Diego Fusaro, in esclusiva per Byoblu, parte dall’asserzione di Karl Marx secondo cui lo Stato non è altro che il comitato d’affari delle classi egemoni, ed arriva a spiegare qual è il vero obiettivo dietro al tentativo (in stato avanzato) di liquefare gli stati nazionali superando la sovranità popolare, che è quello di mettere fuori gioco la democrazia nazionale, lo stato sociale e il compromesso sul welfare tra Stato e mercato.
Ecco la trascrizione integrale del suo intervento:
Dal punto di vista marxiano lo Stato figura come lo strumento della classe dominante per tutelare al meglio i propri interessi. Più precisamente lo Stato si finge super partes e in realtà tutela sempre e solo gli interessi dei dominanti: fa valere l’ordine dominante a beneficio esclusivo dei dominanti. Ed è per questa ragione che Carlo Marx lo definisce il “Comitato d’affari della classe egemonica“...
Ora, io non credo che questa definizione di Marx si attagli tout court allo Stato e alla sua figura concettuale storica nella modernità; mi pare maggiormente condivisibile sotto questo profilo la prospettiva dello Hegel, il quale individua nello Stato una figura dell’eticità e dunque quella comunità solida e solidale che permette a ogni parte di esistere come parte della comunità organica. In effetti la storia del secondo Novecento sembra confutare Marx e avvalorare le tesi di Hegel perché lo Stato svolge il ruolo fondamentale di difensore terzo nel conflitto di classe anche dei dominati. Lo Stato – si pensi anche solo al compromesso welfaristico fra Stato e mercato, fra politica ed economia – ha svolto la parte di difensore della comunità, ha cioè impedito che i dominanti massacrassero i più deboli, le classi dominate. Si è cioè imposto come garante di una tenuta comunitaria superiore, rispetto al conflitto di classe.
Ora, io non credo che questa definizione di Marx si attagli tout court allo Stato e alla sua figura concettuale storica nella modernità; mi pare maggiormente condivisibile sotto questo profilo la prospettiva dello Hegel, il quale individua nello Stato una figura dell’eticità e dunque quella comunità solida e solidale che permette a ogni parte di esistere come parte della comunità organica. In effetti la storia del secondo Novecento sembra confutare Marx e avvalorare le tesi di Hegel perché lo Stato svolge il ruolo fondamentale di difensore terzo nel conflitto di classe anche dei dominati. Lo Stato – si pensi anche solo al compromesso welfaristico fra Stato e mercato, fra politica ed economia – ha svolto la parte di difensore della comunità, ha cioè impedito che i dominanti massacrassero i più deboli, le classi dominate. Si è cioè imposto come garante di una tenuta comunitaria superiore, rispetto al conflitto di classe.
Ora, se questa dialetticità – che bene emerge dalle diverse interpretazioni dello Hegel e di Marx dello Stato – caratterizza la fase dialettica del capitalismo. Possiamo sostenere che la fase assoluta e totalitaria del nuovo capitalismo post-borghese si caratterizza per l’abbandono dello Stato. Lo Stato che aveva svolto la sua funzione fondamentale nell’epoca moderna tende a essere messo in congedo dalla classe dominante, la quale per un verso vuole deregolamentare il mercato (cioè sottrarre l’economico al politico) e per un altro verso ridefinire il mercato, o meglio lo Stato come semplice difensore dell’interesse del mercato. Solo ora (cioè nell’epoca post-1989) si compie la profezia di Marx; laddove invece (nell’epoca pre-1989) sembrava prevalere a tratti la diagnosi hegeliana dello Stato come momento etico e anzi come potenza etica per eccellenza.
In effetti oggi assistiamo continuamente a un welfarismo di segno inverso, poiché sono le classi dominanti che impiegano lo Stato per drenare fondi pubblici dal basso e farli salire verso l’alto a beneficio di enti privati e bancari che si dicono “too big to fail” e con questa strategia narrativa vengono salvati puntualmente con i beni pubblici come se il loro salvataggio fosse d’interesse pubblico laddove, invece riguarda sempre solo i dominanti. Con – peraltro – anche un paradosso lampante, che è quello in virtù del quale coloro i quali sempre invocano libero mercato, la privatizzazione e la deregolamentazione, sono poi i primi a invocare lo Stato per salvare le banche, quindi per difendere il loro stesso interesse.
Ora, in questo scenario credo che occorra ragionare sul perché oggi la classe dominante voglia e aspiri a de-sovranizzare l’economia, ossia a liquidare en bloc lo stato nazionale come esperienza tipica della modernità. Il transito dal capitalismo dialettico (fino al ’68 e poi fino all”89 come propaggine estrema) al nuovo capitalismo assoluto, cioè libero da ogni vincolo absolutus e perciò stesso pienamente realizzato, ordunque questo passaggio si caratterizza anche per il fatto che si abbandona lo Stato e si tende a produrre un economico spoliticizzato. La cosiddetta globalizzazione, che è il capitalismo del quadro post-1989 non è altro – in fondo – che il mondo intero ridefinito come unico mercato, come open space per lo scorrimento omnidirezionale delle merci e delle persone mercificate. Ecco perché lo Stato deve essere neutralizzato o, quand’anche si ammetta ancora la sua esistenza, deve ridefinirsi come semplice continuazione dell’economico con altri mezzi, come stato poliziotto che garantisce gli interessi del mercato e della classe dominante.
Solo ora – ripeto – si compie la profezia di Marx, dopo il 1989: prima era maggiormente veritiera l’analisi di Hegel che individuava nello Stato una potenza etica. Prova ne è – oltretutto – il fatto che lo Stato, oggi più che mai, dove ancora sussista, svolge il ruolo di salvatore delle banche, degli enti privati (con i pubblici fondi, si intende) o di repressore a beneficio dei dominanti delle sommosse dal basso. Di ciò restano esempi fulgidi: il G8 di Genova o più recentemente le giubbe gialle massacrate a colpi di manganellate dalla Gendarmerie a Parigi. Lo Stato già come funzione repressiva a beneficio del ceto dominante. Il sogno realizzato del liberismo è quello di produrre un piano liscio deregolamentato dell’economico spoliticizzato, senza più sovranità nazionale che possa – con politiche welfaristiche – porre un freno alla voracità del capitale, quella voracità che già diceva Marx: «Se non viene limitata si prende anche quell’ultima Thule che è la giornata lavorativa», prendendosi cioè l’intera vita del lavoratore e costringendolo a lavorare anche di notte (la prossima frontiera del capitale) e nei fine settimana (come peraltro sta già avvenendo). Sicché il sogno del capitale è quello di de-sovranizzarsi, di porre fuori gioco quegli ultimi limiti rappresentati dagli Stati sovrani nazionali che dopo l”89 – venuta meno la potenza catecontica del comunismo novecentesco – restano gli ultimi fortilizi resistenziali rispetto all’avanzata onnivora del plusvalore capitalistico a trazione atlantista.
Ecco perché oggi il capitale dichiara guerra agli Stati sovrani nazionali e impiega puntualmente una strategia narrativa che così vorrei cristallizzare: l’ordine del discorso dice che gli Stati sovrani nazionali sono forieri di nazionalismi etnici, pericolosi, genocidari e per ciò stesso occorre superarli sovra-nazionalizzando e de-sovranizzando l’economico mediante enti sovranazionali come l’Unione Europea, la Banca Centrale e in generale tutte quelle realtà sensibilmente sovrasensibili che mettono fuori campo la sovranità nazionale. In realtà l’obiettivo non è questo, come puntualmente dice l’ordine del discorso, il vero obiettivo è quello di mettere fuori gioco le democrazie nazionali, gli stati sociali e il compromesso welfaristico fra Stato e mercato. Prova ne è – peraltro – che le guerre continuano a dilagare, non soltanto le guerre puramente economiche nel quadro della civilissima Europa. Penso alla guerra tra Stati debitori e Stati creditori, di cui il conflitto asimmetrico fra Germania e Grecia è l’emblema. Penso anche a vere e proprie guerre combattute realiter, come quella ai danni della Serbia (anch’essa parte dell’Europa fino a prova contraria), nel ’99 aggredita manu militari per volontà atlantista con esecuzione passiva e cadaverica da parte delle colonie europee. Ecco quindi che in questo scenario assistiamo perfettamente al continuo prosperare di quei conflitti da cui la de-sovranizzazione dovrebbe proteggerci. Invece spariscono realmente – questo sì – le democrazie, i diritti sociali, le conquiste welfaristiche e questo è il vero obiettivo della de-sovranizzazione gestita dagli agenti apolidi e sradicati del capitale, i quali dicono di voler superare con gli Stati nazionali le conflittualità nazionalistiche e in realtà operano per superare le democrazie, i controlli nazionali dell’economico e più in generale il compromesso storico fra Stato e mercato. L’obiettivo è sempre il medesimo: si dice di superare la sovranità per proteggere dalle guerre, in realtà per mettere fuori gioco le democrazie e le realtà di contenuto sociale e welfaristico. L’Unione Europea rappresenta – sotto questo profilo – un esempio fulgido di questa dinamica, giacché corrisponde a una de-sovranizzazione che, ipso facto, è una democratizzazione in ragione del fatto che il parlamento europeo – come è noto – svolge una funzione puramente coreografica che maschera il totale deficit di democrazia che caratterizza l’Unione Europea come unione delle classi dominanti europee contro le classi dominate d’Europa.
Da questo punto di vista giova rammentare che può esservi democrazia solo all’interno dello Stato sovrano nazionale: ce lo insegna l’esperienza tutta della modernità che è una storia di democrazie perfettibili finché si vuole, ma sempre incapsulate negli spazi degli Stati sovrani nazionali. Proprio come la democrazia perfettibile in terra ellenica sorse nel quadro della polis, così la democrazia perfettibilissima della modernità è sempre situata negli angusti perimetri degli Stati sovrani nazionali, con l’ovvia conseguenza per cui il discorso del capitalista che predica la sovranazionalizzazione realizza – de facto – la de-democratizzazione, la dissoluzione delle pur perfettibili democrazie.
Prova ne è, oltretutto, se consideriamo un aspetto decisivo, la sovranità popolare, che è la base della democrazia, ossia la possibilità per il demos – per il popolo – di autodeterminarsi sulle proprie questioni fondamentali economiche, politiche, militari e monetarie, ebbene questa sovranità popolare esiste sempre come sovranità nello Stato, ossia come possibilità per il demos di decidere per sé nello spazio dello Stato sovrano nazionale. Ora, perché vi sia questa sovranità che chiamo la “sovranità nello Stato”, occorre che in pari tempo si dia la “sovranità dello Stato”, ossia che lo Stato (supponiamo l’Italia) sia sovrano e non dipenda dalle volontà di Washington o di Bruxelles; possa cioè autodeterminarsi e si dia dunque il connubio fecondissimo e inevitabile tra sovranità popolare “nello” Stato e sovranità nazionale “dello” Stato. Ordunque, l’Unione Europea ha annientato la sovranità dello Stato e per ciò stesso ha distrutto (e questo era il suo vero obiettivo) la sovranità popolare nello Stato. Perché oggi, nel quadro dell’Unione Europea, è del tutto irrilevante ciò che i popoli francesi, italiani o greci decidano sovranamente nello Stato, nella misura in cui non vi è la sovranità dello Stato è sempre Bruxelles o più precisamente sono sempre i Consigli di Amministrazione, i caveau bancari a decidere sopra gli Stati sovrani nazionali. Questo, in estrema sintesi, il grande inganno della sovranazionalizzazione come progetto della destra liberista – che tutela, così facendo, il proprio interesse – e della sinistra fucsia cosmopolita che collabora con la destra liberista e finanziaria sostenendo essere lo Stato sovrano nazionale in quanto tale “fascista”, “nazista” e “regressivo” e per ciò stesso obliando il fatto fondamentale che le democrazie e anche le conquiste welfaristiche delle classi dominate, le conquiste del lavoro, sono sempre avvenute nel quadro degli Stati sovrani nazionali, come la storia novecentesca insegna.
Anche perché – diciamolo apertis verbis – all’interno dello Stato nazionale vi possono essere politiche democratiche. Non è detto che vi siano, ma possono esservi perché se vanno al Governo forze democratiche è possibile (nel rispetto della Costituzione) fare politiche più orientate per il lavoro e per i ceti deboli, laddove, invece l’economico senza politica è per ciò stesso non democratico e mai potrà essere democratico. Ecco perché la classe dominante mira a spoliticizzare l’economico, a produrre il mondo intero ridefinito come “mercato senza politica”, quindi senza sovranità, quindi senza democrazia, con il dominio dell’oligarchia finanziaria o – come la chiamava Marx – la “Finanzaristokratie”, l’aristocrazia della finanza.----
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