giovedì 15 novembre 2018

Carenza di fosforo di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 15 novembre 2018

(pressreader.com) – 
Berlusconi che difende i giornalisti (e persino i pm) dal “regime autoritario” gialloverde merita una mesta risata. Ma il guaio è che, in questo Paese privo di memoria e di fosforo, a denunciare gli attacchi alla stampa come “mai visti”, “senza precedenti”, “più gravi che in passato”, sono anche voci autorevoli e amiche. Quello che pensiamo degli insulti 5Stelle alla stampa che ha infamato la Raggi l’abbiamo scritto più volte: chi sta al governo o in Parlamento, tantopiù se è il vicepremier come Di Maio, non deve permettersi di usare il potere per giudicare pubblicamente i giornalisti, nemmeno quando ha ragione. Anche perché, come ogni cittadino, la legge gli dà tutti gli strumenti possibili per difendere la sua reputazione da chi lo diffama o lo calunnia: smentite, rettifiche, querele, cause civili, esposti all’Ordine. Invece Alessandro Di Battista è un privato cittadino senza cariche né potere, dunque è libero di dire ciò che vuole. Specie se si limita a ricordare quanti trattarono la Raggi “da ladra e da sgualdrina” (furono in molti, sui principali quotidiani) e a ritorcere contro di loro gli stessi epiteti. Ciò detto, vedere in piazza i rappresentanti della categoria in difesa di una libertà di stampa che non avevano mai difeso – non con la stessa energia, almeno – da minacce ben peggiori, fa un po’ ridere e un po’ piangere. Perché accredita la leggenda che oggi la libertà di stampa sia in pericolo come mai nella storia repubblicana....

Una frottola che solo chi finge di dimenticare gli ultimi 25 anni può raccontare. Basterebbe la lista degli epurati dalla Rai berlusconiana (Biagi, Luttazzi, Santoro, Freccero), dalla Rai renziana (Gabanelli, Giannini, Giletti) e dalla Rai gialloverde (nessuno) per chiudere il discorso. Ma, alla memoria selettiva di tanti colleghi, non mancano soltanto l’editto bulgaro di B. e le liste di proscrizione di Renzi. Quando c’era B., scomparvero dalla tv pubblica (e dunque anche da quella privata: la sua) decine di personaggi e programmi non graditi a lui e alla sua corte. Massimo Fini si vide chiudere il programma Cyrano prim’ancora che andasse in onda, perché “il sire di Arcore” non voleva. Idem per Raiot di Sabina Guzzanti, dopo la prima puntata che aveva osato parlare di legge Gasparri. Paolo Rossi, invitato a Domenica In, fu rispedito a casa perché minacciava addirittura di leggere un discorso di Pericle, noto antiberlusconiano ante litteram, sulla democrazia ateniese. Altre censure investirono programmi scapigliati come Ultimo Round, personaggi incontrollabili come Beha, ospiti sgraditi come Hendel, la Guerritore e la Porcaro.
E appena La7 minacciò di creare il terzo polo tv sulle ceneri di Telemontecarlo, con star come Fazio, Lerner, Luttazzi, i Guzzanti e altri, l’amicone di B. Tronchetti Provera provvide a soffocarla nella culla e a normalizzarla per un bel po’. E quel plumbeo sudario di censura e autocensura calò anche su alcuni dei (pochi) giornali che B. non possedeva. Come il Corriere della Sera e persino l’Unità. Al Corriere, nel 2001, entrarono subito nel mirino degli epuratori berlusconiani Biagi, Sartori e Grevi (per i loro editoriali contro le leggi ad personam, i conflitti d’interessi e le fughe dai processi), i cronisti giudiziari Biondani, Bianconi, Ferrarella (per i loro articoli sui dibattimenti Toghe sporche) e persino il vignettista Emilio Giannelli. Un bombardamento di proteste sempre più minacciose dal portavoce del premier Paolo Bonaiuti, di lettere minatorie pubbliche e private da Cesare Previti e dagli on. avv. Ghedini&Pecorella. Seguì una raffica di querele e cause civili. Quando poi Ferruccio si schierò contro l’assurda guerra di Bush jr. all’Iraq, sposata in pieno da B., quest’ultimo ufficializzò l’ostilità del governo al direttore del Corriere, mai difeso pubblicamente dalla proprietà. E lo fece apostrofando coram populo Cesare Romiti, primo editore del quotidiano di via Solferino, con queste parole: “Mi saluti il direttore del manifesto…”.
Il Caimano sapeva bene quel che si muoveva dietro le quinte: l’amico Salvatore Ligresti, suo vecchio compare nel clan craxiano e azionista del Corriere, stava lavorando ai fianchi Romiti perché scaricasse De Bortoli e ne consegnasse la testa a B. su un vassoio d’argento. Infatti il 29 maggio 2003, dopo due anni di linciaggio, il sempre più isolato Ferruccio rassegnò le dimissioni. A difenderlo, ai piani alti, era rimasto il solo banchiere Bazoli. Lo sostituì il più felpato e cerchiobottista Stefano Folli, con risultati non proprio esaltanti. Furio Colombo, l’indomani, aprì così la prima pagina dell’Unità: “Si sono presi pure il Corriere”. E anche quel titolo contribuì alla sua cacciata da direttore del giornale fondato da Antonio Gramsci. Da mesi Furio era nel mirino dei Ds (fra l’altro non più proprietari del giornale, ma solo della testata) per la sua linea intransigente contro ogni inciucio consociativo del partito diretto da Fassino con B.. Una linea che gli sparafucile dei Ds, sparsi nei giornaletti amici, dal Riformista (con Polito, Caldarola e Andrea Romano) a Europa al Foglio di Ferrara, bollavano per conto terzi di “girotondismo” (quasi che fosse un insulto) e (non ridete) di “antiberlusconismo”. Dopo continui scontri con Fassino & C., il 22 febbraio 2004 lasciò la direzione al suo vice Antonio Padellaro, che però mantenne la stessa linea intransigente. Infatti alla prima occasione fu silurato con la stessa accusa: il giornale della sinistra era troppo antiberlusconiano. Umberto Eco scherzò con l’amico Furio: “Hanno voluto offrire la tua testa al nemico, come Salomè donò quella di Giovanni il Battista a Erodiade”. Cari smemorati, questo e molto altro accadeva quando le cose andavano meglio. A proposito: voi, allora, dov’eravate?
Carenza di fosforo di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 15 novembre 2018

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