A Damasco tra macerie e paura. "Ma qui dei gas non c'è ombra"
Le testimonianze raccolte dal nostro cronista,
unico reporter italiano nell'area del presunto attacco chimico: "Le
bombe sono un incubo. Eppure la storia del sarin...". «Jobar, il villaggio dei ribelli, quello
dove dicono che siano piovuti i gas è dietro quella sopraelevata... Là
in fondo, la vedi». Fares, 43 anni, è un cristiano di Al Kassa, un
quartiere di palazzine in stile parigino stretto attorno alla piazza
George Khouri e all'ospedale francese di Saint Luis. La sopraelevata è quella della circonvallazione sud di Damasco.
Ottocento metri più in là, oltre il fiume Barada, c'è Jobar, il
villaggio punta di lancia dello schieramento ribelle che attraversa la
piana di Ghouta, la foresta («ghouta» in arabo ndr) degli orrori dove a
dar retta a Obama le armi chimiche avrebbero ucciso più di mille e
cinquecento persone......
Qui,
a meno di 800 metri, si stende uno dei quartieri più eleganti di
Damasco, il preferito dalla borghesia cristiana della capitale. Ma anche
qui eleganza e lusso hanno lasciato il posto a guerra e distruzioni. Il
«Caffè di Roma» ne porta tutti i segni.
Una settimana fa, pochi giorni dopo la strage chimica destinata a far
scattare l'intervento statunitense, le granate provenienti da Jobar
sono esplose sul marciapiede qui davanti, hanno colpito in pieno Padre
Amer, un prete siro cattolico sedutosi per un caffè pomeridiano.
«Urlava, era in un lago di sangue, aveva la faccia distrutta, il fianco
completamente aperto - ricorda Rania una ragazza cristiana - ora è
ancora in ospedale preghiamo ogni giorno per lui».
Ogni angolo di questo quartiere conta morti feriti e distruzioni. A
Berj Aruss Street sabato 24 agosto un missile katyusha esploso davanti
alla scuola elementare e media di Lourd spedisce al camposanto sei
persone e ne manda all'ospedale altre 15. A Kalil e Yaziji Street le
colonne in plexigas degli ascensori esterni sono un ricamo di bombe e
proiettili. In ogni caseggiato incontri qualcuno pronto a raccontarti
dei feriti di famiglia e dell'angoscia quotidiana. Eppure bomba dopo
bomba la vita continua: «Siamo stati colpiti già tre volte. Ogni volta
spendo trecento dei vostri euro per rimettere a posto le vetrine»
racconta Mohammed Osman, un sunnita 29enne proprietario di «Carissima»,
il negozio di scarpe da donna più elegante della zona e di altre due
boutique d'abbigliamento. «Voi occidentali mi fate impazzire. Prima
dell'embargo venivo da voi in Italia almeno due volte all'anno a fare il
pieno di scarpe, ma ora non capisco più come ragioniate. Parlate di
quell'attacco chimico e vi dimenticate che noi da oltre due mesi viviamo
quest'incubo delle bombe ribelli. Io sono sunnita e stando a voi dovrei
stare con gli oppositori armati, invece sono qui a cercar di mandare
avanti gli affari e a beccarmi le bombe di quegli integralisti
arrabbiati. Una settimana fa, quando i colpi di mortaio hanno colpito il
mio negozio per la terza volta, due mie clienti mi sono impazzite dalla
paura. Erano terrorizzate. Voi invece parlate solo delle armi chimiche e
non vi chiedete come mai, a un chilometro di distanza, nessuno si sia
accorto di nulla. Pensate veramente che il nostro esercito sia così
pazzo da sterminarci tutti».
Malek, un regista sulla sessantina seduto sul balcone di un
appartamento affacciato su piazza Khouri tira le tende, mostra finestre e
tapparelle trasformate in colabrodo. «Io nella vita faccio il regista
sono abituato a cercar di capire quel che mi succede attorno. Qui ogni
notte vedo e sento i bombardamenti dei ribelli. Vedo anche quelli
dell'esercito che risponde. Quando il tutto sale d'intensità scappo in
cantina per salvare la pelle. Di gas non ne ho mai visto l'ombra. Eppure
vivo in prima fila. Se faccio due passi e arrivo a quell'angolo riesco a
scorgere le case e le strade di Jobar. Tutta questa faccenda mi sembra
perfettamente in linea con la politica di Obama. Lui è un presidente
assai bravo a predicare, ma assai poco attento a guardare cosa succeda
veramente sulla faccia della terra. Si sforza di credere alla faccenda
dei gas perché si sposa bene con la sua strategia. Lui sta dalla parte
dei ribelli e li usa per i suoi scopi. Ma mi fa veramente ridere quando
minaccia di bombardarci per salvare il popolo siriano. Là davanti a
Jobar combattono tunisini, afghani, ceceni, turchi e al qaidisti nemici
dell'America. Qui invece vivono solo siriani. Siriani di tutte le fedi e
di tutte le etnie come è sempre stato qui in Siria negli ultimi
cinquant'anni. Ma per lui il vero popolo siriano è quello venuto
dall'estero. Quello che ci spara addosso da Jobar».
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