Come si vive davvero in Russia, propaganda a parte? Come ha affrontato la popolazione locale il lungo governo di Putin e la guerra scatenata l’anno passato? Il DiariodelWeb.it lo ha chiesto a Marco Maggi, imprenditore italiano che vive a San Pietroburgo dai primi anni 2000, ha ottenuto la cittadinanza russa e fondato un tour operator che, nonostante i comprensibili problemi provocati dalla situazione geopolitica internazionale, non ha smesso di organizzare viaggi «impossibili» verso la Russia. Colpito da un grave problema di salute, durante sei lunghi ricoveri al policlinico Gemelli, Maggi ha deciso di raccontare la sua storia in un libro che ha pubblicato da qualche settimana, intitolato «Russo fino al midollo».
Marco Maggi, come scoprì la Russia per la prima volta?
Per una casualità. A Praga, nel Capodanno 2001, incontrai Olga, che sarebbe diventata mia moglie, e di lì a tre mesi mi invitò ad andarla a trovare.
Non ci era mai stato?
No, non la conoscevo per niente. In compenso ero un grande girovago: da ragazzo avevo vissuto a Chicago, a Saint Louis, a Berlino, in Svizzera. Mi piaceva sperimentare altre nazioni perché già all’epoca mi sentivo un po’ stretto in Italia.
Come fu l’impatto iniziale?
Pesante. All’epoca si viveva ancora la coda del degrado degli anni ’90, specialmente a San Pietroburgo: macchine vecchie, condomini devastati e puzzolenti, giusto un paio di supermercati e destinati per lo più ai turisti.
E allora, di tutti i posti in cui era stato, perché proprio la Russia l’ha attratta così?
Il motivo è difficile da spiegare: si dice che è la Russia a scegliere te. Ci ho visto grandi potenzialità di crescita, ma anche una popolazione più simile agli italiani, nonché a me in particolare.
C’è un rapporto privilegiato tra russi e italiani.
I russi ci adorano. Noi italiani, in Russia, godiamo di un’accoglienza speciale: molti ragazzi, come me, ci sono arrivati senza saper fare niente e hanno creato dei piccoli imperi.
Questo rapporto è rimasto tale anche oggi, che lo scontro politico è molto acceso?
Sì. Io ho organizzato dei viaggi per i turisti italiani, in particolare per quelli che ho chiamato «amici della Russia», perché in queste condizioni particolari in pochi sono disposti a viaggiare. Quando sentono parlare italiano, i russi si avvicinano sempre entusiasti. Evidentemente sanno che la popolazione, a prescindere dai politici e dai media, tiene ancora a loro.
Rispetto alla descrizione desolante che tracciava prima, in questi anni come ha visto cambiare il Paese?
In maniera radicale e molto rapida. Nel 2003, per il centenario di San Pietroburgo, la città iniziò a ripulirsi. Da quel momento, fino al 2008, anche la qualità dei servizi e il tenore di vita subirono un’impennata.
E poi?
Le crisi internazionali, la Crimea, il Covid, l’operazione speciale hanno inflitto dei rallentamenti. Che non impediscono, però, di continuare tuttora la crescita e lo sviluppo, sebbene più lentamente. Purtroppo, in Europa e in Italia assisto alla tendenza contraria.
Il suo racconto è molto distante da quello che riportano i media occidentali.
I media riportano solo le notizie negative, amplificate al massimo in chiave anti-russa. In vent’anni non ne ho mai letta una positiva, eppure ce n’erano: dall’economia agli eventi sportivi alle grandi opere.
Si racconta uno Stato illiberale e antidemocratico.
Se per libertà si intende quella di organizzare un gay pride, sfilare in piazza con le mutande borchiate, allora in Russia non si può fare. Ma c’è libertà di fare impresa senza burocrazia né capitali di partenza, di formarsi una famiglia, di girare per strada o al parco a mezzanotte senza rischi per la sicurezza. Io considero queste libertà più importanti.
Quanto alla libertà d’espressione?
Leggo che non si potrebbe scrivere contro la guerra, ma non è vero. Basta andare sui social russi e si trovano molti gruppi anti Putin. In compenso, su Facebook, se sfori un minimo dalla narrazione prevalente, subito ti arriva un ammonimento, una segnalazione, una censura, un blocco. I fact checker sono diventati una sorta di nuovo ministero della verità.
Qual è il vero sostegno dell’opinione pubblica russa nei confronti di Putin, che ha annunciato la sua ricandidatura alle elezioni di marzo?
Quello che viene indicato dalle statistiche: 70-80%. C’è un 20-30% che non lo sopporta, molti dei quali sono andati via dopo l’operazione speciale. La maggior parte di questi è rappresentata dai nuovi russi, i giovani che non ricordano la vecchia Russia dei tempi sovietici o di Eltsin. Spesso hanno una vita più agiata degli europei, eppure si lamentano della dittatura. Oppure ci sono i nostalgici dell’Urss, che preferivano ricevere i beni dallo Stato senza far nulla.
E cosa pensano i russi della guerra?
Non viene interpretata come una guerra imperialistica, ma difensiva, che sperano finisca il prima possibile. Non avrebbero mai e poi mai voluto un conflitto con gli ucraini, che non sono così differenti da loro e hanno una storia comune.
Perché allora ricorrere alla cosiddetta operazione speciale?
La tensione è stata creata nel 2014 dalla minoranza violenta messa al potere in Ucraina dagli Usa con un colpo di Stato. Per otto anni si è tentata la mediazione diplomatica, per fermare la guerra civile e i bombardamenti sul Donbass, ma anche per far capire le preoccupazioni dei russi per l’accerchiamento. La Nato si è spinta a costruire basi sui Baltici, a pochi chilometri da San Pietroburgo, al confine di casa.
Alla fine?
Alla fine hanno capito che si sarebbero dovuti muovere. Più tempo aspettavano, più l’esercito ucraino e il regime al potere si sarebbero rafforzati.
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