sabato 12 maggio 2018

Luca Telese: “Berlusconi è risorto e adesso chi vuole davvero sconfiggerlo dovrà prendere più voti di lui”



(di Luca Telese – tiscali.it) – 
Il Cavaliere riabilitato? Bene, i primi a far festa siano i suoi nemici. Credo che non solo Silvio Berlusconi dovrebbe essere contento della propria riabilitazione, ma anche che la sinistra, anche il Pd che lo fece decadere con un voto parlamentare a maggioranza, anche Luigi Di Maio e Beppe Grillo che lo hanno eletto ad archetipo, anche il Fatto quotidiano, anche i suoi peggiori avversari politici, anche i nemici del “Caimano” e degli “psiconano”, persino i sui detrattori seriali e ossessivi dovrebbero condividere questo sentimento.

Pena espiata

Dovrebbe gioire chi non lo ha mai votato (e mai lo voterà) come me, anche chi si sente non-berlusconiano, senza avere la pretesa di fare di questo sentimento una religione civile, una identità, una valore discriminante o un inventivo strumento di marketing. Questo dovrebbe accadere non solo per via di un principio civile che vale per tutti, per l’idea quasi banale, cioè che le pene si possano espiare, sempre e comunque, e che una volta pagato il conto con la giustizia si ritorna alla cittadinanza piena...
Ma anche per qualcosa che attiene alla radice profonda della politica belligerata di questi anni, al dilemma italiano, al rompicapo del puzzle in cui i pezzi non tornano mai al loro posto. Dal 1994, ci piaccia o no, Silvio Berlusconi ha inciso il suo segno nella vita nazionale: ha vinto elezioni, ne ha perso, è stato premier, ha fatto e disfatto partiti, ha raccolto consensi che in alcune fasi sono stati addirittura maggioritari è morto e risorto, finito in purgatorio, poi all’inferno, quindi di nuovo in paradiso. Ha spolverato la sedia nell’arena gladiatoria della sua storia pubblica e controversiale.

Tutto iniziò con il “discorso della calza”

Berlusconi è diventato canzonetta, slogan, gingle, logo, aggettivo, sostantivo, epiteto, identità, bibliografia ed invettiva, è diventato addirittura – e più volte – lungometraggio, esercizio di stile per cineasti. Quando tutto questo è iniziato, con il “discorso della calza” (che poi fra l’altro non era una calza, ma questa è un’altra storia), l’Italia è il paese che amo, il nostro fragile sistema di regole era assolutamente impreparato a gestire il conflitto di interessi che la sua discesa in campo avrebbe determinato. Non solo quello di Berlusconi, ma qualsiasi conflitto di interessi di tipo politico, visto che l’unico testo di cui disponeva il sistema italiano era una leggina democristiana pensata per qualche gran commis d’etat degli anni sessanta, molto prima che esistessero concessioni televisive, gruppi editoriali dominanti, intrecci politico-informativi. La relazione a questo cortocircuito è stato il sommarsi e configgere di sentimenti opposti estremi come l’esercizio dell’impunità e il proliferare delle inchieste: entrambi esibiti – come era prevedibile – in forma eccessiva e propagandistica, entrambi esercitati senza nessun equilibrio.

Una condanna risibile

Il prodotto finale di un quarto di secolo di processi, il topolino partorito dalla montagna è stato un risultato ridicolo: la messa fuori dal gioco elettorale di Berlusconi per via di una condanna risibile, e in virtù di una norma – la legge Severino – applicata in maniera retroattiva e (di fatto) solo per lui e per un ragazzo dei centri sociali di Rifondazione Comunista, eletto come consigliere comunale a Roma (un certo Andrea Alzetta detto “Tarzan”). Un po’ poco, sia detto, rispetto allo spettacolo indecoroso della politica italiana di questi anni, allo scenario di condanne, processi, protagonisti, guitti e reprobi impuniti che si sono avvicendati spavaldi sulla scena.

Un provvedimento (contro) ad personam...

La sola idea che si potesse uscire da questo romanzo nazionale con la squalifica – di fatto – di un solo contendente, con una legge che viene modellata come un provvedimento ad personam, mi è sempre sembrata grottesca e ridicola. Così come mi pareva incomprensibile il sentimento di vittimismo alimentato da una evidente sperequazione. Non si poteva illudersi di togliere Berlusconi dalla scena con un anatema o con uno scongiuro. E non era legittima – secondo me – che per i suoi nemici la vittoria in una guerra decennale, fosse conquistata solo con la messa in mora, per effetto di un artificio giudiziario-parlamentare (votato, ironia della sorte, persino dai suoi avvocati, ed amministrato dai suoi avversari politici) ed attuato dal partito che allora era il principale contendente.

Il voto unico discrimine

Oggi, dopo questo verdetto, amici e nemici debbono rassegnarsi all’idea che in una democrazia matura i problemi e i conflitti di Potere si possono risolvere in un solo modo: con l’esercizio del voto e con la misurazione del consenso. Dopo un quarto di secolo di storia politica e giudiziaria mi sembra quasi bello – oggi – che a decidere come risolvere la vicenda politica del Berlusconismo non siano più i cavilli bizantini di qualche corte d’appello o gli alambicchi normativi di qualche commissione parlamentare, ma il voto. Alla fine la domanda è questa: il berlusconismo è una ideologia destrutturata e vitale della destra italiana capace di avere cittadinanza anche nella terza repubblica, o è ormai solo una eredità crepuscolare che si spegne in un tramonto malinconico per consunzione naturale?
Nessun verdetto può essere pieno senza che la parola fine sia scritta con l’inchiostro di questa risposta: se il Cavaliere vincerà o perderà la sua sfida finale con il tempo, ormai, possiamo essere solo noi (elettori) o deciderlo. Nulla di più epico, nulla più drammatico. Nulla di più bello.

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