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Il flop dei vaccini racconta l’incompiutezza dell’Ue, che arranca tra i paletti. La sua bussola non è la sovranità ma la burocrazia
Il flop dei vaccini in Europa non è colpa di una funzionaria incompetente, come va ripetendo in tv Roberto Burioni. Ma è il frutto di una debolezza politica che non avrebbe potuto avere altro esito. E che racconta l’incompiutezza dell’Unione, il limite di una governance pattizia, il suo inguaribile declinare l’autonomia in burocrazia. Con il rischio adesso di tornare a innaffiare il sovranismo, che pure sembrava rinsecchirsi. Perché si fa presto a dire che, a problemi globali, occorrono risposte globali, se poi scopri che una statualità efficiente, come Gran Bretagna o Israele, dà punti a un gigante di ventisette capitali. Senza una sola big pharma in grado di produrre vaccini. E senza la forza per battere i pugni sul tavolo e dire: qui non c’è proprietà intellettuale che tenga, siamo di fronte a una catastrofe della specie umana e tutti hanno il diritto di utilizzare la ricerca di uno solo.
Possiamo continuare a celebrare il mito dell’unità europea di fronte al dramma della pandemia e fingere di non vedere che cos’è accaduto. Oppure possiamo ammettere che la convergenza politica delle cancellerie non è bastata a impedire che si replicassero con le big pharma gli errori commessi per due decenni con le big tech. Che la politica industriale ha rinunciato a promuovere e a sviluppare, e la politica fiscale ha rinunciato a tassare e a regolare.
L’Europa ha scoraggiato il mercato e disarmato la sovranità, lasciando che la negoziatrice dei vaccini, Sandra Gallina, facesse slalom tra i vincoli imposti da 27 paesi. Che premevano per estendere la platea dei produttori, acquistare i vaccini al prezzo più basso e imputare i costi di un eventuale fallimento della ricerca alle imprese farmaceutiche. Il contrario dell’autonomia decisionale delle autorità americana e britannica, che hanno trattato con una discrezionalità ampia, potendo scegliere uno o più contraenti e pagare prezzi più alti pur di salvare vite umane, ricevendo così le fiale prima, e rinunciando a procedure di verifica scientifica astrattamente coerenti, ma implausibili di fronte alla necessità di far presto. Il risultato è il 28 per cento di immunizzati oltre la Manica, il 22 oltre l’Atlantico e solo il 6 nel Vecchio Continente.
L’Europa ha escluso la leva dei prezzi. Per impedire che qualcuno potesse pagare di più, saltando la fila. Dimenticava che in un modo o nell’altro c’è sempre qualcuno che la fila la salta. Ha pensato di distribuire le dosi come avrebbe fatto l’Unione sovietica, ma senza essere l’Unione sovietica. Perché il centralismo sanitario, fondato sul monopolio della mano pubblica, non si è rivelato una politica forte, ma un’organizzazione elefantiaca e inefficiente. Quando Biden ha chiamato al capezzale di un’America malata i detentori dei brevetti, gli impegni con Bruxelles sono degradati a promesse scadute, senza conseguenze per gli inadempienti.
L’Europa figlia di un’ispirazione liberale, tecnocratica e giuridicista, ha esibito tutti i limiti di una sovranità incompiuta. Al netto delle migliori intenzioni delle cancellerie, ha mostrato la sua difficoltà di percepirsi come potenza, al tempo in cui la geopolitica torna a essere confronto tra potenze dotate di massa critica. E qui sembra avere conferma la censura che Carl Schmitt muoveva quasi un secolo fa al pensiero liberale: quella di disconoscere la categoria della sovranità, poiché è acefala la sua idea dell’ordinamento e dello Stato. Risale sempre a una norma fondamentale, ma mai a un decisore ultimo.
Senza un decisore non si affronta e non si vince oggi una pandemia, domani una crisi ambientale, o una sfida militare. Senza un decisore si dipende dalle procedure di un ente regolatore, l’Agenzia europea per il farmaco, che gli stati nazionali sorpassano. Gli americani danno l’ok al siero di AstraZeneca con un mese d’anticipo, gli inglesi li seguono a ruota grazie ai trials organizzati in parallelo, l’Ungheria sdogana qualunque vaccino che sia stato già somministrato ad almeno un milione di persone. Bruxelles arranca tra i paletti degli enti di regolazione. Dimostrando ancora una volta che la sua bussola non è la sovranità ma la burocrazia. E assiste inerme all’evidenza che, di fronte all’emergenza, ogni produttore favorisce il suo governo.
Per questo il flop è consustanziale alla struttura intergovernativa della sovranità europea. I mesi che verranno saranno l’ultima chance per rimetterla in discussione, per far sì che essa non si riduca al potere di fare le leggi, ma evolva nel potere di assumere le decisioni migliori per il benessere dei cittadini. L’esperienza di oltre un decennio di cooperazione flessibile e non vincolante tra gli Stati membri dimostra il suo fallimento di fronte all’urgenza e agli effetti asimmetrici delle grandi crisi. “Abbiamo bisogno di un’Europa per tutto ciò che è essenziale, per tutto quello che le nazioni non possono fare”, aveva detto Draghi, con le parole di Jean Monnet, ricevendo due anni fa una laurea honoris causa all’università di Bologna. Ha sottinteso lo stesso appello nel suo primo discorso al Consiglio europeo, censurando la performance della strategia vaccinale.
Non vuol dire sognare un’irraggiungibile Unione federale, ma dividere la sovranità - come suggeriva già qualche anno fa Sergio Fabbrini nel suo libro “Sdoppiamento” - tra un’Europa che ha la potestà politica di decidere sulle grandi questioni strategiche e l’autonomia delle nazioni in tutto ciò che resta. O si dà questo scatto, o si soccombe alle crisi, rinunciando a capirne le ragioni. E continuando a raccontarle con le accuse di un virologo eccentrico a una riservata tecnocrate. Che ha l’unica colpa di aver obbedito a un sistema di regole tecnicamente ineccepibili. Ma buone per arrivare ultimi.
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