venerdì 4 marzo 2022

4 Marzo 2022 Pubblicato da Marco Tosatti - Zamax. Il “Ratto dell’Occidente”, la Russia e l’Ucraina.

 


Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, mi sembra interessante offrire alla vostra attenzione questo articolo pubblicato  dal sito Zamax,, che ringraziamo per la cortesia, che tratta delle radici della crisi attuale con la guerra in Ucraina. Buona lettura.

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Al momento del suo crollo l’«Impero Sovietico» era costituito dall’URSS e dai paesi del Patto di Varsavia. Oltre alla Russia, 14 erano le repubbliche socialiste sovietiche che componevano l’URSS e 6 i paesi che componevano il Patto di Varsavia oltre all’URSS. Quindi l’«Impero Sovietico» oltre alla Russia era composto in tutto da altre 20 entità nazionali. Tutte ritrovarono l’indipendenza dopo il crollo, se mettiamo nel conto i paesi del Patto di Varsavia, la cui indipendenza era solo formale. Siccome la Germania Est si riunì poi alla Germania ovest, mentre la Cecoslovacchia si divise fra Cechia e Slovacchia risultano sempre 20 i paesi indipendenti che ritrovarono la loro libertà dal giogo sovietico circa 30 anni fa.

Quanti di questi 20 paesi sono stati «riconquistati» da Mosca? Strettamente parlando, neanche uno. In pratica solo uno è oggi sotto il suo controllo, la Bielorussia (9 milioni di abitanti), la quale però, fra alti e bassi, fin dall’indipendenza è rimasta un’autocrazia legata a Mosca. Mosca ha anche il controllo di fatto dell’Abcasia (250.000 abitanti), dell’Ossezia del Sud (50.000) – territori oggetto di disputa con la Georgia – della Crimea (2 milioni di abitanti) e – prima dello scoppio del presente conflitto – di parte del Donbass ucraino (che ha 7 milioni di abitanti complessivi).

Attualmente, insieme alla Russia, altre 4 ex repubbliche sovietiche fanno parte della Unione Economica Euroasiatica: Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghistan.

9 dei 20 paesi sopramenzionati, tutti europei, entrarono, nell’arco di tempo costituito dai 2 mandati presidenziali USA di Clinton e di Bush Jr., nella NATO e nell’Unione Europea: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria. Nel 2004 questo processo ebbe termine.

E realisticamente questo processo era inevitabile. Per questi paesi – ma specialmente per i paesi baltici e la Polonia, che nei secoli hanno sviluppato una specie di timore atavico per la potenza russa – entrare nell’Unione Europea e nella NATO era come chiudersi col lucchetto dentro l’Occidente. E in barba ai comprensibili malumori che si nascondevano dietro l’impotenza nella Russia allo sbando dell’ultima decade del XX secolo e in quella in ricostruzione ma ancora molto debole dei primi anni di Putin, ciò costituiva uno sviluppo naturale e opportuno: l’Europa veniva «riconquistata» fino ai suoi confini «naturali» col «mondo russo», quello slavo-orientale e cristiano-ortodosso inteso in senso lato. Il cerchio era stato felicemente chiuso.

Cercare di andare oltre quella linea è stato il grande e colpevole errore dell’Occidente. Ed è stata nel contempo la penosa dimostrazione di un’eccezionale mancanza di comprensione della storia, di un’eccezionale insensibilità – tipica del democraticismo ideologico quando non giacobino tout court – verso i sentimenti dei popoli, giusti o sbagliati che fossero, e di un’eccezionale cecità strategica su scala globale alla luce del mondo che si stava disegnando all’inizio del terzo millennio.

L’Ucraina, presa nel suo insieme, non è mai stata – in senso stretto – un paese europeo e nessuno, nemmeno in Europa, l’ha considerata tale. In realtà una serena disamina della questione ucraina dovrebbe senza difficoltà pervenire alla conclusione che l’Ucraina appartiene al «mondo russo» in senso lato, ma non è riducibile alla Russia. Questo è il terreno naturale su cui dovrebbe sanamente fiorire la sua indipendenza. Se la Russia zarista e poi bolscevica ha sempre ostacolato e conculcato lo sviluppo di una cultura ucraina autonoma e distinta da quella russa, nel corso dei secoli le potenze europee (in primo luogo la cattolica Polonia) di volta in volta nell’irrisolto quadrante ucraino hanno visto fondamentalmente un paese da conquistare e sottomettere. E se il nazionalismo ucraino spesso si è ridotto a cercare l’aiuto del secolare «nemico» europeo (l’altro nemico per eccellenza era quello ottomano) lo ha fatto per insofferenza verso i russi, non certo per amicizia con alleati interessati e culturalmente distanti che guardava con grande diffidenza, giacché l’ucraino tipo, nella sua grande maggioranza, rimane pur sempre slavo-orientale-cristiano-ortodosso.

Per una questione geopolitica di «oltre limes» europei e statunitensi avrebbero dovuto perciò ragionare con altri criteri, riformulare le priorità, e ridurre di molto le ambizioni (peraltro in questo caso sbagliate e inopportune). In Ucraina, com’era peraltro regolarmente successo nel passato quando le circostanze storiche avevano permesso al nazionalismo ucraino di intravvedere la possibilità dell’autodeterminazione, fin dai giorni dell’indipendenza c’era stata tensione fra le diverse anime del paese, tensione di cui gli attori principali erano i nazionalisti ucraini dell’estremo nord-ovest e i filorussi dell’estremo sud-est. La situazione si era cristallizzata politicamente nella contrapposizione tra la «coalizione arancione» filo-occidentale (tanto frivolamente quanto cinicamente istigata dall’Occidente) e il Partito delle Regioni (appoggiato da Mosca), partito che di per sé non era esattamente o solamente filo-russo ma che di fatto raccoglieva tutti i voti dei filo-russi. E fino al 2014 questa divisione politica ha coinciso quasi perfettamente con una divisione geografica nord-ovest / sud-est del paese. Ma fu nel 2004, l’anno della Rivoluzione Arancione, che si cominciò a parlare veramente di Ucraina nella Nato. E siccome, a mio parere, nonostante il particolarissimo caso finlandese, l’entrata dell’Ucraina nella NATO e nell’Unione Europea sono due questioni di fatto indissolubili, ostinarsi a perseguire questo fine significava inevitabilmente richiedere alla disomogenea «grande Ucraina» ereditata dall’epoca sovietica un’impossibile e lacerante scelta di campo, e insieme contribuire a radicalizzare ideologicamente il confronto Russia-Occidente: in soldoni significava entrare in una logica bellica, almeno in prospettiva, per cui il destino dell’Ucraina non poteva essere che quello di diventare «terra di conquista», o per i russi una volta per tutte (nel senso pieno del termine) o per gli occidentali (almeno in senso culturale, giacché un’Ucraina europea, nel senso stretto del termine, sarebbe una grande forzatura storica gravida di conseguenze per la nazione ucraina): si ripeteva, per gli ucraini, la maledizione del passato. Naturalmente sul presupposto o sul convincimento che la Russia fosse troppo debole o che non avrebbe osato veramente opporsi a questo disegno; il quale disegno avrebbe dovuto realizzarsi senza complicazioni belliche: insomma, lo schema collaudato (e spesso rivelatosi controproducente come da classica eterogenesi dei fini) nelle successive ed equivoche primavere arabe.

In questa situazione a giocare un ruolo decisivo nella radicalizzazione dello scontro fu l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Barack Obama. Questa elezione ha segnato il momento in cui per i liberal, per i progressisti, per i socialisti democratici, per gli ex-marxisti non vetero-comunisti (sarebbe stato chiedere troppo a questi ultimi), già di fatto nomenklatura nella società occidentale, era arrivata l’occasione propizia per proporsi opportunisticamente come campioni di un nuovo Occidente (fino all’altro ieri odiato, ma seducentemente vittorioso) declinato alla loro maniera: laicista, elitario, tanto fatuo e autoreferenziale quanto privo di ogni riferimento, (il giacobinismo, diceva Cochin, è «il partito del partito preso»), eco-millenarista, nichilista, dirigista su scala globale, e soprattutto pronto a scomunicare, in primis i «vecchi occidentalisti» che avevano resistito alle sirene del «secolo breve» nazi-fascio-comunista. Per dirla in breve, si trattò della messa in scena de «Il ratto dell’Occidente». Questo nuovo Occidente, s’intende, non era del tutto nuovo. C’è sempre stato un Occidente giacobino, nemico di se stesso, insofferente delle sue universalistiche radici cristiane, e perciò mosso da un universalismo anticristico indifferente alla storia dei popoli, «civilizzatore» tanto astratto quanto prevaricatore. Solo che le più gravi patologie del «secolo breve», che esso stesso aveva create (i bolscevichi non furono forse in terra russa i figli più settari e coerenti di questo occidentalismo?), l’avevano spedito in soffitta. Ma ora era ritornato il suo momento, anche nella politica estera. E infatti i pacifisti che inondavano le grandi città occidentali fino a tutto il periodo della presidenza Bush un po’ alla volta scomparvero o quasi dalle strade. Come scrissi qualche mese fa:

«Quale esito di un processo universalistico è nella natura della democrazia – mediante l’influenza politica, quella più largamente culturale, mediante i commerci – espandersi ed esportarsi. E nel lungo termine niente può fermare questo processo, perché risponde agli aneliti della natura umana. E’ tipico invece del pensiero politico progressista mostrare a tempi alterni, a seconda delle circostanze, due attitudini opposte (e questa doppiezza è connaturata necessariamente all’errore, come la coerenza è connaturata alla verità) sul tema dell’ “esportazione della democrazia”: o il pacifismo assoluto (spesso caratterizzato da un’intransigenza aggressiva e settaria), o l’appoggio acritico alla missione “civilizzatrice” che schiaccia tutto. A seconda delle circostanze, tutto si può giustificare. Dipende dalla forza del nemico da abbattere. Se è debole, e se per di più viene descritto come “reazionario”, schiacciamolo pure, senza tanti scrupoli, in nome dell’umanità e della nostra concezione della “democrazia”. Lo si è rivisto, questo tratto rivelatore, con l’appoggio iniziale acritico dato alle “primavere arabe”, quelle vere e quelle costruite a tavolino. Il successo di queste primavere sembrava inevitabile. Il messianismo democratico proprio della sinistra europea e dei liberal anglosassoni vide allora nell’attivismo muscolare in politica estera solo vantaggi: l’esportazione della democrazia, derisa ai tempi di Bush, era ridiventata sacra.»

Per questi campioni del nuovo Occidente liberal la Russia «neozarista» di Putin non poteva che incarnare il colmo di ogni nefandezza conservatrice-reazionaria, quell’autentico «Impero del male» che essi non avevano mai riconosciuto nel Moloch Sovietico, al quale invece avevano spesso offerto incenso: demonizzare questa sempiterna Russia «asiaticamente dispotica» e insieme «neostalinista», infatti, aveva anche il fine riposto, e magari non sempre consapevole, di allontanare da sé i sensi di colpa e le accuse per un passato poco limpido, oltre che soddisfare un sentimento di vendetta. E’ anche per questa ragione che in questi giorni (e fino a nuovo ordine, naturalmente, magari quando la Cina comincerà davvero a fare paura) sono tutti comodamente, conformisticamente, grottescamente «occidentali», (mentre era così scomodo esserlo ai tempi dell’URSS, vero?) a cominciare da quel tal Walter Veltroni che oggi celebra sul Corriere della Sera la ritrovata vitalità e unità dell’Occidente e dell’Europa; quel tal Walter Veltroni che rimase nel PCI fino al 1991 (due anni dopo il crollo del Muro di Berlino), coincidente col ventunesimo anno di milizia comunista del nostro tutta dentro il partito amico di Mosca, che allora stava per fare il primo cambio tattico di pelle, trasformandosi nel PDS; quel tal Walter Veltroni che è diventato col tempo «democratico kennediano» con l’aria tranquillissima e accondiscendente di chi non ha proprio nulla da rimproverarsi, o da spiegare ai trogloditi che non capiscono, perché anche quando era comunista in fondo era sempre stato dalla parte giusta, democratica e liberale.

E la cosa tragica è che da tale spudorata trasformazione i partiti conservatori o popolari, certamente anche per proprie insufficienze culturali, sono stati letteralmente travolti e si sono per lo più ridotti, anche in questa materia di politica estera, come in tutte le altre, al ruolo di comprimari dell’agenda liberal, alimentando così la reazione «sovranista», che come ogni reazione si porta dietro molti tratti del nemico che vuole combattere.

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