, contrabbando di sigarette e l’immancabile rischio per la sicurezza della Repubblica. Questa volta non ci sono sceicchi o sultani, ma un uomo della banda che sui propri profili social condivide contenuti relativi alla guerra santa contro gli infedeli. Conseguenza indesiderata di queste inchieste, e dei comunicati stampa che le accompagnano gridando al “rischio per la sicurezza nazionale”, è che ogni qual volta che sulle due sponde del Mediterraneo viene arrestato uno scafista tunisino, parte la gran cassa di “infiltrazioni jihadiste” e foreign fighter di ritorno dalla Siria che vogliono colpire in Europa. Poco importa che Anis Amri – il terrorista dei mercatini di Natale a Berlino – si sia radicalizzato nelle carceri italiane. Non prima di salire sul gommone. Poco importa che rispondendo ad un tweet estivo di Matteo Salvini che parla di «9 estremisti islamici» fermati mentre cercano di imbarcarsi verso l’Italia, il portavoce della Guardia Nazionale tunisina, Houseem Jebabli, abbia detto: «Non c’erano progetti terroristici contro l’Italia. Volevano fuggire dalla Tunisia alla ricerca di una vita migliore».
Una grana questi social network per gli inquirenti. Per esempio quando Calogero Ferrara lancia l’11 giugno sul suo profilo Facebook il presidio “Aprite i porti” a Palermo. Corredato da un suo commento: «Sono stato tante volte al porto quando arrivavano le navi cariche di persone in fuga da condizioni terribili… Ho ammirato l’abnegazione delle nostre forze dell’ordine e di tutto il personale impegnato nell’accoglienza e nelle indagini con risultati eccezionali.. Ho visto le facce dei disperati e di chi aveva perso amici e familiari e sentito l’odore della morte..di quella che impregna l’aria e ti rimane addosso per giorni.. Tutto questo non verrà cancellato dalle decisioni razziste di piccoli uomini.. Il mondo è migliore se è un luogo senza confini.. Partecipate tutti».
Il mondo sarà anche un luogo migliore senza confini ma va spiegato sopratutto a un uomo estradato a Palermo dal Sudan e che da due anni vive dietro le sbarre. Perché è di nuovo il gruppo di “Gery” Ferrara a partire da chat e foto su Facebbok per dare il via alla madre di tutte le inchieste sull’immigrazione: “Glauco”, la prima volta di una procura siciliana assieme alla National Crime Agency del Regno Unito, con la partecipazione della missione europea contro i trafficanti “Sophia” e del governo del Sudan. Sul cui Presidente pende un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma non si può spaccare il capello in quattro e quindi il Sudan consegna alle autorità europee un eritreo a caso: Medhanie Berhe invece di Medhanie Yehdego Mered, soprannominato “il Generale” e che sarebbe uno dei più sanguinari trafficanti di esseri umani della storia. Lo scambio di persona viene certificato da dna, riconoscimenti dei famigliari, perizie foniche e una serie infinita di prove presentate dalla difesa e raccolte nel libro “Il Generale” del giornalista Lorenzo Tondo, corrispondente del Guardian. Da due anni l’uomo è al carcere Paglierelli di Palermo. La sua innocenza e la sua libertà non valgono il fallimento di un intero sistema investigativo internazionale o le politiche di accordi con i Paesi africani per lo scambio di informazioni di polizia e di intelligence. Si fanno i prigionieri, meglio non fare domande – curioso per chi di mestiere fa interrogatori.
Che Gery Ferrara, Francesco Lo Voi, Carmelo Zuccaro, i giudici di Magistratura Democratica e Luigi Patronaggio lo sappiano o meno, che siano in buona fede o no, oramai non conta più. Si è creato un circolo vizioso. Quando ipotizzano 30 anni di carcere per Salvini o tengono in prigione un eritreo innocente per 24 mesi, sacrificato sull’altare di una strategia più amplia del destino del singolo, stanno facendo politica. A pagare dazio per tutti è proprio la giustizia.-----

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