(pressreader.com) –
Questa volta ha ragione il Pd: il ministro delle Infrastrutture e Trasporti Danilo Toninelli (5Stelle) non può parlare di “pressioni interne ed esterne”, cioè dal suo stesso ministero e dalla società Autostrade per l’Italia, contro la sacrosanta revoca della concessione, e poi tacere. Di quelle pressioni deve anzitutto indicare gli autori e il contenuto. Se si è trattato di amorevoli consigli verbali per dissuaderlo dal proposito assunto dall’intero governo, premier Conte in primis, chi glieli ha rivolti dal suo dicastero dev’essere immediatamente rimosso, mentre per Autostrade il problema non dovrebbe porsi, visto che come concessionaria ha i mesi contati. Se invece si è trattato di pressioni vere e proprie, magari accompagnate da minacce di ritorsioni, il Codice penale le punisce con precise fattispecie di reato fino alla “violenza o minaccia a corpo politico” (art. 338 Cp, lo stesso che è appena costato pesanti condanne in primo grado agli imputati del processo sulla trattativa Stato-mafia): in questo caso, dopo la doverosa denuncia in Parlamento, Toninelli dovrebbe precipitarsi alla Procura della Repubblica con un esposto corredato di nomi e i cognomi. L’unica cosa che non può e non deve accadere è quello che succedeva in passato, prima dell’avvento del cosiddetto “governo del cambiamento”: il politico che lancia il sasso e nasconde la mano e il caso che finisce a tarallucci e vino, senza colpevoli né innocenti....
Purtroppo, forse per l’emozione di trovarsi una volta tanto dalla parte della ragione, il Pd s’è subito impegnato per passare da quella del torto. Non una, ma due volte in un sol giorno. La prima, con la ridicola accusa al ministro pentastellato della Giustizia, Alfonso Bonafede, di aver mentito sui rapporti con l’avvocato-tuttofare Luca Lanzalone (ora agli arresti con l’accusa di essersi fatto corrompere dal costruttore Luca Parnasi). Bonafede aveva dichiarato di aver conosciuto Lanzalone nel 2015, quando il sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, lo selezionò tra molti civilisti e amministrativisti come consulente del suo Comune per seguire il concordato preventivo dell’azienda municipalizzata dei rifiuti (poi salvata dal crac proprio grazie all’ottimo lavoro di Lanzalone). E di non aver mai intrattenuto con lui rapporti professionali (anche Bonafede è avvocato), ma soltanto politici (Bonafede era nello staff Enti locali del M5S) a proposito della consulenza livornese, poi replicata a Roma. Ieri, dalle carte dell’inchiesta Parnasi, è uscita una email in cui Bonafede invitava nel proprio ufficio legale Lanzalone, il sindaco e l’assessore Lemmetti.
Per fare affari? No, per fare il punto sulla consulenza e trovare il modo di salvare la municipalizzata decotta. Proprio come il ministro aveva sempre dichiarato: dunque non è lui che ha mentito, ma i suoi comici accusatori.
L’altra questione che vede il Pd dalla parte del torto riguarda Anna Finocchiaro, ex pretore a Enna ed ex pm a Catania, poi parlamentare dal 1987 al 2018 e ora rientrata in magistratura. Per legge, avrebbe dovuto tornare da dov’era venuta, cioè a fare il pm a Catania oppure, se era stata candidata in quel collegio, in un’altra Procura. Antonio Ingroia, soltanto candidato e non eletto (una sola volta), nel 2013 chiese di rientrare dall’aspettativa elettorale alla Procura nazionale antimafia, ma il Csm lo sbatté a fare il pm ad Aosta, tant’è che lui preferì lasciare la toga. Annuzza invece ha i suoi bei santi in paradiso. Il 18 aprile, un mese e mezzo dopo aver perso le elezioni, il ministro scadente e scaduto Andrea Orlando l’aveva paracadutata last minute al ministero di via Arenula, al dipartimento Affari di Giustizia con mansioni amministrative e con l’avallo del peggior Csm della storia repubblicana (magari in attesa di promuoverla con un concorso ad hoc a Strasburgo, come giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo). Cioè l’aveva lasciata in eredità al nuovo governo, come se il ministero fosse casa sua a vita e se il suo successore non avesse il diritto di scegliersi i collaboratori che preferisce. Infatti ora il neoministro Bonafede ha scritto al Csm che non intende avvalersi dei preziosi servigi dell’ex ministra del Pd, invitandolo a trovarle un’altra occupazione, possibilmente come magistrato.
Apriti cielo! Annuzza nostra protesta sul Corriere, strillando alla lesa maestà: “Non capisco questa decisione: dopo quasi 30 anni in Parlamento (che poi sarebbero 31, ndr) non posso tornare a fare giurisdizione attiva… I giudici che fanno politica non hanno la terzietà per rientrare nel loro ruolo, l’ho sempre sostenuto pubblicamente. E Bonafede ha anche avanzato l’ipotesi di una legge in questo senso”. Già, peccato che questa legge non esista perché la Finocchiaro ha avuto solo 31 anni per farla approvare e non ne ha avuto il tempo, o se n’è scordata. Ora – dice – “aspetto che il Csm si occupi della questione, poi semmai chiederò un’interlocuzione”. A chi? A Bonafede, che – ricorda lei, elegantissima come sempre – osò attaccarla quand’era ministra dall’opposizione, e lei mai gli replicò perché “come si dice dalle mie parti, non si può mica tirare una pietra a ogni cane che passa”. Che pensiero gentile: il nuovo ministro è un cane. Comunque un bel progresso, dopo tanti somari. Ora però la ruota gira e la Pinocchiaro col naso lungo deve rassegnarsi: a 63 anni suonati, le tocca tornare a lavorare. Magari, se ha perso per strada la “terzietà” e non riesce proprio a ritrovarla, potrà chiedere di fare il giudice civile o, come pm, di occuparsi di scippi e furti d’auto (lì è difficile imbattersi in qualche politico, almeno in teoria). Oppure di abigeato, di genepì adulterato e di fontine ammuffite in una sede giudiziaria dall’aria salubre e frizzante: la Procura di Aosta.
“A lavorare” di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 5 settembre 2018
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