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Roberto PECCHIOLI
Le piccole librerie e i bouquinistes di strada sono preziosi. Da loro si riescono a trovare vecchie edizioni, libri che si credevano esauriti, autori e testi dei piccoli editori, presidio di libertà. Visitando una libreria nel centro storico di una piccola città ci siamo imbattuti in un libriccino di poche pagine scritto nel 2011 dal filosofo e storico dell’arte Mario Perniola, scomparso recentemente. Intrigante il titolo, interessante il testo che si legge d’un fiato: Berlusconi o il ’68 realizzato.
La tesi dell’intellettuale astigiano è che il Cavaliere sarebbe la prova del successo della rivoluzione antropologica innescata dalle idee, parigine e californiane, del 1968. Strano davvero che le posizioni eterodosse di pochi pensatori considerati reazionari, insieme con voci potenti ma isolate tacciate di “rossobrunismo” (Costanzo Preve) vengano in qualche modo accolte, o almeno rivisitate, da un figura come quella di Perniola. Già estremista di sinistra, vicino all’Internazionale Situazionista in gioventù sino all’amicizia personale con Guy Debord, successivamente storico e filosofo dell’arte su posizioni assai critiche della post modernità, nemico del “pensiero debole”, protagonista di accese polemiche con Gianni Vattimo, presenta una tesi sorprendente e non priva di un certo fascino. Il cavaliere di Arcore sarebbe, nella visione dell’allievo di Luigi Pareyson, colui che ha realizzato quanto il Sessantotto aveva sostenuto....

Da insider del movimento (Perniola nacque nel 1941 e cominciò a intervenire nel dibattito culturale a metà degli anni 60) egli scorge nella figura di Berlusconi “quella volontà di potenza, quel trionfalismo farneticante, quella estrema volontà di destabilizzare tutta la società di cui il Sessantotto fu pervaso. Fine del lavoro e della famiglia, descolarizzazione, distruzione dell’università, deregolamentazione della sessualità, contro-cultura, e discredito delle competenze mediche e crollo delle strutture sanitarie, ostilità nei confronti delle istituzioni giudiziarie considerate come repressive, vitalismo giovanilistico, trionfo della comunicazione massmediatica, oblio della storie e presentismo spontaneistico, tutto ciò è ormai diventato realtà.”
Parole di condanna del 68 che suonano strane, in bocca al vecchio situazionista diventato professore di estetica, simili a quelle esposte ne L’ arte espansa, in cui sostiene che “la dimensione dell’arte si è ampliata enormemente. Ogni cosa può essere trasformata in arte, anche senza che il suo autore ne sappia nulla. Ma chi ha la legittimità e l’autorevolezza per operare tale metamorfosi?” Un lessico vicino a quello di un conservatore che guarda con un certo orrore allo slogan centrale del 68 “l’immaginazione al potere”. Resta in lui il riflesso pavloviano che ha percorso l’intera sinistra italiana dal 1994, la demonizzazione dell’avversario, cui vengono attribuiti tutti i mali del presente.
No, Berlusconi non ha affatto realizzato il Sessantotto, ma senza dubbio ne è un prodotto. Il rovesciamento di tutti i valori è un elemento della distruzione creatrice intuita da Schumpeter come motore del capitalismo; il 68, nato rivoluzionario, è stato poi assorbito da una nuova ideologia, l’individualismo libertario progressista. Come intuisce Perniola, ad un’economia e a un etica fondate sul lavoro succede un mondo basato sulle relazioni sociali, in cui le qualità richieste sono l’adattabilità, la flessibilità, la polivalenza, dunque il cinismo e l’indifferentismo morale. L’uomo del post 68 è uno Zelig che “muta d’accento e di pensier” a seconda degli interlocutori, delle situazioni, delle convenienze. Ha un rapporto speciale con l’intrattenimento e non tollera divieti (c’est interdit d’interdire). La figura di Berlusconi può essere paradigmatica di un certo modo di stare al mondo, ma non è che un effetto di un’esplosione generale di cui lo stesso Perniola, che sembra deprecarne gli esiti, fu attivo promotore.
La nostra posizione è diversa. Il 68 fu una rivoluzione in interiore homineche ha totalmente decostruito la società europea e occidentale, i cui frutti avvelenati si possono sintetizzare in dieci punti brillantemente teorizzati da Marcello Veneziani. Secondo il pensatore pugliese, il Sessantotto fu sfascista, parricida, infantile, arrogante, estremista, tossico, conformista, riduttivo, neo bigotto, smisurato. Distruttore, poiché lasciò l’ebbrezza di abbattere, rifiutare. Non per caso, si chiamò contestazione globale. Fu parricida, poiché la rivolta designò un nemico assoluto, il Padre. Quel parricidio fu destituente, poiché ridusse in cenere ogni autorità ed autorevolezza. Fu infantile in quanto scatenò nelle masse una perdurante sindrome di Peter Pan: nessuna volontà di crescere, l’irresponsabilità al potere quanto l’immaginazione. Senza padri, i figli permanenti costruirono la società senza figli, attraverso la denatalità, l’aborto, il disprezzo per la vecchiaia, il giovanilismo obbligato e ridicolo.
Fu anche arrogante, il 68, con l’ignoranza, il dilettantismo elevato a merito, la destituzione dei doveri a favore dei diritti, l’abolizione dei limiti. Ovvia la deriva estremista, che condusse alla stagione della violenza e del terrorismo, della glorificazione di ogni rivolta, a cominciare dalla rivoluzione cinese, dai miti di Che Guevara e dei vietcong (“Vietcong vince perché spara!”). Tossico lo fu certamente, tanto in senso figurato, quanto nel generalizzare – non di rado esaltare – l’uso di droghe e sostanze psicoattive, in cui la cultura radicale, il filone hippy incontrò l’onda permissiva, dionisiaca, orgiastica di sesso, droga e rock and roll. Ma fu anche conformista, nel senso che spense le idee di ieri per trovarsi al servizio del nuovo Signore anti borghese, anti popolare ma globalista e privatizzatore. La vecchia tradizione fu cancellata, riducendo tutti a gaudenti seriali, consumatori, spostati, senza famiglia.
Fu riduttivo nel senso che tutto venne circoscritto all’attualità, ad un presente lineare, un mondo di rimozioni successive sull’altare dell’attimo. Dalla modernità si transitò all’odiernità. Il bigottismo sessantottino di ritorno è assai bizzarro. Dalla libertà senza freni al politicamente corretto, alla polizia del pensiero, alla ribellione contro le parole. Dai vecchi ai nuovi parrucconi, ai quali, fallita la rivoluzione proletaria, è rimasta quella lessicale. Infine, Veneziani parla di smisuratezza; il 68 fu l’apologia dello sconfinamento. Di luoghi, sessi, popoli. Bombardati gli argini, fatta saltare ogni diga, il fiume ha travolto ogni cosa. Quel che è rimasto è un immenso ammasso di detriti irriconoscibili.
Se paragoniamo le conclusioni di Perniola e quelle di Veneziani, sovrapponendole come impronte digitali, ci stupiamo di constatare, al di là della diversità dei linguaggi, non poche analogie. L’espediente in fondo ingenuo del filosofo ex sessantottino divenuto cultore dell’estetica è quello di considerare una persona fisica considerata nemica delle proprie idee, Silvio Berlusconi, come l’incarnazione dei mali di una visione del mondo criticata dopo averla non solo condivisa, bensì attivamente promossa. Berlusconi è il prodotto- uno dei tanti- di un mondo che ha tutti i difetti smascherati da Veneziani, ma è solo un lato di una figura geometrica ben più complessa.
Il suo capitalismo felice, in fondo ancora legato al lavoro, aspira al consenso, alla legittimità, come osservarono Boltanski e Chiapello nel sottolineare l’unica vera differenza del nuovo capitalismo dalle mafie, ma non ha senso alcuno affermare che Berlusconi avrebbe “portato a termine un progetto di destrutturazione della famiglia “. Troppa grazia. Da Sigmund Freud al suo coerente epigono Wilhelm Reich ai professori di Francoforte, passando per le varie fasi della rivoluzione sessuale e del femminismo, ben altre sono le responsabilità. Alla TV di cui Silvio è un dominus si può rimproverare di essere stata corriva, cattiva maestra, o, seguendo Perniola, addirittura “cattiva madre”, ma non ha fatto che seguire la corrente, rafforzandola, peggiorandone il corso; certo non l’ha creata.
Quanto alla scuola o all’Università, le sue riforme sono state talmente numerose da rendere difficile persino citarle. Se Tullio De Mauro, insigne italianista divenuto ministro di un governo di sinistra, dovette riconoscere l’impressionante analfabetismo funzionale di milioni di italiani, anche diplomati e laureati, la colpa è del 68 e dei suoi numerosissimi falsi maestri, non del povero Silvio con le sue tre I, inglese, internet, impresa. Mezzi, non scopi al servizio della globalizzazione e di un capitalismo di cui neppure Perniola sembra cogliere del tutto la portata totalizzante.
Ciononostante, egli ci affida una riflessione capitale, non ancora adeguatamente sviluppata: lo smantellamento della scuola e dell’università hanno una motivazione epocale: “l’esistenza della borghesia non serve più al capitalismo, il quale oggi trova nella classe media un ostacolo all’espansione straripante del modello neo liberistico. “Azzerando ogni possibilità di ascesa socio economica, anche attraverso la svalorizzazione dei titoli di studio, con lauree e promozioni di massa, diventate obiettivi dell’azienda-scuola, non ci sono più ostacoli nell’assegnare cattedre, uffici, impieghi apicali e incarichi di potere ai più incompetenti, ignoranti e corrotti. In questo senso, tutti, in Occidente hanno fatto la loro parte. Berlusconi la sua, con l’aggravante, certo, di aver promesso un’equivoca “rivoluzione liberale” che ha realizzato solo nei tanti elementi deteriori e nel disprezzo ostentato per la cultura in cui tuttavia, la sua finta destra è in buona compagnia. Dal 68 e per vari motivi, conta solo la specializzazione tecnica, il resto è dilettantismo, come lamenta il maturo critico d’arte Perniola, molto diverso dal giovane situazionista di mezzo secolo prima.
Chi semina vento, raccoglie tempesta e certo non la può attribuire a un avversario politico dai pochissimi meriti, ma che non ha avuto né la forza, né il tempo e tantomeno la volontà di esercitare un potere distruttivo come dipinto dal quadro del pamphlet. Anche l’ottimismo da imbonitore un po’ texano e molto “ganassa” di Berlusconi viene considerato come prova a suo carico. La verità è che ne è pervasa l’intera società dello spettacolo in cui siamo immersi- un amico e sodale di Guy Debord dovrebbe insegnarlo. Lo stesso innegabile disprezzo berlusconiano per la cultura ha ascendenti antichi, da rintracciare nell’universo politico ideale vicino al primo Perniola. Pensiamo allo spontaneismo anti educativo di un Jean Jacques Rousseau, al suo pernicioso mito del buon selvaggio, a certi giacobini convinti che “la rivoluzione non ha bisogno di sapienti”, alle correnti più estreme del primo 68, come il Movimento del 22 Marzo, sino alla rivoluzione culturale cinese, che si svolse negli stessi anni dell’esplosione sessantottina in Occidente, tesa a cancellare i principi bimillenari del confucianesimo.
Se al seguito dell’immaginazione è andata al potere l’ignoranza, la responsabilità non è di Arcore, ma dell’entusiastica accoglienza dei principi teorizzati nella stagione degli anni 60 e 70. Del 1979 è La condizione post moderna di Lyotard, una sorta di presa d’atto dell’esaurimento di una civiltà diventata ripetizione, divagazione sul tema, manierismo. Di quello stesso periodo è il sorgere del “pensiero debole” attorno a Gianni Vattimo, altro allievo di Pareyson. Vattimo ha permesso il transito della cultura italiana dal relativismo ad un compiuto nichilismo, con l’aggravante che il pensiero cosiddetto debole è negatore della verità in nome di una verità rovesciata più alta e onnicomprensiva, ovvero l’assenza di verità. Nessuna civiltà si regge su anti principi. Pensiamo ai danni dell’anti psichiatria (anch’essa figlia dell’incontro tra il 68 e alcuni filoni marxisti).
La perdita più grave dell’ultimo mezzo secolo è stata l’assenza dell’idea di qualità. Riducendo ogni cosa alla dimensione orizzontale, quantitativa, si è disprezzata l’eccellenza, la profondità, l’elevazione, quelle che Evola chiamava linee di vetta. L’autorevolezza della conoscenza, della cui perdita sente nostalgia l’ultimo Perniola, è stata revocata in dubbio proprio da quel sessantottismo volgarizzato, sciatto, che cammina in ciabatte ed è il segno della repubblica anarcoide della quantità su cui il liberalcapitalismo ha costruito il proprio dominio. Berlusconi non c’entra nulla, purtroppo. Magari potessimo imputare a un solo uomo, o a un’unica corrente politica o culturale la decadenza in cui siamo immersi.
I canali della comunicazione globale, lo spiega Perniola, sono stati efficacemente descritti già dai filosofi Stoici, per i quali stolto è colui che cambia opinione da un momento all’altro, incapace di stare fermo, corre a precipizio verso il primo obiettivo che incontra, salvo pentirsi con facilitò di quanto fatto e cambiare improvvisamente direzione. Incapace di ascolto, inetto a elaborare valutazioni stabili e compiere scelte definitive. Sembra un affresco della società liquida, che non è un invenzione di Bauman, ma un’efficace definizione. L’attacco al 68 non poteva essere più devastante, tenuto conto delle virtù accolte nel pantheon di Mario Perniola, l’inclinazione razionale per il logos, la decenza, la socievolezza, il pudore, l’autodominio.
Ricordate le quattro virtù cardinali della tradizione cristiana, prudenza, fortezza, giustizia e temperanza? Parole diverse per esprimere concetti analoghi. Il Sessantotto ad una mente non ottenebrata doveva far presagire dall’inizio gli effetti che oggi scontiamo nella loro interezza: mancanza di qualità, nessun senso del limite, vittoria dell’ignoranza, un’immaginazione soggettiva priva di freni che è andata al potere senza sapere che farsene se non abusarne, cortocircuito delle virtù antiche, che anche il nostro filosofo (parzialmente) pentito mostra di rimpiangere, non sostituite da un nuovo sistema di valori diverso dal pensiero debole nichilista.
Caro filosofo illustre, esteta e critico insigne, colto, fine e brillante, non si attacchi a Berlusconi, un effetto tra i tanti di un tempo volgare, per nascondere le sue sconfitte. Del senno di poi sono piene le fosse, piange sul latte versato, ma è tra i molti che hanno acceso e alimentato la fiamma sotto il bollitore. Silvio, il pessimo Silvio, è soltanto un comodo capro espiatorio, uno specchio della cattiva coscienza di due generazioni italiane. Ne serviranno altrettante, e forse non saranno sufficienti, per cancellare il Sessantotto. Per disarcionare il Cavaliere è bastato manipolare lo spread.
  ROBERTO PECCHIOLI