Stepan Bandera (al centro) con la Croce al Merito tedesca di seconda classe con spade. Non si definiva nazista, ma «nazionalista» ucraino. Dal 1935 Bandera esalta la violenza politica. Fa assassinare una sessantina di personalità di spicco, fra cui due ministri polacchi. Durante la seconda guerra mondiale organizza lo sterminio degli intellettuali ebrei e slavi. Il nuovo regime ucraino ha innalzato monumenti in suo onore, uno anche a Leopoli, dove sovrintese a un massacro.
Thierry Meyssan interrompe la serie di articoli sul titanico conflitto che oppone la Russia agli Stati Uniti. Invita tutti a stroncare le menzogne della propaganda di guerra.
La guerra in Ucraina indigna l’opinione pubblica occidentale, che si mobilita per soccorrere gli ucraini in fuga. È un fatto che nessuno mette in discussione: il dittatore Putin non tollera la nuova democrazia ucraina.
Come in ogni altro conflitto, ci spiegano che noi siamo i buoni: i cattivi sono gli altri.
La nostra reazione è quella di persone che la propaganda di guerra può ingannare perché dimentiche dei precedenti confitti e perché non conoscono nulla dell’Ucraina. Quindi raccontiamola dal principio.
CHI HA COMINCIATO?
Come i nostri compagni di classe che si prendevano a botte nel cortile della ricreazione, oggi anche noi vogliamo sapere chi ha cominciato. Su questo punto non c’è prova fotografica: otto anni fa gli Stati Uniti organizzarono un cambiamento di regime a Kiev, aiutati da gruppuscoli armati, costituiti da persone che si definiscono «nazionalisti», ma non nel senso che comunemente attribuiamo al termine. In quanto di origine scandinava o proto-germanica, e non slavi come i russi, pretendono di essere i veri ucraini. Si proclamano eredi di Stepan Bandera [1], il capo dei collaboratori ucraini dei nazisti, l’equivalente di quel che, da un punto di vista simbolico, Philippe Pétain rappresenta per i francesi; ma soprattutto il corrispettivo di Joseph Darnand e dei soldati della Divisione SS Charlemagne. Gli ucraini, che fino a oggi si consideravano tali sia che fossero di origini scandinave e proto-germaniche sia slave, li chiamano “neonazisti”.
In Francia “nazista” è appellativo che si usa per insultare chicchessia. Storicamente è un movimento che sosteneva una visione razzista dell’umanità a spiegazione degli imperi coloniali. Secondo questa concezione, gli uomini appartengono a “razze” – oggi diremmo a “specie” – diverse. Non possono avere discendenza comune, come le giumente e gli asini, che in natura mettono al mondo i muli, generalmente sterili. È per questo che i nazisti vietavano le mescolanze interrazziali. Se apparteniamo a razze diverse, alcuni di noi saranno superiori e avranno il diritto di dominare gli altri: è questo il fondamento teorico del colonialismo occidentale. Negli anni Trenta questa ideologia era considerata scienza ed era insegnata nelle università, in particolare in Stati Uniti, Scandinavia e Germania. Grandissimi scienziati l’hanno sostenuta. Per esempio, Konrad Lorenz, premio Nobel per la medicina del 1973, fu ardente nazista. Scrisse che per conservare la razza bisogna estirpare dalla massa gli omosessuali ed eliminarli – proprio come un chirurgo estirpa un tumore – perché, senza che ce ne rendiamo conto, mescolano il loro patrimonio genetico con quello di altre razze.
Sono scienziati non più autorevoli di quelli che durante l’epidemia di Covid-19 ci annunciavano l’apocalisse. Si fregiavano del titolo di “scienziati” senza averne la razionalità.
La Russia moderna si è costruita sul ricordo di quella che i russi chiamano Grande Guerra Patriottica e noi chiamiamo seconda guerra mondiale. Una guerra cui loro attribuiscono un senso diverso dal nostro. In Francia la guerra è durata pochi mesi, poi abbiamo creduto nella vittoria dei nazisti e siamo entrati nella Collaborazione. Dal 1940 abbiamo visto nazisti e pétainisti arrestare 66 mila persone, il più delle volte per «terrorismo» (resistenza). Poi dal 1942 abbiamo visto arrestare e mandare all’Est, in realtà nei campi di sterminio, 76 mila ebrei perché di «razza inferiore». In Unione Sovietica invece non ci sono stati arresti. I nazisti volevano sterminare o ridurre in schiavitù tutti gli slavi entro trent’anni, per liberare uno «spazio vitale» ove edificare l’impero coloniale (Generalplan Ost). È per questa ragione che in Unione Sovietica i morti sono stati 27 milioni. Nella memoria dei russi i nazisti sono un pericolo per la loro stessa esistenza. Per noi non è così.
Quando queste persone sono arrivate al potere a Kiev non si sono dichiarate “naziste”, ma “nazionaliste”, nel senso attribuito al termine da Stepan Bandera che, sebbene rilanciasse addirittura le intenzioni genocide dei nazisti nei confronti di slavi ed ebrei, non si dichiarava “nazista”, ma “nazionalista”. Il nuovo potere ha definito il regime precedente «filo-russo», affermazione fattualmente non veritiera, e ha bandito tutto quel che richiama la cultura russa. In primo luogo la lingua. Gli ucraini sono in maggioranza bilingui, parlano infatti russo e ucraino. All’improvviso metà della popolazione si è sentita dire che non avrebbe più potuto parlare la propria lingua nelle scuole e negli uffici pubblici. La regione del Donbass, maggioritariamente russofona, si è sollevata. Anche la minoranza ungherese, che a scuola riceveva un insegnamento in madrelingua, si è ribellata, sostenuta dall’Ungheria. Gli ucraini del Donbass hanno chiesto che ai distretti di Donetsk e Lugansk fosse riconosciuto uno statuto speciale e fosse ripristinato il diritto di usare la propria lingua, il russo. Queste prefetture (oblast in russo) si sono dichiarate repubbliche. Non aspiravano all’indipendenza, solo all’autonomia, come fecero la ex Repubblica di California negli Stati Uniti o le ex repubbliche dell’URSS.
Nel 2014 il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel riunirono allo stesso tavolo i rappresentanti di Kiev e del Donbass e negoziarono gli Accordi di Minsk. Francia, Germania e Russia ne divennero i garanti.
Kiev si è sempre rifiutata di applicare gli Accordi di Minsk, nonostante li avesse sottoscritti. Anzi, ha armato milizie “nazionaliste” e le ha mandate a farsi le ossa ai confini del Donbass. E così tutti gli estremisti occidentali sono andati a sparacchiare in Ucraina. Secondo il governo di Kiev, il mese scorso i paramilitari erano 102 mila. Rappresentano un terzo dell’esercito ucraino e sono stati assorbiti nelle Forze di Difesa Territoriali. Con l’attacco russo, sono arrivati in rinforzo da tutto il mondo altri 66 mila “nazionalisti” stranieri.
Secondo il governo di Kiev, negli otto anni successivi agli Accordi di Minsk questi paramilitari hanno ucciso in Donbass 14 mila persone. Un dato che include le loro proprie perdite, che però sono minime. Secondo la commissione d’inchiesta istituita dalla Russia, che ha tenuto conto non solo dei morti ma anche dei feriti gravi, le vittime sono 22 mila. Il presidente Putin parla di «genocidio», non nel senso etimologico di distruzione di un popolo, ma nel senso giuridico di crimine commesso per ordine delle autorità contro un gruppo etnico.
Qui sta il punto dolente: il governo di Kiev non è compatto e nessuno ha chiaramente ordinato il massacro. Tuttavia la Russia ne ritiene responsabili il presidente Petro Porochenko e il suo successore, Volodymyr Zelensky. Ma siamo responsabili anche noi francesi, perché garanti degli Accordi di Minsk, mai applicati. Sì, siamo corresponsabili di quest’ecatombe.
Il peggio doveva ancora venire. Il 1° luglio 2021 il presidente Zelensky, che armava i paramilitari “nazionalisti” e si rifiutava di applicare gli Accordi di Minsk, ha promulgato la Legge n. 38 sui popoli autoctoni [2], che garantisce ai tatari e agli ebrei caraiti (ossia che non riconoscono il Talmud) l’esercizio dei diritti in quanto cittadini, in particolare il diritto di parlare la loro lingua; ma non lo riconosce agli slavi. Costoro non esistono. Non sono protetti dalla legge. Sono Untermenschen, sub-umani. È la prima volta dopo 77 anni che sul territorio europeo viene adottata una legge razziale. Vi direte che, dato che esistono organizzazioni per la difesa dei diritti umani, queste avranno protestato. Macché. Silenzio assoluto. Peggio: gli applausi di Bernard-Henri Lévy.
PERCHÉ RICORRERE ALLA GUERRA?
La nostra visione degli avvenimenti è deformata dai pregiudizi. Questo accade, e con maggiore evidenza, anche nei Paesi baltici e nei Paesi oppressi dalla “dottrina Breznev”, ove le popolazioni sono aprioristicamente convinte che i russi siano gli eredi dei sovietici. Ma i massimi dirigenti sovietici non erano russi. Joseph Stalin era georgiano, Nikita Krusciov era ucraino, e così via. Lo stesso Leonid Breznev era ucraino.
Finché le Repubbliche di Donetsk e Lugansk sono state ucraine, il massacro dei loro abitanti era una questione esclusivamente interna. Nessuno era legittimato a difenderli. Tuttavia, firmando gli Accordi di Minsk e facendoli ratificare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Francia e Germania si sono assunte la responsabilità di mettere fine al bagno di sangue, ma non hanno onorato l’impegno.
Il problema ha cambiato natura il 21 febbraio 2022 con il riconoscimento da parte della Russia dell’indipendenza delle due repubbliche del Donbass. Il massacro dei loro abitanti da questione interna diventa internazionale. Il 23 febbraio il Consiglio di Sicurezza si è nuovamente riunito; nel frattempo l’esercito russo si stava preparando a intervenire. Durante la riunione, il segretario generale dell’ONU António Guterres non ha contestato né la legittimità del riconoscimento russo delle repubbliche del Donbass né quella dell’intervento militare russo contro i neonazisti. Ha solo chiesto alla Russia di lasciare ancora una possibilità alla pace [3].
Il diritto internazionale non impedisce la guerra, cerca di prevenirla. Non avendo la riunione del Consiglio di Sicurezza portato a nulla, la Russia si è ritenuta in diritto di andare in aiuto degli abitanti del Donbass massacrati dai neonazisti. Lo ha fatto l’indomani, il 24 febbraio.
Dopo aver aspettato otto anni, il presidente Putin non poteva rinviare oltre. Non soltanto perché le persone continuavano a morire, non soltanto perché l’esercito ucraino stava preparando un grande massacro per l’8 marzo [4], ma perché secondo la costituzione russa il presidente è responsabile della vita dei propri concittadini. E, per prepararsi all’eventuale esodo, la grande maggioranza degli abitanti del Donbass negli ultimi anni aveva acquisito la cittadinanza russa.
L’ESODO DI DUE MILIONI DI UCRAINI
Come in tutte le guerre della Nato, assistiamo alla fuga della popolazione ucraina. Ai francesi queste immagini rammentano l’esodo del 1940 di fronte all’avanzata delle truppe tedesche. È un fenomeno di panico collettivo. I francesi credevano che la Wehrmacht avrebbe commesso gli stessi stupri di massa attribuiti all’inizio della prima guerra mondiale alla Deutsches Heer. Ma i tedeschi, disciplinati, non si lasciarono andare a questo tipo di violenza. In definitiva, la fuga dei francesi non aveva alcuna ragione obiettiva se non la paura.
Con la guerra del Kosovo la Nato ha sviluppato il concetto d’ingegneria di movimenti di popolazioni [5]. Nel 1999 la CIA organizzò lo spostamento in tre giorni dalla Serbia alla Macedonia di oltre 290 mila kosovari. Se avete oltre trent’anni vi ricorderete i video atroci della lunga fila di persone che marciano per decine di chilometri l’una dietro l’altra, lungo le linee ferroviarie: bisognava far credere a una repressione da parte del governatore di Slobodan Milošević e giustificare la guerra incombente. I kosovari non sapevano perché stessero fuggendo, ma pensavano che là ove erano diretti avrebbero avuto un futuro migliore. Vi ricorderete dell’esodo dei siriani di sette anni fa: bisognava indebolire la Siria privandola della popolazione. Oggi si tratta di far vibrare le corde emotive grazie alle immagini di donne e bambini in fuga, senza gli uomini, rimasti in patria a combattere i russi.
Ne siamo ogni volta sconvolti. Kosovari, siriani e ucraini soffrono, ma non per questo hanno tutti ragione.
L’Unione Europea accetta tutti i rifugiati ucraini. Gli Stati dello spazio Schengen accettano tutte le persone che dichiarano di fuggire dall’Ucraina in guerra. Secondo il governo tedesco, circa un quarto di questi “rifugiati”, che autocertificano di lavorare e abitare in Ucraina, non hanno passaporti ucraini, bensì algerini, bielorussi, indiani, marocchini, nigeriani o uzbechi; persone che evidentemente approfittano delle porte spalancate per essere registrate legalmente nell’Unione Europea. Non viene fatta alcuna verifica preliminare del loro soggiorno in Ucraina. Secondo il padronato tedesco si tratta nei fatti di regolarizzare un’immigrazione non dichiarata.
Ci dobbiamo anche chiedere perché il popolo ucraino non manifesti sostegno al proprio governo. Durante la guerra del Kosovo gli abitanti di Belgrado presidiarono giorno e notte i ponti della città per impedire i bombardamenti della Nato. Durante la guerra di Libia diversi milioni di persone si riunirono a Tripoli per manifestare il proprio sostegno alla Guida, Muammar Gheddafi. Durante la guerra di Siria un milione di persone espresse sostegno al presidente Bashar al-Assad. In Ucraina, niente. Anzi, ci raccontano che squadre della Difesa Territoriale danno la caccia a “sabotatori russi infiltrati”, ma l’OSCE garantisce che in Ucraina non ci fossero soldati russi prima dell’inizio dell’operazione militare.
LO CHOC DELLE IMMAGINI
Le precedenti guerre avrebbero dovuto insegnarci che la prima vittima è la verità. Dalla guerra del Kosovo, la Nato è diventata maestra nella propaganda di guerra. All’epoca, il portavoce della Nato a Bruxelles era stato sostituito. Il successore, Jamie Shea, ogni giorno descriveva dettagliatamente una storia emblematica, sia sugli orrori compiuti dai criminali serbi, sia sull’esemplare resistenza dei kosovari. All’epoca pubblicavo un quotidiano via fax, il Journal de la Guerre en Europe in cui riassumevo le dichiarazioni della Nato e i dispacci delle piccole agenzie di stampa dei Balcani. Ogni giorno vedevo le due versioni divergere sempre più. Secondo me la verità doveva stare nel mezzo. Finita la guerra ci si rese conto che quanto raccontava Jamie Shea era pura invenzione, finalizzata ad annerire d’inchiostro le colonne dei giornali creduloni; i dispacci delle piccole agenzie di stampa dei Balcani dicevano invece la verità. E la verità non faceva certo onore alla Nato.
Quindi ora mi accosto al consenso mediatico occidentale con una certa diffidenza. Per esempio, quando ci dicono che la Russia bombarda una centrale nucleare, ripenso alle menzogne del presidente George W. Bush sulle armi di distruzione di massa del “tiranno” Saddam. E quando ci dicono che i russi hanno bombardato un ospedale pediatrico a Mariupol, ripenso alla favola dei neonati del Kuwait strappati dalle incubatrici dai crudeli soldati iracheni. E quando ci assicurano che il cattivo Putin è folle e assomiglia a Hitler, mi ricordo di come abbiamo trattato Muammar Gheddafi o il presidente Bashar al-Assad.
È per questa ragione che non prendo sul serio queste affermazioni. I soldati ucraini dell’Isola dei Serpenti non sono stati massacrati dalle bombe, come affermava Zelensky, si sono arresi ai russi, come più tardi lo stesso presidente ucraino ha ammesso. Il memoriale ebraico di Babi Yar non può essere stato distrutto dai russi, che rispettano sempre e comunque tutte le vittime della barbarie nazista. La centrale nucleare di Zaporijjia non può essere stata bombardata: da diversi giorni era controllata da gruppi misti russi e ucraini. Del resto l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha confermato che non esisteva pericolo radioattivo. E nemmeno l’ospedale pediatrico di Mariupol è stato bombardato: era stato evacuato tre giorni prima e trasformato in caserma del Reggimento Azov (neonazisti), come immediatamente aveva segnalato la Russia all’ONU.
Perciò quando mi si dice che bisogna uccidere il “dittatore” Putin rimango di sasso.
LE BATTAGLIE
Come non notare che le immagini che ci mostrano delle vittoriose “battaglie” dell’esercito ucraino sono sempre le stesse? Come non notare che vi si vedono solo pochi veicoli distrutti? I nostri reporter di guerra hanno mai visto guerre vere? Interpretiamo le immagini che ci vengono esibite non per quel che mostrano, ma basandoci sui commenti che le accompagnano.
Da una settimana ci spiegano che l’esercito russo accerchia Kiev a una distanza di quindici chilometri, che avanza tutti i giorni (ma rimane comunque a quindici chilometri) e sta per dare l’assalto finale. Quando ci spiegano che il “dittatore” Putin vuole la pelle del bravo presidente Zelensky (che arma i neonazisti e promulga la legge razziale) io prendo le distanze.
Le forze armate russe non hanno mai avuto in progetto di conquistare le grandi città. Ne stanno lontano (a eccezione di Mariupol). Combattono i paramilitari “nazionalisti”, i neonazisti. Come francese, sostenitore della Resistenza ai nazisti, le forze armate russe riscuotono tutta la mia ammirazione.
L’esercito russo applica in Ucraina la stessa tattica usata in Siria: accerchiare le città che servono da rifugio ai nemici, poi aprire corridoi umanitari per far uscire i civili, infine bombardare i soldati rimasti all’interno. Per questa ragione i paramilitari neonazisti bloccano i corridoi umanitari e impediscono alla popolazione di fuggire: è il principio degli scudi umani.
Si tratta di una guerra di movimento. Bisogna fare presto. Le truppe russe si spostano in camion e blindati. Non sono battaglie di carrarmati, che oggi non sono operativi sul terreno. Nel 2006 abbiamo visto lo Hezbollah fare a pezzi i carrarmati Merkava israeliani. Le truppe russe si spostano con veicoli a motore, per questo motivo hanno i blindati. Siccome abbiamo fornito decine di migliaia di missili anticarro all’esercito ucraino, paramilitari neonazisti compresi, le nostre armi li distruggono, come distruggono i loro camion. Non sono battaglie, sono imboscate.
TRE NUOVI PROBLEMI
A complicare ulteriormente la situazione, durante la Conferenza per la Sicurezza di Monaco, ossia appena prima della guerra, è arrivato l’annuncio del presidente Zelensky di voler dotare il Paese di bomba atomica, in violazione del Trattato sulla non-proliferazione di armi nucleari di cui anche l’Ucraina è firmataria.
Successivamente le forze armate russe hanno sequestrato e pubblicato un documento di lavoro del governo di Kiev in cui si pianificava per l’8 marzo un attacco militare alla Crimea e al Donbass.
Infine, le forze armate russe hanno scoperto una quindicina di laboratori di ricerca di armi biologiche che lavoravano per conto del Pentagono. Hanno annunciato la pubblicazione della documentazione sequestrata e la distruzione di 320 contenitori di agenti patogeni. Gli Stati Uniti, firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite sull’interdizione delle armi biologiche, la rispettano a casa propria, ma la violano all’estero. L’8 marzo il ministero degli Esteri cinese ha chiesto spiegazioni sui 330 laboratori biologici che il Pentagono gestisce sotto nomi diversi in 30 Paesi. Il dipartimento di Stato ha smentito, ma, in un’audizione al senato, la sottosegretaria di Stato Victoria Nuland ha riconosciuto che il Pentagono collaborava a questi programmi all’estero e si è detta preoccupata che i risultati delle ricerche possano cadere nelle mani dei russi. Quando la Russia ha portato la questione in Consiglio di Sicurezza, gli Occidentali hanno rovesciato le accuse, attribuendole l’intenzione di preparare un attacco biologico sotto falsa bandiera. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha da parte sua affermato di essere stata avvertita di ricerche biologiche civili congiunte tra USA e Ucraina e di aver chiesto all’Ucraina di distruggere gli agenti patogeni per prevenirne la diffusione.
Dunque l’Ucraina, che prima sostiene oltre centomila “nazionalisti” e li incorpora nella Difesa Territoriale, nonché adotta una legge razziale, lavora su armi chimiche biologiche illegali e vuole acquisire la bomba atomica. Eppure i francesi hanno scelto di dimenticare gli esempi di coraggio di Jean Moulin e di Charles De Gaulle e sostengono il presidente Zelensky!
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