domenica 31 ottobre 2021

MARCO TOSATTI - Il Matto: ma la Fede Sta Sempre Ferma? O c’è anche una Fede Vagabonda? 31 Ottobre 2021




Carissimi StilumCuriali, il nostro Matto ci offre una delle sue affascinanti e intriganti riflessioni sul mondo dello spirito, e sulla fede. Buona lettura., e – di sicuro – discussione. 

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C’È ANCHE LA FEDE VAGABONDA

«Ogni parola costituisce una specificazione, una ramificazione, che anzitutto si distacca dal tronco del linguaggio, poi però anche dalle sue radici, dove abita il silenzio. Il silenzio è più potente di qualsiasi linguaggio, di qualsiasi nome, di qualsiasi parola. Lo stesso vale per ogni immagine che, nel suo linguaggio figurativo e simbolico, rappresenta un’apparenza, una specificazione, una delimitazione dell’indistinto. Nell’immagine e nella parola, nelle forme e nei loro nomi si incontrano dunque degli avamposti. Dietro l’immagine vi è l’indistinto nella sua pienezza, dietro la parola l’uomo nella sua silenziosa potenza».

Ernst Junger, Della forma.

 

Che fa la fede?

Crede e basta?

Se ne sta ferma e saldamente aggrappata al suo oggetto?

E qual è quest’oggetto? Dio?

Perciò la fede si limita a “credere in Dio”?

E ancora: la fede  è un atto della volontà umana o una grazia divina?

Oppure è un inesplicabile incontro fra volontà umana e grazia divina?

 

Ma poi questa parola: “Dio”, appresa dal Libro Sacro che è il supporto iniziale indispensabile alla fede – non può nascere una fede in senza una proposta da – è bastante o ha bisogno di essere continuamente autenticata da quanto scritto nel Libro Sacro e nei suoi derivati?

 

Se è così non è una fede diretta bensì mediata, un credere in ciò che è scritto “di” Dio. Perciò, per dirla con Maestro Eckhart, si tratta di un «Dio pensato» (dato che ciò che si legge è pensiero), un Dio che sparisce non appena il pensiero non lo pensa perché pensa ad altro, un Dio oggettivato, intermittente, e di conseguenza irrimediabilmente posto davanti. Un Dio sperato perché dapprima creduto.

 

Ma cosa resta nella mente se si toglie la parola “Dio”? Cosa resta se si toglie questa oggettivazione? E se togliendo la parola “Dio” e tutte le parole che ne dicono questo e quello restasse … Dio?

 

Il Libro Sacro non è Dio, bensì la Parola “di” Dio. Ma, più precisamente, una sequela diparole che per ispirazione dicono “di” Dio. E ciò, a maggior ragione, vale per i derivati del Libro Sacro di qualsiasi specie.

 

«In principio era il Verbo»: Parola impronunciabile, Sintesi ineffabile poiché infinita e precedente infinitamente la pluralità della Creazione, quindi la pluralità delle parole contenute nel Libro Sacro scritto da esseri umani, i quali, seppur ispirati, non han potuto evitare i limiti del linguaggio articolato in una pluralità di parole che indicano la Parola, riferiscono “della” Parola senza poterla né raggiungere né esaurire (si tralascia qui l’aggravante delle traduzioni).

 

L’Ispirazione divina che ha dato origine al Libro Sacro non è pensiero. Il pensiero è ombra, l’Ispirazione è Luce. Il Libro Sacro nasce dal Non-pensiero, cioè dalla Luce. Rivelandola, il Libro Sacro diventa l’ombra (necessaria, almeno inizialmente) della Luce. La Luce non è pronunciabile né scrivibile, quindi, nella sua iper-eterica essenza, non comunicabile né apprendibile attraverso le parole. La Luce è infinitamente di più delle parole.

 

Per inciso, un’interessantissima coincidenza viene dalla Tradizione cinese:

 

“Il Tao che si può pronunciare non è il Tao”,

 

che è l’incipit del Tao Te Ching, il Libro della Via e della Virtù, oppure, più profondamente, il Libro del Principio e della sua Azione. Insomma il Libro del Verbo che è Principio e Via nonché Azione e Virtù, come dire un’Immensità non afferrabile e catalogabile dal pensiero.

 

«È luminoso e chiaro, è completa tenebra, è senza nome, è sconosciuto, senza inizio né fine, se ne sta in pace, / nudo, senza veste».

 

Maestro Eckhart, Il Nulla divino.

 

Allo stesso modo, la Parola che si può pronunciare non è la Parola.

 

Nel Verbo «era la vita e la vita era la luce degli uomini».

 

Di nuovo, la (Vita)Luce è impronunciabile poiché inafferrabile dall’ombra del pensiero. Le parole esprimono il pensiero che le precede, le prime come il secondo restando nei limiti della relatività. Pensieri e parole non possono cogliere l’Assoluto; possono soltanto riferirsi ad Esso, relazionarsi ad Esso in modo umbratile, quindi fatalmente non esaustivo. Esso non può essere che circo-scritto. Infatti l’etimo ci dice che “assoluto” significa sciolto, libero, indipendente da vincoli. Nessun pensiero e linguaggio possono accaparrarsene.

 

O anche: la Parola è Luce, perciò è bianca, ed il Libro Sacro ne è il colore. Propriamente, il bianco non si può rappresentare, invece il colore sì, cosicché esso è un mediatore del bianco, come un vetro colorato, filtrandola, è mediatore della luce; e allora il colore è, sì, la luce, ma indiretta, mediata, non palese nella sua bianchezza.

 

I Libri Sacri delle varie Tradizioni sono altrettanti Colori della Bianca Luce, cioè del Verbo, della Sapienza che era in principio ed ha creato e pervade l’universo.

 

« La sapienza è il più agile di tutti i moti;
per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa».

 

«La gloria di colui che tutto muove

per l’universo penetra, e risplende

in una parte più e meno altrove».

 

O ancora: la Parola è il bianco della pagina su cui sono vergate le parole ispirate: il nero dell’inchiostro è possibile grazie alla sua negazione che è il bianco. Ogni affermazione si palesa dalla sua negazione. Il sensibile si palesa dal sovra-sensibile, il suono dal silenzio, i numeri dall’unità, il pieno dal vuoto, la forma dalla non-forma, il pensabile dal non-pensiero, il noto dall’ignoto, l’ombra dalla luce. Le pagine più eloquenti del Libro Sacro sono scritte con l’acqua.   

 

E la Parola essendo Luce, non è una parola, cioè un’ombra, né, tantomeno, può essere imbrigliata dalle parole. La parola “luce” non è la Luce. Così, la parola “Dio” non è Dio.

 

«I s’appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso de’ mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene».

 

Il Poeta centra perfettamente la questione:

il nome di Dio pronunziato per la prima volta dall’uomo non è El, come nel Libro Sacro, bensì I , ossia (e qui vi è un mistero) … l’impronunciabile Iod dell’impronunciabile Tetragramma: Iod-He-Wav-He: Io Sono Colui Che Sono: l’eterno (Non) Nome di Dio.

 

La fede, pur legittima s’intende, che si ferma a ciò che è detto “di” Dio è una fede cristallizzata, circoscritta, timorosa di ogni alterità e perciò tendente a costituirsi come barricata invalicabile, come fondamentalismo esclusivista, quindi come causa di discordie e conflitti religiosi, atteggiamento, occorre dirlo, in cui anche i Cattolici, almeno i più “ortodossi”, sono stati e sono particolarmente ferrati, attaccati come sono alle lettere del granitico apparato scritturale e dottrinale puntellato da dogmi, profezie, teologie, codici quant’altro: una fortezza senza feritoie.

 

Ma se Dio è l’Immenso, cioè l’Immensurabile, il non detto di Dio è immensurabilmente di più di ciò che è detto in tutti i Libri Sacri di tutte le Tradizioni e dei loro derivati, e che per quanto esteso costituisce pure sempre una misura, una delimitazione, una forma. La Luce è immensurabilmente di più delle ombre per quanto numerose esse possano formarsi. La Luce è immensurabilmente oltre tutto ciò che reca tracce umane. L’aureola, il disco aureo che adorna la testa dei Santi, è indice della Luce che immensurabilmente trascende l’umanità e tutto ciò che essa può concepire intorno alla Luce e  testimoniarne, dacché anche ogni testimonianza è una forma, quindi una traccia. La Luce è immensurabilmente al di là di ogni traccia.

 

D’altronde, il Credo cattolico dice di un Dio creatore di «tutte le cose visibili e invisibili», è non è che l’invisibile, il non sensibile, l’impercettibile, il non afferrabile dalla mente ordinaria, debba essere considerato meno del visibile. Verosimilmente, anzi, come rivela il frammento di Eraclito:

 

«l’armonia invisibile è una sfera perfetta e incontaminata. Quella visibile, invece, si deforma continuamente sotto il peso della realtà».

Mentre, secondo Blaise Pascal:

«l’atto supremo della ragione è comprendere che ci sono un’infinità d cose che la superano».

 

E Agostino avverte:

 

«Se lo comprendi non è Dio».

 

Si dice che il vivere cristiano consista nell’incontro con Cristo quale Persona, ciò che non si può negare, ma senza dimenticare che tale incontro rientra nello sterminato, incontrollabile (e pericoloso) campo della mistica, nel quale è molto facile “vedere” e “sentire” quel che si vuol vedere e sentire. E poi, anche tale incontro non trascende pensieri e parole e quindi tanto il Libro Sacro quanto ogni dottrina che ne è stata elaborata? Che ne sapeva del Libro Sacro, della dottrina e del diritto canonico il cieco di Gerico che incontraCristo e ne viene guarito pur non essendo un esperto in raffinati sillogismi dogmatici? Che fede era quella di Bartimeo se non uno slancio inaudito – e “cieco”! – del cuore vuoto e leggero, eccelsamente superiore al pieno di dottrina e diritto canonico?

 

E che dire della vedova di Nain, che si vede resuscitato il figlio addirittura senza aver manifestato la sua fede, ed anzi non si sa se l’avesse? E che ne sapevano il cieco e la vedova del papa che ancora non esisteva? Che ne sapevano del “munus” e del “ministerium”? E non erano essi degli autentici Pubblicani scevri da pesi farisaici? «O Dio, abbi pietà di me» non è la medesima invocazione pronunciata dal cieco e dal pubblicano?

 

Anche Cristo si serve di parole: «va’, la tua fede ti ha salvato», dice al cieco, e «giovinetto, dico a te, alzati!», dice al figlio della vedova, ma sono parole didattiche per gli astanti e per i posteri, non certamente necessarie a Lui, che infatti guarisce a distanza il servo del centurione, senza parlargli direttamente: «E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito».

 

E qui, sia  detto senza sarcasmo ma con estremo vigore, sorge lo scandalo per gli indottrinati: c’è anche una fede vagabonda perché pura, stigmatizzata dalla pur legittima fede stanziale-convenzionale che non ne ammette (perché non la vede dalla sua fortezza senza feritoie) la libertà di avventurarsi nell’infinita altitudine del Cielo dell’Anima, impresa trasvolante che richiede coraggio e ali instancabili, e che procede perché procede, senza alcun paralizzante “perché”; senza pianeti e satelliti che destino un interesse definitivo per essere esplorati. Oltre pianeti e satelliti, oltre i sistemi solari, oltre le galassie, la fede vagabonda vola … vola … oltre … oltre …

 

L’Oltre, l’Immenso,  motivo mistico universale:

 

«Gate, gate, paragate, parasamgate»: «Andato, andato, andato all’altra riva, approdato all’altra riva», recita il Sutra del Cuore.

 

«In questa immensità s’annega il pensier mio

e il naufragar m’è dolce in questo mare», recita la stupenda Poesia.

 

Una fede vagabonda che è sempre povera e ignorante dato che tutto ciò che le si propone è pur sempre “qualcosa”, cioè un relativo e non l’Assoluto. In questo senso, una fede secondo quanto ne dice profondamente Martin Heidegger in Introduzione alla metafisica:

 

«La fede che non si espone costantemente alla possibilità dell’incredulità non è neppure una fede».

 

Perciò una fede vagabonda che si slancia verso l’incredibile; verso ciò che è ognora fuori della sua portata; oltre ciò che per grazia e volontà riesce a credere, perciò oltre se stessa; oltre le sue possibilità; oltre la certezza/appoggio della cristallizzazione scritturale, dottrinale e legalistica; perciò oltre ogni mediazione esercitata da uomini; oltre ogni pensiero e parola:

 

«trasumanar per verba non si poria».

 

Ma anche oltre ogni immagine, che è anch’essa una forma di pensiero, una relatività, una coagulazione irriducibile.

 

L’Assoluto non reca tracce umane, bensì è l’umano che  reca tracce dell’Assoluto, che è la Perla preziosa per acquistare la quale la fede vagabonda «va e vende tutto». E “tutto” significa … tutto!

 

Una fede vagabonda, monastica in modo specialissimo: la fede del monos, del solo che accetta virilmente di procedere da sola:

 

«O beata solitudine
o sola beatitudine
per chi ama il pio monachesimo!
Come sono beati gli eletti
che con le loro ali volano da te,
lontano dalle persone mondane!».

 

(Corneille Muys, 1503-1572,  Solitudine, ovvero lode della vita solitaria).

 

La «fuga del solo verso il Solo» di Plotino.

 

«Non puoi raggiungerLo senza uscir di te stesso: tutta la tua vita deve essere un balzo in avanti, non un procedere ordinato ma come un salto sempre ripetuto verso l’Ignoto. Una delle espressioni più belle di S. Francesco di Sales è appunto la definizione di questa vita tesa a un Termine che sempre sfugge, che sempre rimane al di là dell’esperienza umana, irraggiungibile, trascendente: estasi dell’azione.

Dio non puoi raggiungerlo senza uscir di te stesso; la tua vita non è riposo né puoi trovare riposo, non puoi essere contento di nessun risultato ottenuto, di nessuna perfezione raggiunta: devi uscire, uscir di te stesso in un continuo sforzo di superamento, in un continuo balzo in avanti. Dio rimane sempre di là: lo raggiungi solo nell’atto in cui esci di te e ti abbandoni all’amore gettandoti nel vuoto, come nel nulla».

 

Divo Barsotti, La fuga immobile.

 

 

Una fede vagabonda, inconcepibile e perciò eretica per chi, pur legittimamente lo si ripete,  si accontenta di ciò che può credere; di ciò che lo convince; di ciò che gli da fiducia e a cui si aggrappa: il Libro Sacro e i suoi derivati.

 

«Solo la consapevolezza raggiunta nell’inseguire la struggente luce interiore ci permette di comprendere cosa sia la fede».

 

Dag Hammarskjöld, Tracce di cammino.

 

 

La Luce interiore non è una parola, un concetto, un discorso, un codice, un dogma. La Luce non è un’ombra. La Luce È Luce.

 

Oltre … al di là … al di là dell’aldilà … indefinibile e impronunciabile … immensurabile … la Luce Suprema dell’Assoluto incredibilmente STA.

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