Dalla società dell'eguaglianza al mondo diseguale: cronaca del declino della democrazia.
di Stefano Rodotà
Vi è una soglia di diseguaglianza superata la quale le società
allontanano le persone tra loro in maniera distruttiva, ne mortificano
la dignità, e così negano il loro stesso fondamento che le vuole
costituite da "liberi ed eguali"? Evidentemente sì, visto che Barack Obama,
abbandonando i passati silenzi, è intervenuto su questo tema,
sottolineando che diseguaglianze nei diritti, nel rispetto della razza,
nel reddito mettono in pericolo coesione sociale e democrazia. La
denuncia riflette preoccupazioni che hanno messo in evidenza come le
diseguaglianze siano pure fonte di inefficienza economica.
È all'opera una sorta di contro modernità, che contagia un numero
crescente di paesi, e vuole cancellare l'"invenzione dell'eguaglianza".
Proprio questo era avvenuto alla fine del Settecento, quando le
dichiarazioni dei diritti fecero dell'eguaglianza un principio fondativo dell'ordine giuridico,
e non più soltanto un obiettivo da perseguire all'interno di un ordine
sociale che trovava nella natura la fonte della solidarietà, affidata ai
doveri della ricchezza, alla carità, a un ordine gerarchico intessuto
di relazioni spontanee tra superiori e inferiori. Questo disegno
armonico si era rivelato incapace di reggere il peso delle
diseguaglianze, e da qui è nata la rivoluzione dell'eguaglianza, che ha
abbattuto la società degli status, e dato vita al soggetto libero ed
eguale......
Da generico dovere morale la lotta alle diseguaglianze diveniva compito pubblico. Passaggio colto con l'abituale nettezza da Montesquieu:
«fare l'elemosina a un uomo nudo, per strada, non esaurisce gli
obblighi dello Stato, che deve assicurare a tutti i cittadini la
sopravvivenza, il nutrimento, un vestire dignitoso, e un modo di vivere
che non contrasti con la sua salute».
Erano venuti i tempi di quella che Pierre Rosanvallon ha chiamato "l'eguaglianza felice".
Non perché una magia avesse cancellato le diseguaglianze. Ma perché un
cammino era tracciato, e l'eguaglianza non era solo una promessa, ma un
compito al quale lo Stato non poteva sottrarsi (continua a dircelo l'art. 3 della Costituzione). Questo cammino è stato interrotto, per ragioni diverse.
La crisi fiscale dello Stato, con una riduzione delle risorse
disponibili per il welfare accentuata nell'ultima fase. La teorizzazione
di una eguaglianza sempre più legata alle sole opportunità di partenza e
non ai risultati, quasi che diritti come salute e istruzione possano
essere svuotati del loro esito concreto. Sullo sfondo, le tragedie del
Novecento, con la separazione della libertà da una eguaglianza imposta
anche con una violenza che spingeva a rifiutare, insieme
all'egualitarisno, forzato, l'eguaglianza stessa. E soprattutto il
ritorno del mercato come legge naturale indifferente all'universalismo.
E così il mondo si è fatto sempre più diseguale. Negli anni '80 Peter Glotz parlò di una società dei due terzi,
dove la maggioranza degli abbienti, raggiunto il benessere, abbandonava
gli altri al loro destino. Oggi le cifre sono più drammatiche, i
meccanismi di esclusione più profondi. Lo slogan estremo - "siamo il 99%" - è stato reso popolare dal movimento Occupy Wall Street
e, al di là dell'esattezza della percentuale, fotografa una tendenza al
concentrarsi della ricchezza nelle mani di una quota sempre più
ristretta di persone (le stime parlano di un 10% della popolazione che
possiede tra il 50 e l'85% della ricchezza). Una concentrazione che si è
rafforzata nell'ultima fase, e che testimonia una spettacolare
inversione di tendenza. Infatti, nel 1913 in Francia l'1% possedeva il
53% della ricchezza, quota scesa al 20% nel 1994; in Svezia, la discesa
era stata dal 46% del 1900 al 23% del 1980; negli Stati Uniti, il 10%
possedeva il 50% prima della crisi del 1929 e il 35% nel 1980.
Dalla società dell'eguaglianza, che parlava di pieno impiego e di fine delle povertà materiali, si è così passati ad una società della diseguaglianza,
dove distanze abissali dividono le persone, come hanno messo in
evidenza i dati riguardanti il rapporto tra i redditi dei nostri manager
e quelli dei dipendenti (in testa Marchionne con un rapporto 1 a 460).
Il mondo solidale si perde nella frammentazione e negli egoismi. Gli effetti si manifestano con il ritorno della povertà, la riduzione dei diritti sociali, la trasformazione del lavoro in precariato o sfruttamento,
la violenza dei meccanismi di esclusione e di rifiuto dell'altro, la
chiusura nei ghetti. Le diseguaglianze stravolgono la vita delle
persone, le condannano al grado zero dell'esistenza, anzi a quella
"infelicità" che Wilkinson e Pickett hanno cercato di misurare con indici concreti. Così la
diseguaglianza si scompone, va oltre la distanza economica, si alimenta
con le tensioni legate alla razza, con le politiche del disgusto per il
"diverso", con le diseguaglianze digitali. E regredisce a
cittadinanza censitaria, perché i diritti non sono garantiti
dall'eguaglianza, ma dalle risorse per comprarli sul mercato.
Nel mondo diseguale emergono soggetti che incarnano la nuova condizione. La classe precaria, alla quale Guy Standing vorrebbe affidare l'intero compito del rinnovamento. O i migranti, più ragionevolmente ricordati da Gaetano Azzariti
come la realtà che meglio descrive la società globale e diseguale.
Proprio perché tanto grandi sono gli effetti distruttivi delle
diseguaglianze, torna così il bisogno di ripensare l'eguaglianza, quella "società degli eguali"
alla quale è dedicato il bel libro di Rosanvallon, che indica di nuovo
la via dell'eguaglianza perché la stessa democrazia possa tornare ad
essere,o divenire, "integrale".--------
http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=83118&typeb=0&Differenze-sociali-e-democrazia-
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