Linda Thomas-Greenfield, rappresentante permanente degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza.
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Da sei mesi il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite è luogo di scontro tra Paesi sostenitori dell’egemonia statunitense da un lato e Paesi che sperano in un mondo più giusto dall’altro. Questi i numeri che fanno da sfondo alla guerra: i civili israeliani massacrati sono oltre 779, i feriti 2.000, i sequestrati circa 200; i palestinesi in detenzione amministrativa (l’equivalente di presa in ostaggio) sono 2.870, i civili palestinesi massacrati sono almeno 30 mila, i feriti almeno 70 mila.
La prima reazione dell’“impero americano” all’operazione Al Aqsa della Resistenza palestinese e alla risposta israeliana – l’operazione Spada di ferro – è stata di sgomento e al tempo stesso di cieco sostegno. Dal punto di vista di Washington era assolutamente necessario che l’Occidente non subisse un’altra sconfitta dopo quelle di Siria e Ucraina. Sicché la rappresentante permanente degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza, Linda Thomas-Greenfield, ha votato contro ogni proposta di cessate-il-fuoco: aveva istruzioni di prendere tempo per consentire a Israele di vincere.
Il 16 ottobre 2023 Thomas-Greenfield oppone il veto alla proposta di risoluzione S/2023/772, dichiarando: «Hamas deve essere ritenuto responsabile dei propri atti. Non rappresenta il popolo palestinese e non ha fatto nulla per promuovere la pace e la stabilità, cui ha preferito il caos». È stata la sua prima menzogna. Si può approvare Hamas o deplorarlo, ma bisogna riconoscere che fu regolarmente eletto dai palestinesi nel 2006, conseguendo la maggioranza relativa del 44,45%.
Il 18 ottobre Thomas-Greenfield si oppone alla proposta di risoluzione S/2023/773 del Brasile. Con l’occasione dichiara: «Questa proposta non menziona il diritto alla legittima difesa di Israele»: argomentazione cui la rappresentante statunitense farà spesso ricorso. È un’altra menzogna, come ha confermato un parere consultivo del 2004 della Corte internazionale di giustizia (CIJ): il diritto alla legittima difesa «non si applica nel caso di una potenza occupante».
Il 25 ottobre Thomas-Greenfield presenta una proposta di risoluzione, la numero S/2023/792. Un testo che «non contiene un appello al cessate-il-fuoco; non condanna gli attacchi indiscriminati a cittadini e a strutture civili a Gaza; non denuncia le azioni finalizzate a spostare con la forza i civili» riassume il rappresentante permanente della Russia, Vassili Nebenzia, esponendo le ragioni del veto del proprio Paese.
Il rappresentante permanente della Cina, Zhang Jun, è ancora più esplicito: giustificando il veto, definisce il testo «squilibrato» e «ambiguo», con ritocchi «cosmetici», un testo che «mescola tutto» e che, se approvato, sarà il «via libera» per un’azione militare di Israele ad ampio raggio e per un’escalation del conflitto. Anzi peggio, dichiara il diplomatico cinese: il documento non fa alcun riferimento alle cause profonde della crisi umanitaria nella Striscia di Gaza e non sprona Israele a rimuovere il blocco né a rinunciare all’ordine di evacuazione, che è un’accelerazione della «discesa agli inferi» di questo territorio; inoltre elude deliberatamente la questione dell’occupazione israeliana e della creazione di uno Stato palestinese.
L’ambasciatrice Thomas-Greenfield reagisce a questo fuoco di fila mettendo il veto alla proposta di risoluzione russa S/2023/795. A corto di argomenti, s’accontenta di contestare che il testo sia stato redatto senza consultazioni.
Esasperata dai tre veti degli Stati Uniti, il 27 ottobre l’Assemblea generale adotta ¬¬¬– con 121 voti a favore, 14 contro e 44 astensioni – la risoluzione giordana ES-10/21 [1], denominata «Protezione dei civili e rispetto degli obblighi giuridici e umanitari». L’Assemblea generale non ha potere di esigere, può solo chiedere. Quindi la risoluzione si limita a «chiedere una tregua umanitaria immediata, duratura e continuata, che porti alla cessazione delle ostilità»; raccomanda inoltre che le parti adempiano immediatamente e pienamente agli obblighi loro imposti dal diritto internazionale, compreso il diritto umanitario.
L’ambasciatrice Thomas-Greenfield continua a perseguire l’obiettivo di non mettere a rischio l’operato di Israele, che deve vincere a ogni costo. Continua a rifiutare l’imposizione di una cessazione dei combattimenti, ma adesso si preoccupa di non lasciar morire in diretta 2,2 milioni di palestinesi sulle televisioni e i cellulari dei 121 Stati che hanno votato la risoluzione dell’Assemblea generale.
Occorrerà attendere il 15 novembre perché l’ambasciatrice Thomas-Greenfield lasci passare la proposta di risoluzione al Consiglio di sicurezza di Malta, la numero 2712 [2], opponendosi tuttavia a che il testo riprenda il passaggio della risoluzione dell’Assemblea generale del 27 ottobre in cui si chiede «una tregua umanitaria immediata, duratura e continuata, che porti alla cessazione delle ostilità». Il Consiglio si limita a chiedere «tregue umanitarie urgenti e prolungate, nonché l’apertura di corridoi in tutta la Striscia per un numero sufficiente di giorni». Israele può quindi continuare la guerra fino alla vittoria, anche a prezzo di altre decine di migliaia di morti.
In Israele sostenitori della pace fanno trapelare una nota della ministra dell’Intelligence, Gila Gamliel, intitolata Alternative a una direttiva politica per la popolazione civile di Gaza [3], in cui si raccomanda l’espulsione dei 2,2 milioni abitanti di Gaza nel Sinai egiziano. Molto imbarazzati, i servizi del primo ministro assicurano ai giornalisti che questa giovane ministra è una figura di secondo piano che cerca solo di far parlare di sé. Ma la nota non era destinata al pubblico.
Amichai Aliyahu, ministro del Patrimonio, dichiara a radio Kol Berama che Israele non esclude di usare l’arma atomica a Gaza: «sarebbe una soluzione… è un’opzione». Paragona poi gli abitanti della Striscia di Gaza ai «nazisti» e afferma che «a Gaza ci sono solo combattenti» e che la Striscia non merita aiuti umanitari. «A Gaza tutto il popolo è implicato» conclude il ministro.
L’8 dicembre il segretario generale dell’Onu, António Guterres, provoca gli Stati Uniti. Appellandosi all’articolo 99 della Carta delle Nazioni unite, convoca il Consiglio di sicurezza per avvertirlo dell’elevato rischio di un «crollo totale» del sistema di sostegno umanitario a Gaza, con conseguenze «catastrofiche» per l’ordine pubblico, la sicurezza della regione, nonché della pericolosa pressione che potrebbe costringere i civili di Gaza a spostamenti massicci verso l’Egitto (allusione alla nota della ministra Gamliel). Ciononostante l’ambasciatrice Thomas-Greenfield tiene duro. Per la quarta volta oppone il veto, in questo caso si tratta della proposta di risoluzione S/2023/970, presentata da molti Stati, che «esige un cessate-il-fuoco umanitario immediato». Giustifica la decisione con il carattere «squilibrato e disconnesso dalla realtà» del testo, nonché con il rifiuto da parte dei proponenti di introdurre una formula di condanna degli orribili atti compiuti da Hamas il 7 ottobre contro Israele. Thomas-Greenfield fustiga inoltre la proposta perché essa non riconosce a Israele il diritto di difendersi dal terrorismo, conformemente al diritto internazionale, argomentando che un cessate-il-fuoco «incondizionato» è irrealistico, persino pericoloso.
Il 22 dicembre l’ambasciatrice Thomas-Greenfield fa qualche concessione: accetta di astenersi al momento della votazione della risoluzione 2720 [4], un testo che non affronta la questione dei combattimenti e si limita a sollecitare un significativo incremento degli aiuti umanitari, inclusi carburante, cibo e prodotti sanitari. La risoluzione esige anche l’apertura di tutti i varchi frontalieri, compreso quello di Kerem Shalom, e propone la nomina immediata di un coordinatore per gli aiuti umanitari e la ricostruzione di Gaza.
Forti del sostegno statunitense, i sionisti revisionisti manifestano chiaramente la volontà di farla finita con Gaza. Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, e Danny Danon, ex ambasciatore all’Onu, nonché lo stesso primo ministro, Benjamin Netanyahu, moltiplicano le dichiarazioni in tal senso. Israele prende contatti all’estero per trovare una sistemazione a questo popolo non gradito. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in visita al Cairo, dichiara che la Ue potrebbe accoglierne un milione; il Rwanda, la Repubblica Democratica del Congo e il Ciad smentiscono di aver dato la propria disponibilità.
Il 12 gennaio l’Algeria chiede al Consiglio di opporsi al «trasferimento» degli abitanti di Gaza. Questa volta l’ambasciatrice statunitense si unisce ai favorevoli. Da trent’anni gli Stati Uniti difendono la “soluzione a due Stati”, già concepita dai britannici: creare uno Stato ebraico e uno Stato palestinese, soprattutto per evitare di essere obbligati a mettere fine all’apartheid. Gli anglosassoni hanno costantemente respinto la soluzione di uno Stato binazionale ipotizzata dalle Nazioni unite nel 1947, che presupporrebbe la proclamazione dell’uguaglianza di tutti gli uomini, sia ebrei sia arabi [5]. Vogliono invece dividere la Palestina per assicurarsi che gli ebrei non avranno mai uno Stato vitale, secondo le parole di lord Herbert Samuel. Per riuscirvi possono contare sulle ossessioni degli israeliani, tuttavia devono tenere a freno la fazione fascista, cioè i “sionisti revisionisti” di Jabotinsky e Netanyahu.
Il 23 gennaio il segretario generale António Guterres partecipa alla riunione trimestrale dedicata alla Palestina, che questa volta si svolge a livello ministeriale. Sposando la strategia anglosassone, Guterres giudica «inaccettabile» il rifiuto «chiaro e reiterato» della soluzione a due Stati, espresso dal governo israeliano. La soluzione a due Stati, ripetutamente «data per morta», è l’unico mezzo per giungere a una pace duratura ed equa, dichiara il segretario generale. La sua posizione è condivisa da quasi tutti i cinquanta oratori, tra cui naturalmente il segretario statunitense Antony Blinken.
Fulmine a ciel sereno all’Aja: il 26 gennaio la Corte internazionale di Giustizia (CIJ), ossia il tribunale interno delle Nazioni Unite, interpellata dal Sudafrica emette un’ordinanza cautelativa [6] che impone a Israele di intervenire per proteggere la popolazione di Gaza da un possibile genocidio. Il Consiglio si riunisce il 31 gennaio per esaminare la decisione della Corte.
La rappresentante permanente del Sudafrica, Mathu Theda Joyini, guardando in faccia l’ambasciatrice statunitense Thomas-Greenfield, dichiara che l’ordinanza della CIJ è, a suo parere, un chiaro segnale ai Paesi che finanziano e agevolano le operazioni israeliane, che potrebbero essere accusati di violare la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Ma Thomas-Greenfield rileva che nelle conclusioni preliminari la Corte non ha sollecitato un cessate-il-fuoco immediato, né affermato che Israele viola la Convenzione sul genocidio.
E siccome Israele, immediatamente dopo il pronunciamento dalla CIJ, ha iniziato una campagna internazionale contro l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (UNRWA), Thomas-Greenfield annuncia che gli Stati Uniti cesseranno di finanziarla. Ma, senza l’UNRWA, Israele non riuscirà a distribuire aiuti umanitari a Gaza, però potrà affermare di aver fatto tutto quanto era in suo potere: Tel-Aviv sarebbe stata ben felice di aiutare i civili di Gaza, ma sfortunatamente non è stato possibile.
Il 20 febbraio Thomas-Greenfield oppone il quinto veto, questa volta contro la proposta di risoluzione 2/2024/713 dell’Algeria, ritenendola un ostacolo agli sforzi diplomatici. In realtà la proposta «chiede un cessate-il-fuoco umanitario immediato che tutte le parti devono rispettare», ma Washington continua a non volere l’interruzione della guerra, nonostante i cadaveri si accumulino.
L’ambasciatore cinese Zhang Jun ritiene che la passività degli Stati Uniti assomigli a «un via libera alla prosecuzione delle ostilità» e accresca il rischio di un’estensione dell’incendio all’intera regione. Ritiene che il veto statunitense calpesti il diritto internazionale, adducendo la lettera inviata al Consiglio di sicurezza dal segretario generale, in virtù dell’articolo 99 della Carta delle Nazioni unite, nonché l’ordinanza della CIJ.
L’ambasciatore russo, Vassili Nebenzia, denuncia invece un progetto statunitense di risoluzione alternativa, concepito in modo da fornire «protezione all’alleato in Medio Oriente» per dargli tempo di espellere la popolazione di Gaza. «È un tentativo di sfruttare il tempo a favore di Israele» dichiara il diplomatico russo.
Il 22 febbraio il Consiglio ascolta la raggelante testimonianza del segretario generale di Medici senza frontiere (MSF). La rappresentante permanente della Svizzera, Pascale Baeriswyl, ricorda che Israele, in quanto potenza occupante, deve assumersi le proprie responsabilità di fronte al diritto internazionale, ossia assicurare l’approvvigionamento della popolazione palestinese in viveri e prodotti sanitari, come affermato chiaramente dalla CIJ.
Il 22 marzo l’ambasciatrice Thomas-Greenfield tenta di salvare la faccia: propone la risoluzione S/2024/239, che ritiene di poter far passare. Ahimè, il testo afferma che è «imperativo un cessate-il-fuoco immediato e duraturo», ma al punto 19 riprende le accuse contro l’UNRWA. Inoltre nel preambolo è dichiarato: «Hamas e altri gruppi terroristi, nonché gruppi estremisti armati non difendono a Gaza la dignità e l’autodeterminazione del popolo palestinese, infatti Hamas è stato qualificato organizzazione terrorista».
La Russia e la Cina oppongono il veto. Thomas-Greenfield commenta: «Preferiscono far fallire comunque il Consiglio piuttosto che permettergli di farcela».
Il 25 marzo l’ambasciatrice Thomas-Greenfild finalmente cede. Negli Stati Uniti è iniziata la campagna elettorale. I sondaggi danno perdente Joe Biden: una larga maggioranza degli elettori non gli perdona la successione di veti alle Nazioni Unite.
Quando i dieci membri non-permanenti del Consiglio presentano una nuova proposta di risoluzione S/RES/2728(2024) [7], Thomas-Greenfield chiude gli occhi e non oppone il veto, senza tuttavia approvarla.
Il testo «esige un cessate-il-fuoco umanitario immediato durante il ramadan, che dovrà essere rispettato da tutte le parti e condurre a un cessate-il-fuoco duraturo; esige la liberazione immediata e incondizionata di tutti gli ostaggi, nonché la garanzia di accesso agli aiuti umanitari per rispondere ai bisogni sanitari e di altro tipo della popolazione; inoltre esige che le parti rispettino gli obblighi loro imposti dal diritto internazionale verso tutte le persone in detenzione».
È il decimo testo dal 7 ottobre sottoposto al voto del Consiglio: ottiene 14 voti a favore, nessuno voto contrario e un’astensione (Stati Uniti).
Giustificando l’astensione dal voto di questa risoluzione, che ritiene «non vincolante» (sic), l’ambasciatrice Thomas-Greenfield deplora che alcuni emendamenti da lei proposti non siano stati accolti, in particolare quello con cui chiedeva l’inserimento di una condanna di Hamas. Accusa inoltre la Russia e la Cina di non volere una pace duratura raggiunta per via diplomatica e di usare questo conflitto per dividere il Consiglio.
L’ambasciatore cinese Zhang Jun la contesta sottolineando le differenze tra la proposta statunitense, respinta tre giorni prima, e la risoluzione approvata. A suo parere il nuovo testo è «inequivocabile», mentre il precedente era «vago e ambiguo», poneva condizioni preliminari. Il testo approvato rispecchia inoltre le aspirazioni della comunità internazionale e ha il sostegno del mondo arabo. Facendosi più aggressivo, il diplomatico cinese dichiara che è ora che gli Stati Uniti cessino «la loro opera di ostruzionismo» in Consiglio.
Il 26 marzo il Consiglio esamina l’applicazione della risoluzione presa due giorni prima. L’ambasciatore Vassili Nebenzia si dice stupito delle affermazioni della collega statunitense, che ha definito la risoluzione «non-vincolante». «Questo significa che gli Stati Uniti si ritengono sciolti dall’art. 25 della Carta, che impone ai membri di rispettare le decisioni del Consiglio di sicurezza?» si chiede Nebenzia. Amar Bendjama, rappresentante permanente dell’Algeria, aggiunge: «Se così fosse sarebbe messa in discussione l’esistenza stessa di questa organizzazione».
Linda Thomas-Greenfield riteneva che Israele non potesse perdere senza provocare la fine dell’egemonia occidentale. La sua ostinazione ha dimostrato che Washington è disposto a chiudere gli occhi su qualsiasi crimine purché nel breve termine vada a proprio favore. Ma soprattutto ha dimostrato che gli Stati Uniti sono pronti a calpestare il diritto internazionale se intralcia la loro politica....
È la definizione di Stato-canaglia.
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